ISOLA DI PASQUA SETTEMBRE 2003

di  ALESSIA & MARCO  ([email protected] )

LA STORIA
Premetto che la storia dell’Isola di Pasqua che andrò a raccontare, è una delle tante storie spesso arricchite dalle guide con convinzioni personali.

Fino al ritrovamento delle tavolette di Rongo Rongo, si supponeva che questa popolazione non avesse sviluppato alcun tipo di scrittura, queste tavolette intarsiate invece dimostrano il contrario, ma ancora oggi gli studiosi non sono riusciti a decifrarle.
Per questo motivo non ci sono certezze sulla storia dell’isola, l’unica conoscenza è quella tramandata verbalmente di generazione in generazione; naturalmente ciò ha portato all’esistenza di molte teorie realistiche e fantastiche, questo infatti è il motivo che la rende così particolare e capace di incantare qualsiasi persona abbia la fortuna di calpestare la sua terra.

L’Isola di Pasqua sembra sia stata una delle ultime isole polinesiane ad essere popolata; il periodo delle migrazioni verso questa isola risale intorno al 400 d.c.. L’isola di Pasqua, insieme alle Hawaii e alla Nuova Zelanda forma il Triangolo Polinesiano e gli esploratori che vi sbarcarono le diedero diversi nomi quali:
Te Pito o Te Heuna (Ombelico del mondo),
Rapa Nui (Rapa significa  roccia/isola – Nui significa “grande”, quindi “la grande roccia”),
Isola di Pasqua (nome dato dall’olandese Jacob Raggeveen che fu il primo europeo a sbarcarvi proprio il giorno di Pasqua del 1722).

La storia raccontata dalla nostra guida prevede una divisione in 3 periodi significativi:

Dal 400 al 800 d.c., senz’altro il periodo più misterioso di tutta la storia.
La certezza che l’isola fosse già abitata in questo periodo è dimostrata dal ritrovamento di una testa Moai con fattezze orientali, nel centro politico di Tahi; la testa precede il vero periodo della costruzioni dei Moai (800-1000).

