ISOLA
DI PASQUA – Isla de Pascua – Rapa Nui – Easter Island -Te Pito o te Henua
AGOSTO
2000 – la Polinesia dei Misteri
Prologo:il
fascino del mistero e dell’isolamento di questa lontana terra mi aveva
attratto sin da piccolo ma non avrei mai immaginato un giorno di calpestare
il suo suolo…ed invece… In effetti bisogna avere delle forti ragioni
romantico-culturali per arrivare in questa remota isola poichè è
veramente lontana da tutto ! E’ raggiungibile solo da Tahiti e da Santiago
del Cile tramite voli due volte la settimana della Lan Chile che hanno
una durata di 5-6 ore. In genere il soggiorno non supera i 3-4 giorni,
più che sufficienti per la visita completa dell’isola. Per “capire”
meglio però lo “spirito” del luogo e dei suoi abitanti (circa 2000)
consiglio calorosamente di “vivere” prima un pò
l’altra Polinesia, quella “canonica” Francese del sole e delle spiagge
bianche tropicali per permettere di acquisire ed assorbire un poco di cultura
Polinesiana.
Andare infatti
all’Isola di Pasqua semplicemente dopo aver letto un libro o peggio dopo
aver visto il famoso film “Rapa Nui” equivarrebbe probabilmente a rimanere
delusi.
Per darvi
l’idea di quanto sia isolata questa grande “roccia” (patrimonio dell’umanità
– Unesco) di 166 Kmq, spuntata a causa di fenomeni vulcanici dal profondo
dell’Oceano Pacifico, vi basti sapere che è distante 4.100
km da Tahiti e 3.700km
dalle coste del Cile e che la terra abitata
più vicina (1.900 km)
è l’isola di Pitcairn,
uno sperduto scoglio dove vivono qualche decina di discendenti degli ammutinati
del Bounty …non per niente l’Isola di Pasqua fu definita da uno scrittore
<< l’isola la cui terra più vicina
è la Luna ! >>.
Posta all’estremo
vertice orientale del “triangolo polinesiano”
rappresenta uno dei luoghi dove approdarono ufficilamente nel 400 d.c.
(o nel 1200 d.c. come le ultime datazioni ipotizzano) le ultime migrazioni
provenienti dai mari del Sud (le ultimissime migrazioni furono invece nelle
Hawaii nel 600 e nella Nuova Zelanda nell’ 800 e cioè negli altri
due vertici del “triangolo”).
A seconda
dei visitatori l’isola ebbe molti nomi tra cui: Te Pito o te Henua (l’ombelico
del mondo , Rapa Nui (la grande isola/roccia), Isola di Pasqua (perchè
vi sbarcò l’olandese Jacob
Roggeveenil giorno di Pasqua del 1722).
In apparenza
è una terra molto vuota e desolata, con ampi spazi brulli completamente
disabitati, dove non c’è nulla e nessuno, dove spira sempre il vento
e cade spesso una triste e lenta pioggerellina, un posto che impressiona
perchè dimenticato da Dio e dagli uomini, dove i cavalli selvaggi
corrono sulle colline, dove le scogliere sono sempre torturate da un mare
tempestoso, dove il cielo è spesso plumbeo, dove tutto il paesaggio
è nero per la roccia vulcanica e dove le grandi statue degli antenati
polinesiani, fiere, sfidano il tempo e la solitudine.
Questo è
lo scenario giusto per afferrare la maledetta storia di un antico popolo
che è riuscito ecologicamente e politicamente ad autodistruggersi.
Vi racconto
la storia dell’isola perchè ha molto da insegnarci:
Rapa Nui era
un’isola verdissima dove crescevano una grande varietà di piante
(analisi dei pollini) tra cui moltissime palme ed alberi (soprattutto Toromiri)
che formavano delle lussureggianti foreste. Anche la fauna avicola era
ricchissima, infatti, essendo l’unica isola nel raggio di moltissimi chilometri,
si concentravano molte specie di uccelli sia marini, sia terrestri come
sule, gufi, aironi, rallidi e pappagalli.
I primi Polinesiani
arrivarono intorno al 400 d.c., probabilmente erano poche decine di uomini
di razza Maori provenienti dall’attuale Polinesia Francese. Con loro portarono
tutti i mezzi per la sussistenza tra cui le galline, i topi commestibili,
forse i maiali (usati spesso come “rilevatori di terra” a causa del loro
fine olfatto) ed una serie di piante da coltivare come la patata dolce,
il banano, la canna da zucchero, il taro ed altre.
Poichè
il suolo era vulcanico e quindi fertile, le piante importate si riprodussero
con successo ed il momentaneo benessere fece crescere di molto la popolazione
che disboscò sempre più le foreste dell’isola per avere a
disposizione nuovi terreni da coltivazione. Anche i topi fecero la loro
parte mangiando i semi delle palme.
Il crescente
bisogno di legna da ardere, per fare canoe o per trasportare i “Moai” (le
famose statue di pietra) unita al disboscamento agricolo fece inesorabilmente
scomparire ogni albero sull’isola nel giro di un millennio con conseguenze
disastrose: le piogge incominciarono ad erodere il suolo privo di protezione
vegetale causando l’impoverimento della terra e quindi diminuendo la resa
agricola proprio quando la popolazione era al suo culmine demografico (circa
9000 anime). L’erosione portò anche la siccità e molti corsi
d’acqua si prosciugarono.
La mancanza
di alberi, poi, impedì la costruzione di nuove canoe “imprigionando
per sempre ” questa popolazione sull’isola ed impedendo agli abitanti di
andare a pesca per catturare pesci e delfini, una delle principali fonti
di cibo.
