POLINESIA FRANCESE 2003

di Valentina
E’ difficile descrivere le emozioni di un viaggio, appartengono al nostro paesaggio nascosto ed imperscrutabile. Ma condividere un sogno è un po’ conservarlo per l’eternità.
Siamo partiti per la Polinesia in luna di miele,  è stato il regalo di nozze di familiari ed amici. E’ un sogno che accarezzavamo da tempo. Mio marito avrebbe voluto sposarsi qui, in uno dei villaggi polinesiani…Il primo incontro con il sole di quaggiù è avvenuto in aereo. Il sole di un arancio incandescente scavava una pozza nell’oceano. Incurante degli altri passeggeri e del tono della mia voce, indicavo  a Roberto quel fascio di luce accecante che faceva capolino  dagli oblò dell’aereo. Scendendo dall’aereo il profumo dei tiarè (una specie di gelsomino, ma in realtà una piccola gardenia n.d.r.) ci ha stretto in un caldo abbraccio. Dei musicanti ci hanno accolto con le loro dolci melodie mentre delle splendide ragazze ci hanno messo al collo delle ghirlande di fiori.
Siamo partiti per Moorea con una macchinetta volante che dopo alcuni minuti atterrava fortunosamente sull’isola, verdissima, una giungla galleggiante  nell’oceano. La spiaggia candida confinava con le acque turchesi e prima dell’orizzonte il blu intenso dell’oceano che si infrangeva sul reef creava un fragore continuo, quasi irreale. Il nostro boungalow assomigliava ad un fare, l’abitazione polinesiana originaria, ma certamente più confortevole. Una vista piacevole divertente è stata quella al Tiki Village, la ricostruzione di un villaggio polinesiano. Avevo tante volte letto e sentito parlare dell’avvenenza delle donne polinesiane, ma mai della fierezza e della bellezza degli uomini. Hanno la muscolatura ben formata, la chioma lunga e fluente, la pelle scura, talvolta coperta da tatuaggi. L’uso che loro ne fanno non è decorativo  ma curativo, serve per allontanare gli spiriti maligni e preservare la salute. Non è casuale ma segue un preciso codice simbolico: rappresentano gli elementi naturali, il sole, il cielo, la pioggia.
Un altro elemento molto diffuso nella cultura polinesiana è il Tiki sia in legno che in pietra, è lo spirito degli antenati che serve a proteggere  la casa,  la famiglia.
Un  aspetto importante della cultura polinesiana è la danza, non solo quella con l’ukulele ma anche quella della cultura Maori è molto forte. Mio marito è stato costretto a cimentarsi e nonostante sia a suo modo un  atleta, la sua prestazione è stata molto modesta.  Risultarti maggiori ha riscosso con la noce di cocco. Dopo la lezione degli indigeni, ha voluto provare anche lui e non è stato da meno.  Le noci di cocco che compriamo al mercato sono prive dell’involucro fibroso che hanno cadendo dalle palme. Con delle incisioni trasversali si toglie quest’involucro e con un bastone appuntito (una specie di machete rudimentale) si batte contro la superficie, nel mezzo dei due occhi, come vengono chiamate le due chiazze tondeggianti  sulla corteccia, la noce si apre in due. Si beve il latte molto nutriente e facendo leva con il bastone dalla parte appuntita, si separa la corteccia dal frutto. Noi ci siamo serviti di una pietra a punta e di un paio di forbici.
Lo spettacolo del Tiki Village è stato molto suggestivo, con i mangiatori di fuoco, i parei delle danzatrici, le danze dei guerrieri, lo scambio della foglia di palma per il matrimonio. Roberto ha più  volte inquadrato  Letizia, una splendida polinesiana. Anche la cena è  stata ottima, cucinata per sette ore  nel forno polinesiano, sotto la cenere le foglie di palma e la sabbia. L’abbiamo consumata  mentre gli indigeni si esibivano con i loro parei. Ci sono ben dieci modi diversi di portare il pareo per gli uomini e 15 per le donne. Il ricordo più divertente è stata la foto con gli indigeni che hanno inscenato un urlo di guerra. Queste usanze ricordano anche il loro passato di popoli di cannibali.