Dal 800 al 1680 d.c., periodo di Hotu Matua e dei Maoi.
Ariki Mau in seguito chiamato Hotu Matua fu il primo Re dell’isola di Pasqua, egli viveva su un isola delle Marchesi e convinto che questa nel giro di pochi anni sarebbe sprofondata, intraprese un lungo viaggio alla ricerca di un’altra isola che potesse offrire a lui ed al suo popolo una vita più sicura e tranquilla.
Partì con la moglie a bordo di due piroghe, imbarcazioni la cui forma ricorda i catamarani di oggi. In questo viaggio portarono con se molte piante e bestiame (fra cui il pollo) che sarebbero servite per popolare la nuova isola; tutt’oggi per ricordare questo evento il pollo viene mangiato dagli sposi durante il banchetto di nozze in segno di buona fortuna.
Si racconta che dopo settimane di navigazione il Re mandò sette fedeli in esplorazione, i quali tornarono con la buona notizia di aver avvistato un isola il cui attracco era però pressoché impossibile a causa della costa frastagliata ed il mare sempre tempestoso.
Navigarono comunque intorno all’isola fino ad arrivare alla spiaggia di Anakena dove poterono sbarcare. Una volta sull’isola i sei figli di Hotu Matua formarono le proprie tribù, il periodo di grande prosperità portò la popolazione a crescere talmente da occupare tutta la costa.
Questo fu anche il periodo della costruzione dei Moai, enormi statue realizzate per lo più in roccia vulcanica ed erette a protezione del villaggio verso il quale erano rivolte.
I Moai rappresentano personaggi importanti, uomini religiosi o discendenti del Re che alla loro morte venivano ricordati con queste imponenti statue. Queste statue venivano poste su degli altari chiamati “Ahu”. Gli Ahu erano costruiti con pietre ammassate l’una sull’altra e presentavano una piccola apertura sul fronte dalla quale poteva entrare ed uscire lo spirito del defunto. A seconda dell’importanza del defunto alcuni Moai erano ornati con il “pukao”, una scultura piu o meno lavorata di colore rosso. Il pukao veniva posto sulla testa e rappresentava un cappello o dei capelli a piacere della guida di turno, vista la forma, per la nostra guida era più sensato pensare ad un cappello.
Con il passare del tempo i Moai venivano costruiti sempre più alti ed imponenti; confrontando infatti quelli che dominano la spiaggia di Anakena (i più vecchi) con gli altri, si può notare l’enorme differenza. Il più grosso Moai chiamato “Il Gigante”, ancora in costruzione è alto addirittura 21 metri e pesa circa 180 tonnellate.
I Moai rimangono il più grosso enigma di tutta la storia dell’isola, non solo per come venivano realizzati ma soprattutto per come venivano trasportati.
Tutt’oggi presso la cava di Ranu Raraku, dalle pendici del vulcano si può vedere la via che veniva presa per il loro spostamento, partivano quasi tutti da questa cava e sono stati trovati anche a 20 km. di distanza da essa.
Le teorie che spiegano come può essere avvenuto il trasporto dei Moai sono tante ed il museo archeologico ne mostra alcune. Si presume che per il loro spostamento venissero usati tronchi di legno sui quali venivano fatte rotolare le statue, ciò spiegherebbe il totale disboscamento delle foreste avvenuto con il passare dei secoli. Infatti, i “Rapa Nui”, così si fanno chiamare anche gli abitanti del luogo, si preoccuparono solo di sfruttare le risorse dell’isola senza contribuire al suo mantenimento, ciò portò con il tempo ad un notevole malessere. Con la mancanza di alberi infatti gli uccelli non vennero più a deporre le loro uova sull’isola e pian piano il cibo venne a scarseggiare, così iniziarono le prime ribellioni.
Torniamo adesso al regno di Hotu Matua, come in tutte le civiltà, anche qui vi erano distinzioni di classi sociali, si erano formati infatti due clans ben distinti, i “corti orecchi”, la classe sociale più povera, ed i “lunghi orecchi”, discendenti del Re, religiosi, politici o uomini di pensiero.
Quest’ultimi infatti per distinguersi dagli altri usavano una tecnica, tutt’oggi  riscontrabile tra le  tribù africane, che permetteva di avere i lobi delle orecchie più lunghi.
I lunghi orecchi imponevano la loro superiorità intellettuale e spirituale sui corti orecchi, e anche se numericamente inferiori, facevano costruire loro i Moai pretendendoli come abbiamo già detto sempre più grandi ed imponenti.
Per paura di ribellioni da parte dei corti orecchi si racconta che il clan dominante pensò ad un omicidio di massa, escogitando una trappola fece loro costruire un canale e mentre vi erano tutti dentro gli avrebbero dato fuoco. Il piano venne però scoperto da una componente del clan dei corti orecchi, la quale riferendo al proprio popolo le cattive intenzioni del clan avversario fece si che l’inganno potesse ricadere su di loro, e così fu, una volta pronto il canale, intrappolarono i lunghi orecchi e gli uccisero tutti.
A questo massacro seguì la distruzione di quasi tutte le statue, che vennero abbattute in segno della caduta di un “impero”.
Tuttavia le cose non migliorarono……