Così
si incominciarono a mangiare (oltre al pollame domestico) tutti gli uccelli
autoctoni dell’isola, sterminandoli completamente. La fame spinse la popolazione
ad atti di cannibalismo e il malessere sociale portò nel secolo
1600-1700 alle guerre tra clan e quindi alla diminuzione del numero degli
abitanti (circa 2000).
Già
quando nel 1722 sbarcò l’olandese Roggeveen l’isola era una brulla
e desolata terra abitata da pochi disgraziati affamati ed in lotta tra
loro e quando
James Cook
sbarcò nel 1774 trovò molte statue Moai abbattute.
Le guerriglie
interne e l’abbattimento dei Moai continuò sino a che gli abitanti
non furono definitivamente sterminati da altre due piaghe: lo schiavismo
soprattutto americano e le malattie portate dagli europei. Quando Rapa
Nui divenne parte del Cile nel 1888 rimanevano meno di cento indigeni quasi
tutti vecchi e malandati condannati all’estinzione genetica. Una decina
di loro cercò di incrociarsi con altre popolazioni per tramandare
almeno parzialmente la razza polinesiana.
L’Isola
di Pasqua ora fa parte del Cile che lascia loro ampia autonomia locale,
sono però molti i movimenti separatisti. Pochi giorni dopo la nostra
visita (precisamente nel Settembre 2000) fu issata per la prima volta
la loro bandiera (vedi in alto) raffigurante un “reimiro” rosso, un oggetto
cerimoniale del loro antico passato.
Quel poco
che rimane della civiltà Rapa Nui quindi deve rappresentare, secondo
me, il monito per l’uomo “moderno”: una grande lezione da una piccola isola
! Il piccolo e fragile ecosistema dell’Isola di Pasqua deve raffigurare
simbolicamente la nostra “terra” . L’uomo, abituato a manipolare pesantemente
l’ambiente, cerca di sfruttarne da sempre le risorse spesso senza pensare
alle conseguenze, avvicinandosi pericolosamente a quel “punto di non ritorno”
che condannerebbe la civiltà umana alla stessa fine subita dagli
abitanti dell’Isola di Pasqua.
Con questo
non voglio condannare il progresso…anzi…ma semplicemente spingere le
persone a pensare ad uno sviluppo più compatibile con l’ambiente.
Il viaggio:Partimmo
il 21 Agosto all’ 1,15, in piena notte, dall’aeroporto di Tahiti
Faa (Papeete, Polinesia Francese) con il volo
Lan
Chile LA 834 (5 ore e 20 minuti su un B 767-300).
Scoprimmo
subito gli svantaggi del monopolio aereo della Lan Chile per quanto riguarda
l’Isola di Pasqua…infatti il servizio a bordo fu il più schifoso
che abbia mai trovato in tutti i miei viaggi della mia vita !
La scortesia:
poco prima del decollo, durante l’interminabile attesa sulla pista per
motivi tecnici, ho chiesto da bere e mi sono sentito rispondere scocciatamente:
<<più tardi…quando passeremo con la cena !>>.
La pulizia:
l’aeromobile, nonostante partisse da Tahiti (che quindi non rappresentava
uno scalo intermedio) e nonostante fosse parcheggiato da un pò sulla
pista era sporchissimo: molte cartacce per terra, bicchieri di plastica
usati nella tasca frontale e persino un fazzoletto sporco sopra le mie
cuffie scartate !
Il cibo:
chiamarlo cibo è un’esagerazione! La cena fu un panino tristissimo
con dentro una foglia d’insalata appassita ed un quadretto minuscolo di
arrosto insapore e grasso che non copriva neanche un quarto della superficie
interna disponibile. Un panetto squagliato di burro completava la dotazione.
Il servizio:
scadente ! Pensate che durante il viaggio probabilmente il personale di
bordo deve aver dormito, dal momento che non si è fatto vivo. Pochi
minuti prima dell’atterraggio ho visto scattare le hostess di corsa verso
la coda dell’aereo (per un attimo ho avuto paura…ho pensato ad un’emergenza)
per prendere i vassoi della cena (che si erano scordati di servire !) e
poichè eravamo oramai alla fine del viaggio non hanno avuto il tempo
di riempire i bicchieri, in pratica una cena “a secco” !
Volo:
agitato…a causa delle molte turbolenze ! e se tanto mi dà tanto,
mi chiedo se i piloti abbiano avuto una parte di responsabilità
!
Arrivammo
la mattina alle 10,35 (- 8h rispetto l’Italia in questo periodo) all’aeroporto
Mataveri
dell’Isla de Pascua (una curiosità:
l’aeroporto è predisposto come pista d’atterraggio d’emergenza per
gli Space Shuttle, 7 milioni di US$ d’investimento ! …anche se attualmente
le piste più accreditate sono Ben Guerir in Marocco [militare],
Yundum International Airport in Gambia [civile], Moron e Saragozza
in Spagna [militari]) e dopo aver sbrigato le formalità doganali,
un pulmino/taxi ci portò nella vicina Hanga Roa (unico villaggio
dell’isola e quindi capoluogo) dove a pochi metri da un’ altissima scogliera
a picco sull’Oceano sorgeva in direzione del tramonto il nostro albergo:
lo
Iorana Hotel. Lo Iorana è, insieme
all’Hotel Hanga Roa,
uno degli alberghi migliori di Rapa Nui, il che (per fortuna) non vuol
dire lusso, folla e vita notturna, bensì una serie di stanzette
molto piccole al piano terra, molto modeste, arredate come le vecchie pensioncine
di Parigi, tutte con entrata indipendente (una specie di bungalows a schiera)
con vista sulla scogliera nera resa nebbiosa dal frangersi delle onde.