Ho letto che Cook e come lui molti altri navigatori sono finiti arrostiti per allietare le tavole dei  locali.
Una visita d’obbligo per chi soggiorna a Moorea è quella al Belvedere, una strada stretta e asfaltata, si inerpica sul monte Roto Nui da cui si gode la vista della baia di Cook e Oponui. Lungo il percorso ci si imbatte in resti di Marae, gli antichi altari polinesiani su cui compivano dei sacrifici umani. La vegetazione è mozzafiato, meno graditi sono gli ospiti di questi spazi incontaminati, insetti  rapaci, cani randagi. Oltre alla spiaggia del Sofitel, interessanti sono i fondali della spiaggia Pinao con l’enorme guerriero Maori con un didietro molto interessante.
Dopo Moorea siamo partiti per Huahine, la selvaggia, con una natura incontaminata dove i ritmi vengono scanditi dal soffio degli alisei. Al di là della placida calma di una natura rigogliosa, una corrente impetuosa ci trasportava oltre la nostra volontà. Il ricordo più bello è stato con i pesci multicolori della barriera che  giocavano con noi. Per nulla imbarazzati dalla  nostra presenza, ci seguivano nelle nostre perlustrazioni. La barriera non è una cinta invalicabile ma è percorsa da tante fratture, tra cui si insinua la corrente  che tenta, ad ogni momento, di farti cambiare direzione. I più giocherelloni sono certamente i pesci pagliaccio con i loro mille colori, le piroette. Un po’ deludente è stata la vista dei Marae, gli antichi templi polinesiani. Il sito di Maeva che ne ospita ventotto, in realtà non è che un’area con enormi resti che con molta difficoltà testimoniano il passato. Più gradevole è la vista della laguna che sembra contrastare con il verde della giungla che copre di un manto persino le cime delle  montagne. A Huahine abbiamo conosciuto anche il fragore della pioggia polinesiana. Un torrente d’acqua si apre dal cielo improvvisamente e impetuosamente e sembra quasi sommergerti. Poi altrettanto improvvisamente l’equilibrio sembra ristabilirsi e tutto ritorna come prima.
Un altro aspetto particolare della cultura polinesiana sono i ritmi lenti, sembra che qui gli orologi non abbiano ancora cominciato a funzionare.
Oltre alle dolci melodie polinesiane al suono dell’ukulele, ci sono le voci della natura, i canti degli uccelli, lo sciabordio delle acque, il soffio dei venti…Huahine sembra seduta in una calma atemporale
Dopo Huahine siamo approdati a Bora Bora con la sua spettacolare laguna, il sogno del comune mortale alla ricerca del paradiso. Le acque turchesi, il verde abbacinante della foresta ci hanno dato il benvenuto. A buona ragione Bora Bora può essere considerata la perla del Pacifico. E’una via di mezzo fra un’isola vulcanica e un atollo, pertanto per percorrerla  è necessario muoversi per terra e per mare. La sua laguna è  stata  definita la più bella del mondo, immortalata in tanti film di successo, tra gli altri le tre versioni de “Gli ammutinati del Bounty”. Bora Bora è un po’ il capolinea di chi visita la Polinesia, tutti si fermano qui. Tra i vari incontri molto interessante è stato quello con un ragazzo genovese che compiva un viaggio del mondo con i voli della New Zealand e della durata di due mesi, toccava molte isole del Pacifico. Mi è piaciuto conversare con lui per lo spirito di avventura, per la ricerca di un ‘qualcosa’. Il suo viaggio non sapeva se fosse per crescere o per restare bambino. Non godeva come noi delle ‘grazie’ della natura. Il viaggio in Polinesia sembra essere dagli incontri fatti un viaggio per coppie. Forse lo stato d’animo contribuisce a creare l’incantesimo…Chissà!