Dal 1680 al 1864 d.c., si apre un altro periodo importante per la storia dell’isola, quello delle guerre tra tribù e dell’elezione dell’uomo uccello.
Una volta terminata la guerra tra i clan il problema del cibo rimaneva, si arrivò addirittura anche ad atti di cannibalismo, iniziarono quindi le prime guerre fra tribù per la presa al potere. Queste guerre portarono solo morte e distruzione, la popolazione si decimò drasticamente e allora fu deciso di affrontare la lotta al potere diversamente. Si decise infatti di eleggere il Re (Manutara) attraverso una competizione sportiva, così ogni villaggio avrebbe dovuto presentare un concorrente che avrebbe gareggiato per la propria popolazione. Con il passare degli anni il numero dei villaggi crebbe e si arrivò addirittura ad avere una quindicina di concorrenti.
L’elezione del Manutara (uomo uccello) si svolgeva in un preciso periodo dell’anno, ovvero quando un uccello, sembrerebbe una fregata, nidificava sugli isolotti di Motu Kao Kao, Motu iti, Motu Nui. La testimonianza di questo evento è riscontrabile su alcuni petroglifici e anche da alcuni disegni scolpiti dietro la schiena di un Moai. Questa bellissima statua chiamata Moai di Hoa Hakananaia è adornata di decori che rappresentano l’uomo uccello e l’uovo della fertilità, ed è l’unico ritrovato che può testimoniare  il periodo di transizione tra la costruzione dei  Moai e l’elezione del Manutara. Questo Moai è l’unico costruito interamente in basalto; sicuramente è la più bella statua ritrovata sull’isola, purtroppo è anche l’unica che non si trova più qui ma bensì in uno dei musei di Londra. 
Le gare per l’elezione dell’uomo uccello si svolgevano  presso il vulcano Rano Kau, nel villaggio di Orongo, uno dei tre vulcani spenti presenti sull’isola, colui che gareggiava e rappresentava il clan veniva chiamato Hopus Matus.
La competizione consisteva nell’oltrepassare il vulcano passando da una apertura provocata da una eruzione, scendere la scogliera a picco sul mare, nuotare verso Motu Nui il più grande dei tre Motu affrontando un mare molto freddo, con forti correnti e infestato di squali. Una volta arrivati sul Motu, trovare l’uovo sacro, legarlo intorno alla testa usando della corteccia di cocco battuta e ritornare al punto di partenza senza romperlo. L’uovo veniva poi consegnato al capo del proprio clan che da quel momento avrebbe ricoperto la carica di Uomo Uccello governando l’isola per un anno intero.
All’Uomo Uccello inoltre veniva concessa in sposa una vergine che prima della gara doveva essere visitata ginecologicamente sulle pendici del vulcano. Dopo essersi accertati della sua verginità, la ragazza veniva introdotta in una grotta buia e profonda per un mese; la mancanza di luce le avrebbe fatto diventare la pelle bianca come simbolo di purezza. La ragazza veniva fatta uscire dalla grotta solo il giorno dell’elezione dell’Uomo Uccello per essere data a lui in sposa.
Ancora oggi è possibile vedere tantissimi petroglifici nell’area del villaggio di Orongo che rappresentano l’Uomo Uccello e l’uovo della fertilità.

Successivamente all’arrivo degli Europei nel 1722 le competizioni vennero documentate; é da questo periodo in poi che la storia di Rapa Nui inizia ad avere delle certezze.
 