Le camere
erano quasi tutte vuote (in albergo eravamo 3 coppie su circa un centinaio
di stanze), ed un silenzio quasi irreale faceva da padrone, interrotto
solo dal fragore di un maroso o dall’abbaiare in lontananza di un cane
randagio.
Una porta
a vetri dava su una piccola veranda da dove si poteva annusare la salsedine
portata dall’incessante vento ed ammirare, verso l’interno, la desolata
prateria alternata alle brulle colline dalle quali sorgeva spesso un arcobaleno
(sono frequenti le brevi pioggerelline) dal forte contrasto cromatico,
unico tocco di colore in un mondo in “bianco e nero”.
Una “magnifica
desolazione” è l’espressione giusta
(presa in prestito dal primo uomo che sbarcò sulla Luna) per definire
l’Isola di Pasqua !
Il pomeriggio
iniziammo l’esplorazione a bordo di un vecchio pulmino cigolante. Purtroppo
la guida in lingua italiana era in ferie, quindi ci toccò il primo
giorno una escursione in lingua inglese, il secondo giorno in lingua spagnola
(la lingua ufficiale del Cile , poi il terzo ed il quarto giorno
trovammo una diversa agenzia turistica locale con un Rapanui
(si
chiamano così gli abitanti ed il dialetto dell’Isola di Pasqua)
che parlava italiano.
Da notare
che spesso le guide raccontavano particolari diversi e contrastanti tra
loro su uguali argomenti trattati a seconda della preparazione e soprattutto
delle convinzioni personali che avevano…quindi consiglio di rivedere
bene (magari tramite testi ufficiali) quelli che sono gli aspetti meno
generali e noti. Talvolta spacciavano per accertate e sicure notizie che
per ora erano solo teorie da accertare…e sugli antichi abitanti di Rapa
Nui quasi tutto è supposizione e teoria poichè la tradizione
si è tramandata oralmente (tramite le poche decine di superstiti
alla schiavitù che fecero ritorno dalle piantagioni del Sud America)
e le sole cose scritte (le
tavolette di Rongo Rongo) non sono ancora
state decifrate con certezza.
Il
primo giorno fu dedicato all’estremo sud dell’isola. Le parti interessanti
furono il misteriosissimo muro (in località
AhuVinapu)
simile a quelli costruiti dagli Incas in Perù
ed il vulcano Orongo.
Quest’ultimo
è uno dei due vulcani spenti (che fungono da bacini di raccolta
delle acque piovane e dove cresce la canna usata nell’artigianato locale…ricordate
quei piccoli surf del film ?) perfettamente tondi con i coni ancora abbastanza
intatti e ben definiti. Questo vulcano, insieme all’altro (Rano
Raraku) diede il primo nome all’isola (non
ricordo) che voleva dire “gli occhi che guardano il cielo”. Da questa parte
dell’isola si può godere di un paesaggio mozzafiato dal quale si
possono ammirare i “motu”
(piccoli scogli) di Kao-Kao,
Iti
e Nui protagonisti
delle gare che si facevano in occasione della festa dell’uomo-uccello (Manutara).
Queste sanguinose
gare consistevano nello scendere dalla scogliera verticalissima nei pressi
del vulcano Orongo sino al mare, nuotare con il piccolo surf di canne in
un mare freddo, infestato dagli squali e reso pericoloso dalle correnti
marine (bisognava nuotare con una traiettoria “coperta” dagli scogli perchè
una direzione diversa portava inesorabilmente a largo e quindi alla morte
), arrivare sino ai “motu”, prelevare un uovo di “sula”
(un uccello marino oramai estinto sull’Isola di Pasqua per mano umana e
che fu riportato a Rapa Nui in occasione del film di Kevin Costner), metterlo
in una sorta di “marsupio” legato intorno alla testa, tornare a nuoto sull’isola
madre, scalare a mò di “free climber” di nuovo la scogliera e portare
l’uovo “intatto” per primo al cospetto del re e dei sacerdoti. Il vincitore
permetteva per un anno il governo del re appartenente al proprio clan.
Chiaramente queste gare erano effettuate solo dai clans dei “lunghi orecchi”
(i nobili chiamati così per gli ornamenti sulle orecchie) che dominavano
sui plebei “corti orecchi” , costretti in schiavitù a costruire
le grandi statue di pietra…sino alla loro ribellione finale.
Presso il
tratto di costa dove avvenivano queste cerimonie si possono ammirare antichi
“petroglifici”
(immagini scolpite nella roccia).
La sera cenammo
in Hotel in un silenzioso salone vista-tramonto dove servivano delle giovani
ragazze vestite con i tipici abiti cerimoniali polinesiani. Purtroppo la
carta dei menù che ci avevano portato era quasi tutta non disponibile
e quindi ci accontentammo di quel poco che avevano (comunque buono) a base
di carne e “tuna” (tonno).
Ci spiegarono
che delle decine di specie di pesci commestibili esistenti nelle acque
profonde intorno l’isola venivano oramai pescate solo tre: una era il tonno
(sempre presente nelle tavole), le altre due il Paratoti (un pesce simile
allo sgombro) ed il Sierra (dalla cane bianca), ma bisognava ordinarle
con qualche giorno di anticipo…in più (sempre su ordinazione preventiva)
venivano catturate (e vendute a peso d’oro) le “angoste” (aragoste).
Il giorno
dopo di buon mattino continuammo il giro dell’isola risalendo la costa
in senso antiorario, verso Est e poi Nord. Prima però feci una sosta
in paese per fare un pò di compere (statuette di pietra, orecchini
in piuma di gallina, tavolette incise di legno, magliette turistiche…)
al mercatino “all’aperto” (solo una tettoia per la pioggia) del villaggio
dove i prezzi erano decisamente migliori rispetto il “mercato coperto”
ed ordinato sempre ad Hanga Roa.