La bellezza di Bora Bora offusca quella delle altre isole…Un’escursione quasi d’obbligo è quella dello shark feeding, dar da mangiare agli squali e quello con le razze. Quest’escursione è stata iniziata sull’isola dopo il film di De Laurentis ’Shark boy’, poco conosciuto da noi e forse anche altrove. Si tratta di un’escursione abbastanza tranquilla. I turisti possono scendere e stare in acqua nello spazio fra la barca e il suo bilanciere e vedere gli squali mentre la guida li alimenta gettando cibo al di là del bilanciere. E’importante usare scarpe di gomma per evitare di graffiarsi sul corallo e sanguinare. Il sangue attira inesorabilmente lo squalo verso il malcapitato. Io non avevo paura ma sono stata un po’ contagiata dalla paura degli altri. Le razze sono animali acquatici di forma quadrangolare e con una lunghissima coda. Hanno degli occhi languidi e si strusciano amichevolmente ai turisti. Io invece ho ricevuto un colpo di coda che mi ha procurato un arrossamento poco grave.
La nostra guida, un polinesiano, si chiamava Dino come il regista italiano che aveva acquistato il resort in cui soggiornavamo per farvi alloggiare la troup del già citato “Shark Boy”. Intrufolandoci fra i bungolaws avevamo scoperto il boungalow in cui aveva alloggiato Mia Farrow. Comunque a Bora Bora ci sono tanti polinesiani di tanti colori, un miscuglio di razze e di colori. Molti europei e americani, attratti dalle bellezze del luogo hanno trasformato quest’isola nella loro dimora temporanea o permanente. Guardandosi intorno non è difficile capire il perché.
Un’altra particolarità della Polinesia è la presenza di ragazzi gay addetti al ricevimento dei turisti. Pare che vengano scelti perché hanno dei modi più gentili. Fra questi un incontro molto simpatico è stato con Tutana che ci teneva a scandire bene il suo nome. Con i suoi dolci ammiccamenti, ci ha fatto trascorrere una serata simpatica facendo provare a me e a un ragazzo argentino i modi più svariati per indossare un pareo. I giorni a Bora Bora sono trascorsi velocemente e allegramente: eravamo sei coppie sempre alla ricerca di nuove avventure. Ci siamo fatti dipingere un pareo-ricordo con i nostri nomi e immagini che ricordano il luogo. Una soluzione molto economica per vivere in Polinesia è quella di dipingere parei per i turisti: è quello che ha fatto una simpatica ragazza francese. Dopo averci fatto scegliere le immagini, i colori e le scritte che desideravamo, intingeva il pareo nel colore, lo sistemava su una tela juta sulla sabbia, disponeva le forme che avevamo scelto e lo lasciava asciugare. Quando era pronto lo bagnava nell’acqua i mare e una volta asciutto, il pareo era pronto per l’uso. L’acqua di mare era un ottimo sistema per mantenere il colore.
Con molta tristezza abbiamo dovuto abbandonare Bora Bora ma ci siamo rincuorati perché il nostro viaggio non era ancora terminato. La nostra prossima destinazione è stata Rangiroa, la più grande delle isole Tuamotu. Dopo quasi un’ora di volo siamo approdati sull’isola, molto diversa dalle altre. Rangiroa è un atollo, un enorme ciambellone sull’oceano. Ci si può accorgere delle sue dimensioni solo dall’alto. A terra si ha l’impressione di percorrere una magra striscia di terra, da un lato scossa dal fragore delle onde dell’oceano e dall’altra baciata dalle placide onde della laguna. Viene chiamatata “Cielo infinito, proprio perché tra una sponda e l’altra ci sono più di 75 chilometri. Non è possibile percorrere l’atollo lungo il suo diametro perché è interrotto dalle acque dell’oceano che sai insinuano sin nella laguna. Pertanto, ci si muove con imbarcazioni di varia grandezza.
Il primo approccio con l’aeroporto di Rangiroa è stato un po’ traumatizzante: ragazzini di tutte le età in attesa di vari pacchi. L’isola è un po’ il crocevia principale per raggiungere gli altri posti. Rispetto alle altre isole, l’aeroporto è più dimesso, senza troppe pretese. Spicca un coloratissimo albero di Natale che contrasta con le persone in pareo o costume da bagno. I lineamenti della gente sono più marcati, qui le fattezze si sono conservate in modo più puro. La gente è gioviale, semplice ma affabile. All’inizio l’impatto con il paesaggio è un po’ deludente. La natura non è rigogliosa come nelle altre isole. Si patisce la scarsità dell’acqua. Tuttavia, le palme non mancano e c consolano della mancanza delle montagne.