IL VIAGGIO
21/22 Settembre 2003

Domenica 21 Settembre lasciammo Moorea con il traghetto delle 17.30, arrivammo a Papeete dopo circa mezz’ora; il problema sarebbe stato trovare un mezzo per arrivare all’aeroporto. Qui non lavora nessuno di domenica, i truck sono fuori servizio e l’alternativa sarebbe un costosissimo taxi, ci guardammo intorno e ci domandammo quale potesse essere l’alternativa migliore e possibilmente la più economica. Per nostra fortuna al porto c’èrano tanti pullman in attesa di trasportare altri turisti che, molto più efficientemente di noi avevano prenotato il loro trasferimento. Fortunatamente trovammo un pullman praticamente vuoto disposto a portarci all’aeroporto ad una tariffa ragionevole. Felici per aver ritrovato quella tranquillità che non hai certo girando per le strade di Papeete, venimmo accompagnati all’aeroporto che dista molti chilometri dal centro.
Alle 19.30 arrivammo l’aeroporto, l’autista ed il suo accompagnatore ci regalarono le famose collanine di conchiglie in segno di saluto e ci consigliarono di cenare dentro l’aeroporto.
Il pensiero di aspettare fino alle 1.00 di notte la partenza del nostro aereo ci affliggeva ed in quel momento rimpiangevamo un bel mazzo di carte per ammazzare il tempo, inspiegabilmente però le ore passarono meglio di quanto credessimo e alle 1.00 del mattino in punto l’aereo decollò verso la tanto attesa Isola di Pasqua.
Io ero un po’ansiosa per questo volo, del quale non avevamo sentito parlare molto bene, per nostra fortuna invece si  è poi rivelato superiore alle aspettative, l’aereo infatti era pulito, l’equipaggio era cordiale, ed il cibo era buono o comunque migliore rispetto ad altre compagnie aeree con le quali avevamo volato, la cosa che invece ci colpì fu che l’aereo era pieno, ciò ci fece subito pensare che il turismo sull’isola  fosse aumentato notevolmente nell’arco di pochi anni (difatti la nostra guida ci disse in seguito che dal 1999 al 2002 i turisti erano passati da circa 8.000 a 35.000 l’anno).
Arrivammo alle 10.30 all’aeroporto Mataveri e venimmo accolti dalla nostra guida  Hermann con una bellissima collana di fiori (migliore di quella donataci all’arrivo in Polinesia), con grande nostra sorpresa la guida parlava italiano e mentre ci accompagnava all’ hotel ci spiegò come si sarebbero svolti i tre giorni di escursioni, dandoci infine il primo appuntamento per il pomeriggio alle ore 15.00.
Il nostro trasferimento fu molto breve, il tempo di salire sul pulmino eravamo già arrivati all’ hotel Manutara, questo dista infatti 5 minuti a piedi dall’aeroporto. Il nostro albergo si rivelò subito molto accogliente, il personale ospitale e sempre molto disponibile e gentile, il cibo era ottimo, la cucina molto raffinata e genuina, sicuramente uno dei posti dove abbiamo mangiato meglio, le camere erano praticamente nuove e molto pulite.
Nonostante il volo notturno con poche ore di riposo avevamo una gran voglia di visitare l’isola, ci siamo quindi limitati a lasciare le valige e a fare una doccia veloce per poi uscire alla scoperta dell’unica “città” del luogo: Hangaroa.
15 minuti a piedi e arrivammo in città, in realtà Hangaroa è più simile ad un paese ed ha un non so che di affascinante e divertente, qualsiasi  persona incontravamo ci salutava, ovunque ristorantini caratteristici e colorati, due o tre Internet Point, la Chiesa ed i mercati quello al chiuso e quello all’aperto, in quest’ultimo abbiamo fatto il nostro primo acquisto.
Già!….. il nostro moai che adesso ci osserva in salotto, era lì che ci guardava e qualcosa lo distingueva dagli altri, la signora del banco aveva veramente delle belle cose e la sua gentilezza ed il suo volto ci conquistarono subito. La prima cifra che ci chiese furono 100$ ma subito dopo chiese di fare una offerta e ci invitò anche a fare un giro di tutto il mercatino per rendersi conto che il suo era il più bello, ed aveva ragione, tra l’altro i prezzi erano abbastanza simili.
Il mercatino all’aperto apre solo di mattina dalle 9.00 alle 13.00 e resta chiuso nel pomeriggio, mancavano 10 minuti alla chiusura e per la paura di non trovarcelo più, ma soprattutto di non sapere quando saremo potuti tornare li decidemmo di fare la nostra offerta……….70$. Non stiamo a raccontare l’espressione sul volto della signora, il sorriso le arrivò alle orecchie ed aveva i lucciconi agli occhi dalla gioia, ci rendemmo subito conto che lo avremmo potuto prendere con molto meno.
Sicuramente quella fu la prima fregatura presa sull’isola di Pasqua ma successivamente a tutte le nostre escursioni ci rendemmo conto che effettivamente il mercatino all’aperto era il posto dove si acquistava meglio.
Con l’acquisto della statuetta avevamo finito i contanti, quindi ci incamminammo verso quella che è l’unica banca dell’isola. Con l’aiuto di una signora del posto siamo riusciti a prelevare allo sportello automatico e ci siamo poi diretti verso un ristorante per gustare la cucina del luogo. Il ristorante era molto carino e ci ha impressionato la cucina che era colma di patate da pelare, non avevamo mai visto tante patate in vita nostra, Marco prese il pesce, molto buono, invece io  presi il pollo, da evitare, il tutto contornato ovviamente di patate. Dopo aver pagato il conto tornammo in albergo ad aspettare la guida che sarebbe venuta a prenderci per iniziare la nostra prima escursione.