Lungo la strada
visitammo una serie di piattaforme cerimoniali (Ahu)
e molti Moai
interi e distrutti, in piedi o caduti.
I Moai sono
le statue di pietra costruite dai clans dei corti lobi su ordine dei clans
dei lunghi lobi per ragioni onorifiche sia verso personaggi importanti
che verso gli dei o semplicemente per commemorare un evento. Rappresentavano
delle figure umane maschili (tranne in un caso) talvolta con simbolismo
fallico. Le loro dimensioni erano variabili in base all’epoca e andavano
da meno di venti centimetri a nove metri (a parte uno incompiuto gigantesco
da 20 metri), tutti in posizione eretta (tranne uno seduto presso Rano
Raraku) e tutti rivolti verso i villaggi a scopo di protezione degli stessi
con le spalle al mare (tranne in un caso che vedremo più avanti).
Dopo le ribellioni dei corti orecchi furono tutti fatti cadere a terra
e solo in pochi siti sono stati rimessi in piedi in epoca recente (nel
1956, 1960, 1968, 1980, 1992…) grazie a fondi esteri spesso legati a
sponsorizzazioni commerciali (es.Toyota). Talvolta i fondi non sono bastati
a causa di episodi di corruzione…eh ! eh! …tutto il mondo è
un paese !
Alcuni poi
hanno subito il crollo (ma poi sono stati rimessi su !) in tempi recenti
(negli anni 60) a causa di un enorme “tsunami” (una gigantesca onda marina
anomala) che colpì l’isola…
Tra i siti
più suggestivi della seconda escursione mi colpì Ahu
Tongariki, formato da una grande piattaforma
con sopra 15 moai di basalto alcuni dei quali forniti di “Pukao“.
I Pukao sono gli apparenti “cappelli” rossi dei moai. In realtà
si tratta di “capelli” e non di “cappelli” e sono rossi a causa della
diversa pietra vulcanica usata e rappresentano le acconciature degli uomini
più illustri che per le cerimonie venivano tinte tramite una polvere
rossa.
Oltre alle
caverne naturali, prime abitazioni dei polinesiani emigrati e alle case
di pietra costruite a forma di imbarcazione ed adibite al solo riposo notturno,
fu interessante la scarpinata/scalata sul vulcano Orongo.
Qui si può vedere un’alta concentrazione di moai terminati e non,
in quanto ci troviamo nell’unica cava dell’isola dalla quale venivano estratte
le statue (non i capelli) e trasportate con una tecnica particolare (forse
in piedi… la leggenda parla di levitazione) in tutta l’isola. Nei pressi
della cava si possono ancora trovare in terra gli attrezzi usati per scolpire
i moai.
Seguendo l’itinerario
verso Nord arrivammo nella località più magica dell’isola
(Ahu Te Pito Kura)
dove un muretto a secco circolare con in mezzo una grande pietra tonda
e liscia e quattro pietre a mò di sedie rappresentavano il mitico
“ombelico del mondo“.
Chiaramente per “mondo” gli antichi abitanti si riferivano all’Isola
di Pasqua poichè erano convinti di essere rimasti gli “unici” esseri
viventi della Terra in quanto credevano che un enorme cataclisma (la stessa
convinzione che li aveva spinti ad emigrare dai tropici a Rapa Nui) aveva
spazzato via il resto delle terre emerse.
Questa misteriosa
pietra (magnetica…le bussole infatti tutt’ora impazziscono !) secondo
gli attuali abitanti sprigionerebbe energie positive (è meta infatti
di alcune sette di “new age”) e quindi ci spinsero a sederci intorno ed
a poggiare le fronti sulla sua superficie per “sentire” le emanazioni energetiche.
Alcune persone sentirono delle vibrazioni lungo il corpo (secondo me suggestione)
mentre io avvertii un bel niente (vedi anche il racconto
di Medaebe).
La seconda
giornata terminò all’unica “vera” spiaggia di sabbia (Anakena)
dove i più coraggiosi tentarono un brevissimo e gelido bagno nell’Oceano
mentre gli altri (io e mia moglie) muniti dell’indispensabile K-Way approfittammo
della sosta per fotografare degli altri moai (…in piedi…uno dei quali
fungeva da base di riposo per un falco, una delle poche specie di uccelli
numerose in quest’isola) ed il palmizio da cocco (una rarità…piantato
trent’anni fa per ricostruire la spiaggia così come doveva essere
prima della definitiva distruzione degli alberi).
All’imbrunire
ci riaccompagnarono in hotel percorrendo a ritroso e non senza difficoltà
le strade sconnesse che ci avevano portato sino ad Anakena. Volevo ricordare
che attualmente le uniche strade “lastricate” sono quelle principali della
capitale. Il resto delle vie sono bianche, deserte, piene di buche e sassi,
e spesso pericolosamente fangose o franate. Gli unici mezzi di trasporto
che possono attraversare l’isola sono infatti le jeep, i pulmini (a stento),
le moto da cross ed i cavalli. Quest’anno (2000) inizierà un progetto
per asfaltare le strade costiere anche se gli abitanti sono poco contenti
in quanto ritengono che i fondi Cileni sarebbero stati più utili
per finanziare opere e strutture più urgenti.