Dopo il solito rito di ospitalità con un tripudio di fiori e profumi, partiamo all’esplorazione di questo angolo di paradiso. Al riparo da occhi indiscreti, una miriade di pesci colorati occhieggia, dietro sporadici anfratti. Ormai, non sappiamo fare a meno della compagnia dei pesci.
Ci organizziamo per la gita alle Sabbie Rosa, un’escursione impedibile. Le sabbie più che di un colore rosa, sono di un bianco abbacinante. Il sole cade a picco. Facciamo anche la conoscenza di un gruppo di squaletti pinna nera che si lasciano immortalare senza opporre alcuna resistenza. Ci fa compagnia una bella bambina polinesiana che, dal momento che le scuole sono chiuse per le vacanze natalizie, ha accompagnato il padre in questa gita. Si diverte a disturbare mio marito quando tenta di fare le foto sott’acqua. Abbiamo gustato un bel pranzetto a base di pesce e noci di cocco. Per l’occasione hanno sfoggiato una tovaglia intessuta con le foglie di palma. Purtroppo, abbiamo anche scoperto resti di amianto in forma di lamiera in quest’angolo che doveva essere incontaminato.
Ritornati in albergo, abbiamo rincontrato una coppia che vive nella nostra città, molto soddisfatta di soggiornare in un boungalow over water. Si tratta di boungalow su palafitte immerse nell’oceano. I piloni vengono sistemati nel corallo, fatto esplodere con la dinamite, procurando un danno irreparabile all’ecosistema. Inoltre, intorno ai piloni si sviluppano delle alghe velenose che a loro volta, rendono velenosi anche i pesci che vi nuotano attorno. Ancora più paradossale è che questo tipo di dimore non è mai stato usato dai polinesiani, ha dei prezzi esorbitanti e alimenta l’ozio del turista che preferisce guardare il mare da un pezzo di vetro.
I giorni più belli sono stati quelli trascorsi al Savane. Devo ringraziare Stefano, un ragazzo conosciuto via e-mail perché ci ha consigliato questa indimenticabile esperienza. Si tratta di un eco resort spartano, con otto boungalow in tutto. I boungalow sono molto carini, tutti costruiti con materiale naturale. I coralli sono dappertutto, come tende porta saponi o rotoli per la carta igienica,  All’interno dei veri alberi fungono da appendi. Il bagno è molto grazioso con le pietroline e le felci a mo’ di decoro. La natura è dolce e selvaggia al tempo stesso. Il posto è reso più bello dalla presenza cordiale di Bernard e della sua consorte polinesiana, una ragazza bellissima, con chioma fluente e corpo flessuoso,una voce dolce che segue i ritmi dell’ukulele. Anche mio marito si è cimentato a strimpellarlo. Si tratta di uno strumento musicale simile al nostro mandolino, ma con gli accordi diversi. Con Bernard che ha avuto una vita molto avventurosa, dall’Africa all’Europa passando per le isole del Pacifico, abbiamo conosciuto la fauna marina intorno al nostro motu. Abbiamo imparato a convivere e a nuotare con gli squali, sotto l’occhio vigile di Joe, un bastardo incrociato con pastori tedeschi e askin, che impazziva per le noci di cocco. Appena vedeva una corrente poco propizia o un pesce un po’ più ardimentoso, Joe rizzava le orecchie e si tuffava in acqua. Molto  bella è stata anche la passeggiata sulla barriera corallina alla raccolta di gigantesche conchiglie, di cui non ricordo il nome ma certamente, ricordo il sapore.
In quell’isolotto abbiamo lasciato un pezzetto del nostro cuore e spero che un giorno torneremo a riprenderlo. Forse i paradisi non hanno sempre le palme e le lagune blu, ma io il mio lo immagino qui accanto al mio uomo.
 

Valentina