Programma della giornata: Vinapu, Orongo ed il vulcano di Rano Kau.
Alle 15.00 in punto arrivò il pulmino, un Mercedes nuovo di zecca, dove a bordo vi era già tutto il gruppo; salutammo tutti e ci dirigemmo verso Vinapu dove era possibile ammirare un muro simile a quelli costruiti dagli Incas in Perù. La presenza di questa particolare tecnica di costruzione ha messo in discussione le origini di provenienza di questo popolo, ci sono infatti due supposizioni:
una per la quale sembra che i primi navigatori arrivati sull’isola venissero dalla Polinesia, per il fatto che le acque sono meno ostili e più facilmente navigabili;
l’altra narra invece la provenienza di popolazioni dal Cile, ma come ci ha illustrato la guida il mare che divide l’isola dal continente è molto più difficile da navigare a causa di correnti  molto forti. Successivamente però uno studioso di nome Thor Heyerdahl dimostrò, utilizzando una barca costruita secondo le conoscenze dell’epoca (il KonTiki), di poter navigare dal continente verso le isole del Pacifico.
Tuttavia Hermann oltre ad optare per la prima teoria sosteneva che, sicuramente, chiunque avesse raggiunto questa isola per la prima volta, lo fece per puro caso.
Il muro Incas continuerà a rimanere un mistero di Rapa Nui, ma a me piace pensare che le popolazioni sbarcate sull’ isola venissero da entrambi i posti, chi sia stato il primo a sbarcare non lo sapremo mai, ma di sicuro sappiamo che ci sono arrivati per caso.
Questo muro comunque era il basamento di un Ahu ormai distrutto, ai suoi piedi vi erano infatti varie statue abbattute e sparsi in qua e in là c’èrano anche i pukao. Poco distante dall’ Ahu vedemmo anche la prima statua moai donna, questa veniva rappresentata con due teste (si suppone infatti che la donna fosse più intelligente dell’uomo), la statua inoltre si distingueva dalla maggior parte delle altre non solo per le due teste ma anche per la posizione delle mani, che non erano sotto l’ombelico ma bensì sotto i seni.
L’escursione proseguì verso la zona di Orongo; in questo posto si possono osservare le abitazioni ristrutturate di un vecchio villagio Rapa Nui, quello di Orongo appunto. Queste case, costruite in pietra, erano piccolissime tanto che l’entrata ai giorni d’oggi sarebbe possibile solo ad un bambino. Solo una casa non era stata ristrutturata, forse per lasciare una testimonianza del periodo. La guida ci illustrò poi come si svolgeva la vita quotidiana dei Rapa Nui, il luogo in cui cucinavano e dove passavano il loro tempo libero. Il villaggio sorgeva proprio sulla costa e guardava l’oceano, lo scenario era bellissimo, di fronte a noi c’erano i tre Motu, Motu Kao Kao (la punta), Motu iti (il più piccolo) e Motu Nui (il più grande), alle nostre spalle invece c’era il cratere del vulcano Rano Kau, bellissimo!
Improvvisamente percepii delle emozioni molto forti, immensità, sicurezza, forza, tranquillità e pace. Il mare, i motu, questa terra calpestata da poche persone erano qualcosa di speciale che mi commosse per la sua semplicità e che per un attimo spazzò via i pensieri dalla mia mente, lasciandomi però una particolare sensazione che ancora oggi sento dentro di me.
L’atmosfera che è presente in questo luogo è indescrivibile, ma la situazione si fece ancor più suggestiva quando Herman  mostrandoci i petroglifici che rappresentano l’uovo della fertilità e l’uomo uccello iniziò a raccontarci la storia dell’elezione del Manutara. Qui infatti si svolgeva la gara e si può ancora vedere il luogo in cui la donna veniva visitata prima di essere introdotta nella grotta.
Poco più in là vedemmo anche una piccola statua chiamata “Make Make”, questa rappresenta una divinità, e si dice che dove c’è un Ahu, da qualche parte c’è sempre un Make Make che guarda verso di esso, forse per proteggerlo.
Finita l’escursione, rientrammo in albergo per la cena.
 