Terzo
giorno: partimmo la mattina presto verso l’interno dell’isola. Ci fermammo
come al solito presso varie località, ma vi citerò solo quelle
secondo me più significative: Puna
Pau, la cava di roccia rossa (tufo friabile)
dalla quale venivano estratti i “pukao” (i capelli dei moai), le varie
grotte buie (portarsi una torcia elettrica) spesso profonde, dove si possono
trovare a terra ancora crani ed ossa umane. Alcuni di questi anfratti posseggono
degli angusti cunicoli che sfociano all’improvviso in una grande apertura
sulla costa a decine di metri di altezza a picco sul mare (significato
non ancora chiarito, forse vie di fuga). Nei pressi dei siti archeologici
vidi anche molti antichi forni privati dove venivano cremate le persone
più autorevoli e forni “comuni” per i meno abbienti. A terra era
comune trovare pezzi di ossidiana (una pietra nera e tagliente composta
da lava vulcanica raffreddata violentemente, per esempio dall’acqua, e
simile al vetro) molto usata dagli antichi abitanti per lavori manuali
“di rifinitura” o taglio.
Ma il sito
più interessante della giornata fu Ahu
Akivi dove sette moai (messi in piedi nel
1960) guardavano il mare in direzione delle attuali isole
Marchesi (Polinesia
Francese).
A causa di
questa caratteristica unica (come avevo detto prima gli altri moai guardavano
tutti l’interno dell’isola per rivolgere il loro sguardo protettivo verso
i villaggi) per molto tempo si è pensato fossero i mitici navigatori
di Hotu Matua
(alias
Ariki Mau).
Ariki Mau era un re polinesiano, probabilmente delle isole Marchesi (Polinesia
Francese), che ebbe una serie di sogni premonitori. Sognò un grande
cataclisma che doveva distruggere tutto il mondo ed un isola che doveva
rappresentare la loro salvezza.
Così
partì insieme a 7 suoi guerrieri (ed altri suoi fedeli) in cerca
dell’isola della salvezza. Una volta sbarcati sull’Isola di Pasqua (dove
il re assunse il nome di Hotu Matua) i sette polinesiani morirono prima
di tornare indietro a riprendere le proprie famiglie e così si narra
che per onorarli vennero costruiti i sette moai rivolti verso il mare,
verso la loro terra di provenienza.
In realtà
si è scoperto da poco che anche questi moai puntavano in direzione
di un villaggio Rapanui posto più all’interno rispetto agli altri
e quindi la direzione dello sguardo dei moai fu dettata solo da motivi
tecnici e non “romantici”…perciò i sette moai non rappresentano
i sette navigatori di Hotu Matua.
Quello che
è quasi certamente vero di questa leggenda è il fatto che
l’isola di Pasqua fu colonizzata da popolazioni polinesiane. Prima del
1994 si ipotizzava che in realtà i Rapanui potessero derivare dalle
popolazioni sudamericane forse pre-incaiche (visto la datazione del misterioso
muro di Ahu Vinapu) e questo nonostante il loro antico linguaggio (il Rapanui…ancora
parlato da molti e da poco insegnato anche nelle scuole come il nostro
latino) fosse quasi identico all’attuale Tahitiano. Sembrava quasi impossibile
che si potesse navigare per 4000 km dall’attuale Polinesia Francese con
semplici canoe a bilanciere spesso con venti e correnti marine poco favorevoli
e trovare un “puntino” nell’Oceano. Pareva quindi più probabile
una civilizzazione proveniente dal Sud America (più vicino e con
correnti marine più favorevoli). A questo proposito un grande studioso
della civiltà Rapanui, il norvegese
Thor
Heyerdahl, tra le tante sue imprese e
studi, decise di costruire nel 1947 una zattera con sette tronchi di balsa
ed in 101 giorni dimostrò la fattibilità di un viaggio con
mezzi ancestrali dal Sud America sino alla Polinesia tropicale (arrivò
sano e salvo sino all’atollo di Raroia
nelle Tuamotu
– Polinesia Francese).
Questa teoria
fu poi smentita nel 1994 studiando il Dna di alcune antiche mummie che
tolse ogni dubbio sull’origine polinesiana e non sud-americana degli antichi
abitanti dell’Isola di Pasqua.
Attualmente
è rimasto ben poco di quel Dna nel sangue degli abitanti poichè
il basso numero di superstiti di razza Rapanui “pura” dopo la fine della
schiavitù impose il mischiarsi con altre popolazioni. Tutt’ora per
evitare problemi genetici (ricordo che gli abitanti sono solo 2000) vengono
favoriti e visti di buon occhio i matrimoni con gli stranieri :
non per niente
una delle più carine, sensuali e dolci ragazze biondissime dell’isola,
nonchè prima ballerina del gruppo Kari Kari (un famoso gruppo di
ballo polinesiano) è un “ricordo” (nipote) del famoso studioso norvegese.
Molte di queste
ragazze sognano un “principe azzurro” occidentale che le porti via dalla
loro isola-prigione ma ho conosciuto un ragazzo che attratto dapprima dalla
bellezza della sua “fanciulla” poi dal fascino dell’isola e dalla pace
che regna, ha fatto l’inverso: si è trasferito lui ! (con rammarico
della sua futura moglie…beffata !).
Lungi comunque
da essere risolto completamente il mistero dell’origine del popolo Rapanui…teorie
e piccoli elementi discordanti insieme ad una scarsissima documentazione
alimentano molteplici riflessioni.
Per esempio
rimane un mistero la conoscenza della patata dolce (di origine sud-americana),
il famoso muro pre-incaico, le tavolette di Rongo
Rongo (quasi tutte distrutte dai missionari perchè contenevano
i miti della loro tradizione e religione) i cui geroglifici sono identici
a quelli ritrovati in India e in Pakistan, il culto dell’uomo uccello (l’avvoltoio)
e le relative cerimonie funebri (come quella della scarnificazione) comuni
a molte altre civiltà come quella Egizia, Celtica, Araba e Mediorientale,
la cultura megalitica (ed il calendario solare trovato nell’isola) comune
a moltissimi antichi popoli sparsi nel mondo, il colorito della pelle degli
antichi abitanti troppo bianco, i tratti somatici dei moai simili a quelli
indo-europei (è presente la barba che in genere i polinesiani non
avevano), un’antica profezia Tibetana (che narra di un grande sconvolgimento
terrestre dal quale si salverà solo un’isola chiamata “l’ombelico
del mondo”…in seguito, dopo moltissimo tempo, anche quest’isola affonderà
nell’Oceano e sarà la fine del mondo…) e tanti altri piccoli o
grandi particolari. Tutto questo miscuglio di misteri ha ovviamente generato
anche teorie sull’origine di Rapa Nui più fantasiose ed ardite (appoggiate
soprattutto dai vari movimenti “alternativi” …spesso sette e guardate
con diffidenza dalla scienza ufficiale “esatta”) come l’immancabile perduta
Atlantide,
oppure altre civiltà evolute scomparse 10.000 anni fa di cui si
è persa la memoria storica e tecnologica, oppure i continenti scomparsi
di
Mu e Lemuria,
oppure le Terre di
Davis (Terra
Australis Incognita), addirittura c’è
chi pensa che i moai siano stati costruiti a scopo di controbilanciare
magneticamente una eventuale disastrosa inversione dei poli terrestri o
che l’Isola di Pasqua sia in comunicazione tramite canali giganteschi sotterranei
alla valle dell’Indo…poi c’è la teoria degli extraterrestri …non
si finisce più ….penso che i misteri e le storie costruite intorno
a questo piccolo lembo di terra non siano seconde neanche alla Sfinge ed
alla Piramide di Cheope messe insieme.
Ma torniamo
con i piedi per terra: le ragazze ! La sera per una cifra per niente economica
comprammo un biglietto (e prenotammo la cena) per partecipare allo show
di danze tipiche polinesiane presso l’albergo Hanga Roa.
Due dollari
Usa di taxi e dieci minuti separavano il mio albergo da quello delle danze.
Volevo aprire
una breve parentesi pratica: in tutta l’isola il dollaro americano circola
come moneta corrente insieme al pesos cileno. Non è quindi necessario
recarsi in banca a cambiare il denaro se si posseggono i dollari Usa.
Sono talmente
usati che anche i resti avvengono in dollari; persino all’ufficio postale,
quando si comprano i francobolli, vengono richiesti dollari Usa (l’unica
cosa che nessuno ha capito è perchè a parità di francobolli
a seconda di chi capita vengono richiesti importi diversi e addirittura
anche lo stesso francobollo per cartolina non sempre ha lo stesso importo
stampato in pesos…).
Lungo la strada
notai una discoteca con un bizzarro parcheggio…praticamente era diviso
in tre zone: una per le jeep, una per le “mature” moto da cross (ricordate
i vecchi Fantic Caballero ?) ed una terza per i …cavalli, mezzo di locomozione
ancora molto usato.
Dopo cena
ci recammo nel salone delle danze.
C’era mezzo
paese ! (le occasioni di svago per gli abitanti non sono molte !)
Beh ! posso
affermare (oramai dopo 3 anni mi sento un pò esperto) che le più
belle, le più tipiche, le più emozionanti danze polinesiane
sono proprio quelle dell’Isola di Pasqua, sono superiori persino come coreografia
a quelle Tahitiane…e poi le ragazze: più belle, più sensuali,
più disinvolte … …con tutti quei cocchi sui seni…un meraviglioso
incrocio…anzi connubio…ma che dico? …sinergia tra il dolce ed erotico
di una polinesiana, il viso grazioso di un europea ed il corpo di una sud-americana…wow
! …ehm scusate…mi sono fatto prendere un po’ la mano ! 😉
Anche gli
uomini tatuatissimi indossavano dei vestiti molto caratteristici ed i tamburi
suonavano un ritmo molto “vero”.
In effetti
ci tennero a specificare (forse esagerando un po’ …con la loro tipica
presunzione) di essere gli unici ed ultimi depositari della autentica
musica
polinesiana (e più in genere della cultura) derivata soprattutto
dall’arcipelago delle Tuamotu, aggiungendo che oggi l’intera Polinesia
tropicale attinge (addirittura con scarsi risultati) spunto musicale dagli
abitanti dell’Isola di Pasqua…in pratica è come se i Tahitiani
o i Samoani o altri “copiassero” la musica di Rapa Nui per poter ritrovare
le proprie origini… sinceramente mi sembra un tantino esagerato !!!
Lo show durò
circa un ora e si divise in tre parti tematiche : l’ Hoko,
il ballo dalle radici antichissime, molto dolce e lento, il Sau
Sau di origine Samoana con movimenti molto
vari e il Tahitiano
più veloce e ritmato.
Io feci parte
dello show (mio malgrado). Infatti fui invitato a ballare (cosa che odio..ma
in Polinesia…non si può non accettare !) da una polinesiana la
prima volta e dal momento che la maggior parte degli spettatori si erano
rifiutati fui chiamato una seconda.
Quest’ultima
fu la più rovinosa…infatti non sapevo che l’ultimo che ballava
era anche quello che rimaneva per quasi mezz’ora da solo al centro della
pista, circondato se non altro dalle bellissime vahinè, a dare spettacolo…
La gente (locale e non) nel vedere l’unico coraggioso tentare goffamente
di imitare le movenze tribali polinesiane per tutto quel tempo si sbellicò
da ridere fino a sentirsi male…mia moglie tentò di fotografarmi
ma al primo scatto finì il rullino (e non sapeva ricaricare la macchinetta),
quindi non ho un buon servizio fotografico !