23 Settembre

Prima tappa Vaihu e Akahanga, siti archeologici di luoghi una volta abitati dai Rapa Nui. I resti delle abitazioni presenti qui erano totalmente diversi da quelli visti ad Orongo, queste case infatti essendo poste molto più in basso erano costruite in maniera più semplice rispetto alle altre. La base di forma ovale era fatta di pietra e presentava degli incavi nei quali venivano messe delle canne di bambù che andavano da una estremità all’altra dell’abitazione, le dimensioni erano comunque ridotte come le altre, segno che la popolazione era di piccola stazza. Non tutti abitavano in queste case, alcuni si erano trovati delle grotte che ancora oggi vengono usate dai Rapa Nui nei fine settimana. La guida infatti ci raccontò che spesso i Rapa Nui, ma anche alcuni turisti, si trasferiscono nelle caverne, per passare il week-end, un po’ come noi andiamo in campeggio.
Tutto mi sembrò molto romantico, sarebbe stato da farsi anche solo per una notte, una bottiglia di vino, due calici e a lume di candela ascoltare le onde del mare che si infrangono sulle scogliere.
Qualcuno lo aveva fatto da poco, visto che sulla roccia c’era ancora la cera di una candela consumata, e lo avremmo fatto anche noi se solo avessimo avuto qualche giorno in più di permanenza sull’isola.
Tornando ai siti archeologici, visitammo degli Ahu distrutti, il loro abbattimento non fu solo in conseguenza alle ribellioni dei corti orecchi, ma buona parte è sicuramente da attribuirsi anche ad alcuni navigatori che per imporre la loro superiorità su questo popolo ne distrussero una parte. Un altro motivo di distruzione è dovuto anche a fenomeni naturali, come è successo ai Moai dell’Ahu Tongariki, la cui storia racconteremo più tardi.
La visita successiva è stata una delle più emozionanti, la cava di Rano Raraku, dalla quale provenivano la maggior parte dei Moai.
Risalendo ad ovest delle pendici del vulcano Rano Raraku e scendendo a est, ovunque  camminassimo Moai in costruzione, dovevamo fare attenzione a dove mettevamo i piedi perché anche alcune di queste statue erano considerate zona tabù come gli Ahu.
Le guide ed i Rapa Nui stessi sono molto attenti ad educare il turista a non invadere le zone sacre, purtroppo però ci sono anche molti turisti che girando da soli non osservano le loro regole e salgono sugli Ahu per fare la classica foto vicino al Moai. Herman ci disse che ci sarebbe dovuta essere una guardia per ogni sito archeologico, noi però in tutte le nostre escursioni ne abbiamo vista solo una, alla spiaggia di Anakena.
La cava di Rano Raraku è stato uno dei posti più gettonati per le nostre foto grazie anche al suo bellissimo panorama che in lontananza fa intravedere l’Ahu di Tongariki, le colline e l’oceano.
Fra tanti Moai, se ne contano circa 400 tra quelli in costruzione e quelli terminati, ne abbiamo visto anche uno inginocchiato. I Moai già ultimati con il passare dei secoli sono stati vittima di piccole frane e smottamenti del terreno, si presentano oggi infatti sepolti da terra fino alle spalle.
Tutte le statue dell’isola purtroppo sono colpite da una malattia, delle macchie bianche di lichene che stanno impossessandosi pian piano di esse; sfortunatamente gli esperti non riescono a trovare nessuna cura per sconfiggerla, questa riaffiora sempre.