La sera stanchi
andammo a nanna…mia moglie rideva ancora !
Il giorno
seguente ero famoso…come uscii dall’albergo, incontrai gente (stranieri
o locali) che, additandomi ridendo, mi chiedeva (ovviamente per prendermi
in giro) l’autografo ! o voleva che ri-facessi qualche passo di danza !
ufff !!
Quarto ed
ultimo giorno ed… ultima escursione …questa volta più breve
e quindi senza il consueto “pranzo al sacco” consumato nella campagna,
circondato da grosse scrofe, gatti e cani randagi che pretendevano il loro
tributo in cibo.
L’itinerario
iniziò dal minuscolo museo antropologico appena fuori la capitale
Hanga Roa. Sinceramente non fu un gran che perchè era veramente
piccolo ! In pratica era formato da due stanze, la prima era una rivendita
di souvenirs specializzati come videocassette e cd, la seconda conteneva
pochi reperti: quasi tutte copie di pezzi originali tra cui le tavolette
di Rongo Rongo, l’unico Moai donna, i frammenti di corallo dell’unico “occhio”
di moai ritrovato (pare che un tempo tutti i moai possedessero degli occhi
di corallo bianco), qualche attrezzo e molti cartelli descrittivi quasi
tutti in spagnolo.
In lontananza
si scorgeva il piccolo porto dell’isola (con Moai annesso), talmente piccolo
ed all’interno di una stretta insenatura scogliosa da non consentire l’attracco
delle navi : infatti ogni rara volta che qualche cargo si avventurava sino
in queste acque per trasportare qualche genere di merce era obbligato a
fermarsi a largo dove veniva raggiunto da una grossa chiatta che faceva
la spola dall’imbarcazione al porticciolo.
Dal museo
ci spostammo nella vicina costa ovest dove potemmo vedere una serie di
siti interessanti primo fra tutti l’inquietante moai “con gli occhi ” (in
realtà gli occhi non sono originali ma solo ricostruiti fedelmente).
Nelle vicinanze
altre serie di moai restaurati, antiche abitazioni e persino un porto in
pietra con lo scivolo per le canoe.
Approfittai
della guida in lingua italiana e dei molti tempi “morti” per poter capire
qualcosa di più della personalità di un “vero Rapanui”.
La guida mi
disse di essere stato uno degli assistenti alla produzione del film “Rapa
Nui”, un film che lo aveva deluso perchè tagliato nelle sue parti
più interessanti, al quale aveva partecipato quasi tutta la popolazione
soprattutto come comparsa per un compenso giornaliero irrisorio appena
incrementato dall’accettare a farsi filmare (per le donne) in topless.
Impressionante
però fu sviscerare tutta la loro mentalità di Rapanui, mentalità
che avevo già parzialmente afferrato da discorsi ed atteggiamenti
di altre guide:
I Rapanui
si sentono polinesiani al 100 % (più polinesiani addirittura del
resto della Polinesia oramai, per loro, imbastardita dagli Europei) e questo
pur sapendo di provenire da incroci e diluizioni quasi “omeopatiche” (infinitesimali)
!!!
Sono convinti
che quei pochi geni rimasti facciano la differenza con il resto del mondo
! Loro sono più intelligenti di tutti gli altri popoli (ed ebbero
il coraggio di dirmelo in faccia ! …quindi io sarei stato uno stupido
al loro confronto !), loro sono più intuitivi, loro sono più
abili in qualsiasi cosa materiale e non. Sostengono che studi genetici,
non meglio precisati, asseriscono la loro superiorità mentale e
fisica (una specie di razza ariana) e nessuno può contraddirli perchè
tra i geni dell’intelligenza portano con sè anche i geni dell’ira…
si considerano infatti buoni d’animo ma violenti di carattere…ovviamente
dovetti assecondarlo per “il quieto buon vivere” !
Secondo me,
questo presunto separatismo intellettivo e culturale dal resto del mondo,
questo sentirsi unici polinesiani a tutti i costi, unito alla minaccia
della loro indole irosa, nasconde sotto un “movimento” che vuole politicamente
essere indipendente dal Cile. Sfortunatamente per loro, poichè il
turismo è ancora poco (ma sono ottimisti e nel futuro vorrebbero
“diluire” le escursioni in 10-15 giorni…secondo me un furto !!!) non
sono autonomi e devono accettare, loro malgrado, il governo centrale cileno
che li “foraggia” con contributi economici e facilitazioni: come non pagare
le tasse od essere ammessi all’Università del Cile (tramite un pre-esame)
con un punteggio più basso che il resto dei Cileni; chiaramente
il punteggio basso di molti studenti Rapanui fu giustificato immediatamente
dalla guida con il fatto che poichè erano troppo intelligenti per
il programma scolastico spesso si distraevano e si annoiavano “sembrando”
solo in apparenza poco preparati…
Un’altra particolarità
degli abitanti dell’Isola di Pasqua è la loro paura per la morte
e la malattia unita ad un forte dose di superstizione. Sono molto rispettosi
nei confronti dei moai e cercano di non oltraggiarli mai perchè
anche se non fanno più parte della loro religione e credenze…non
si sa mai ! Cercano di evitare una casa dove è morto qualcuno da
poco e se vedono una persona malata o ferita in difficoltà, anzichè
dare una prima assistenza, preferiscono allontanarsi e chiamare un medico
occidentale senza toccare nulla. La loro paura per la malattie è
talmente grande che i Rapanui che si recano in continente per gli studi
universitari si iscrivono a tutte le facoltà eccetto quella di medicina
!