Dopo esserci fermati al parcheggio per consumare il pranzo al sacco e acquistare souvenir, siamo ripartiti col pulmino e durante tutti questi spostamenti abbiamo conosciuto meglio anche il nostro autista. Maurizio, così si chiamava, aveva 25 anni e ci disse che lui sull’isola ci stava proprio bene, non sentiva per niente la mancanza della “civiltà” del continente, ma che purtroppo sarebbe dovuto tornarci per continuare gli studi all’Università di ingegneria. Questa infatti è l’unica ragione che spinge i giovani ad andare nella capitale dove però tutto è diverso, Santiago infatti è un vero e proprio “caos” e lo smog è ai massimi livelli.
Con questi discorsi Maurizio confermò l’impressione che io e Marco avevamo già avuto, cioè che le persone del posto non vogliono di più di quello che l’isola può offrire, l’unica cosa forse sarebbe proprio un’ Università degli studi.
Tornando adesso al nostro tour, la tappa successiva fu l’Ahu Te Pito Kura, oltre all’altare qui c’èra un sasso di forma sferica circondato da quattro piccole pietre che invitavano a sedersi intorno ad esso. Questa grande pietra “magica”, detta “ombelico del mondo” era capace di far impazzire le bussole, difatti poggiando la nostra in punti diversi, il Nord veniva indicato in altrettante direzioni.
La guida ci invitò a posizionare le mani sulla pietra per sentire il magnetismo trasmesso, io ebbi la sensazione di avvertire un leggero formicolio alla mano sinistra. Successivamente ci invitò a mettere la fronte sulla pietra e ad occhi chiusi avremmo dovuto vedere colori, blu, verde, rosso…….tutti noi vedevamo solo nero……ovviamente.
Continuammo per Ahu Tongariki, bellissimo ed imponente.
L’Ahu Tongariki con i suoi Moai fu abbattuto da uno Tsunami (un’onda anomala) ed in seguito venne restaurato grazie ai fondi stanziati dal governo giapponese.
Non lontano l’Ahu, si trova anche il “Moai turista”, chiamato così perché è stato il primo e l’unico ad aver oltrepassato l’oceano per essere esposto in Giappone, appunto, in occasione di una mostra.
Le 15 statue che si ergono imponenti su questo altare hanno lo sguardo rivolto verso il villaggio e le spalle verso il mare, come tutti gli altri Ahu del resto, tutti tranne uno che andremo a visitare domani. Questo è l’altare più grande che c’è sull’isola, ma uno solo di questi Moai porta ancora il cappello, gli altri cappelli sono infatti a terra vicino l’Ahu e non sono stati rimessi al suo posto perché troppo danneggiati per poter rimanere sopra la testa senza alcun pericolo.
La giornata terminò alla spiaggia bianca di Anakena, bellissima, unica al mondo, in mezzo alle colline, contornata da palme e dominata da un bellissimo Ahu.
Io e mio marito Marco facemmo una stupenda passeggiata scattando foto a tutto ciò che ci circondava, ma il momento più emozionante, che fortunatamente siamo riusciti a riprendere con la videocamera, fu quando una mandria di cavalli selvaggi attraversò a corsa la spiaggia da una collina all’altra; improvvisamente avvertii nuovamente quel senso di libertà e magia che solo quell’isola sapeva trasmettere.
Riprendemmo il percorso verso casa, una sosta in hotel per rinfrescarci e poi nuovamente fuori. I negozi aprivano la mattina dalle 9.00 alle 13.00 e il pomeriggio dalle 17 in poi, quindi avevamo tempo a sufficienza per fare i nostri acquisti. Le persone erano così carine e disponibili che alla fine èra impossibile non acquistare qualcosa.
La serata proseguì in un ristorante molto carino che si chiamava Te Moana, assieme a Rita e Riccardo, un’altra coppia italiana del gruppo, assaporammo dei gustosi piatti locali bevendo un buon vino cileno.
Alle 21.00, la nostra guida Hermann, ci passò a prendere per accompagnarci ad assistere allo spettacolo del gruppo di ballo “Kari Kari”, una bellissima esibizione, molto sentita e coinvolgente.
 

24 settembre

Terza ed ultima giornata di escursioni, prima tappa Tahi, il luogo in cui si svolgeva la vita politica dell’isola. Uno spazio aperto sul vecchio porto con  l’immancabile Ahu ed altre due statue in lontanaza. Una di queste probabilmente doveva rappresentare un personaggio molto importante perché oltre al pukao aveva anche gli occhi. Il bianco dell’occhio è fatto di corallo, mentre la pupilla è dello stesso materiale dei pukao. Probabilmente gli occhi venivano posizionati solo una volta che il Moai era stato eretto sull’Ahu, questa teoria nasce dal fatto che le statue della cava di Rano Raraku non hanno ancora la cavità dell’occhio.
Dopo una serie di  riprese e fotografie (eravamo sempre gli ultimi a salire sul pulmino) proseguimmo verso il museo, questo anche se piccolissimo ci aiutò molto a farci un’idea più chiara su tutta la storia dell’isola.
Interessante la spiegazione e l’illustrazione di come l’isola si è formata milioni di anni fa.
Si può inoltre vedere un Moai la cui forma della testa è simile ad un extraterrestre ma con il corpo femminile. Al museo si trovano anche le copie delle tavolette di “Rongo Rongo”, gli originali sono ancora in mano agli studiosi per essere decifrate.
Finita la visita al museo, che comunque richiese un po’ di tempo ci dirigemmo verso Puna Pau, una piccola cava in mezzo alle colline, unico luogo in cui venivano costruiti i pukao.
Tappa successiva fu l’Ahu di Akivi, dove a differenza degli altri Ahu, i 7 Moai sono rivolti verso l’oceano. Questo altare è posizionato più all’interno rispetto alla scogliera, da qui infatti nascono due teorie: una per la quale sembra che tra la scogliera e l’altare ci fosse un villaggio, quindi i Moai non guarderebbero verso il mare ma in direzione del villaggio; l’altra invece che i Moai sono rivolti verso le isole Marchesi.
Proprio qui ci facemmo una foto di gruppo in ricordo di questi bellissimi momenti condivisi assieme.
Durante il ritorno ci fermammo a Te Pahu, delle bellissime e lunghissime caverne dove i Rapa Nui si rifugiavano durante il tempo delle guerre, ancora oggi si possono vedere dei “letti” fatti di sassi.
La guida ci accompagnò nuovamente nel villaggio, tra souvenir e passeggiate salutammo Rita e Riccardo che partirono la sera stessa per Papeete, mentre noi tornammo a cenare al Te Moana.
La mattina seguente, dopo la piacevolissima e ricca colazione, Hermann ci venne a prendere per  il trasferimento all’aeroporto, al Duty Free ritrovammo Maurizio il nostro autista che aiutava un amico ad una bancarella, mentre Hermann rimase in attesa di un nuovo gruppo di turisti da accompagnare alla scoperta di questa misteriosa isola che porteremo sempre nei nostri ricordi.

Alessia & Marco