Non per niente
le molte ossa umane visibili in alcune piattaforme sotto i moai stanno
lì da centinaia di anni senza che nessuno le tocchi !
Prima di ritornare
in albergo andammo a fare un giro nel mercato “coperto” di Hanga Roa, una
struttura ben organizzata e pulita, dove le ordinatissime bancarelle vendevano
ogni sorta di souvenirs. Sconsiglio di fare compere in questo luogo perchè
i prezzi sono sensibilmente più alti: giustificati dalle maggiori
spese di gestione dell’attività (meglio il mercato scoperto e più
pittoresco dove vendono anche la frutta e la verdura).
La sera ci
recammo all’aeroporto (dove ci regalarono per ricordo le classiche collanine
di conchiglie polinesiane) per il nostro volo (LA833 delle 21,15) che in
poco più di sei ore ci ricondusse a Tahiti. Da lì proseguimmo
per Los Angeles – Francoforte – Fiumicino, un viaggio di due giorni che
purtroppo ci riportò alla dura realtà !
La
cerimonia in onore ad Hotu Matua: Il
mese forse più suggestivo per visitare l’Isola di Pasqua è
Febbraio in quanto si tiene una delle cerimonie polinesiane più
suggestive: la Tapati Rapa Nui.
Tra l’altro Febbraio è uno dei mesi più caldi (si riesce
a fare bene il bagno ad Anakena) e meno piovosi; la visita dell’isola in
questo periodo però è generalmente legata ad un viaggio in
Cile anzichè in Polinesia Francese in quanto nel paradiso tropicale
Tahitiano a Febbraio il tempo è pessimo.
Purtroppo
la mia visita è stata in Agosto e quindi non ho potuto assistere
alla festa ma me l’hanno descritta, ho letto delle pubblicazioni ed ho
avuto l’opportunità di vedere alcune foto.
Si tiene ogni
anno, forse da un millennio ed è in onore al re Hotu Matua, in onore
alla sua morte vista come un passaggio tra la vita terrena e quella spirituale.
Si tratta di una festa nella quale gli uomini sfidano per una settimana
la fatica ed il dolore per acquisire una migliore popolarità all’interno
della piccola comunità (soprattutto dalle ragazze ;-), una festa,
che se anche meno cruenta del passato , è pur sempre abbastanza
dura e violenta. Inutile dire che come in ogni manifestazione (anche quelle
minori) tutta la popolazione partecipa all’evento !
La manifestazione
è caratterizzata da una serie di gare alle quale partecipano i più
aitanti giovani vestiti (o meglio svestiti) dei tipici abiti polinesiani,
con le particolari acconciature e con la pelle del corpo colorata
di rosso ocra ed adornata dai caratteristici pittogrammi neri e bianchi.
Una delle prove consiste nel legarsi con dei lacci ad una piccola zattera
di tronchi di banano e sdraiati come su uno slittino farsi scivolare
da un dirupo dritto dentro la bocca del vulcano spento di Maunga
Pui sopportando il dolore dei sobbalzi e rischiando
anche di ribaltarsi e persino di morire…il tutto nell’eccitazione e negli
urli della folla. Il vulcano all’interno ospita un lago, il Norongo,
che alla fine della corsa (se si è ancora tutti d’un pezzo) deve
essere attraversato a nuoto !!! Le prova termina con la risalita a piedi
scalzi e (di corsa) del vulcano irto di pietre e frammenti di tagliente
ossidiana. Un altra delle prove invece inizia con l’attraversamento del
lago vulcanico a bordo di piccoli surf di canne mossi con la forza delle
braccia, una prova molto faticosa che prosegue senza sosta e senza
riposo con una corsa intorno al cratere con in spalla un grosso cesto
nel quale è accovacciato un uomo !!! Infine la gara termina con
un’ultima attraversata a nuoto del Norongo. La sera: canti, balli, fiaccolate
e racconti si levano alle stelle….
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Curiosità:
Esiste anche
in Italia una statua di pietra (Moai) simile (non uguale) a quelle dell’Isola
di Pasqua: a Vitorchiano
(VT) , un paese sui monti Cimini non lontano da Roma. Chiaramente si tratta
di un Moai moderno anche se autentico. Fu scolpito dai Rapanui qualche
anno fa, proprio per il paese viterbese in occasione di alcuni scambi culturali.
Si trova all’entrata del paese …in una piazzetta “medievale” :-(.
Un migliaio di noci di cocco hanno lasciato l’Isola di
Tahiti a Gennaio del 2002, a bordo della nave scuola Esmeralda, con destinazione
Isola di Pasqua dove saranno piantate nel tentativo di rimboschirla come
un tempo. Le noci di cocco, così come 500 esemplari di alberi del
pane e di palme da cocco, fanno parte dei doni che regolarmente vengono
inviati dall’amministrazione della Polinesia Francese ai loro lontani cugini
dell’Isola di Pasqua situata a più di 3.000 chilometri di distanza.
Attualmente (2002) solo pochi ettari della superficie dell’Isola sono ricoperti
da una piccola foresta di eucalipti e da un piccolo palmeto (spiaggia
di Anakena) piantato in occasione nel film
Rapanui.
Nuove
ipotesi, Settembre 2006: da recentissimi
scavi/studi si ipotizza che la popolazione di Rapa Nui non superò
mai i 3000 abitanti e che quindi non fu lÂ’unica responsabile della deforestazione.
Probabilmente il ratto polinesiano, introdotto a scopo “culinario” dai
primi Polinesiani, contribuì in maggior parte alla distruzione delle
foreste di palme.