E’ pomeriggio quando dai finestrini del nostro aereo scorgiamo le terre cubane, ed il pensiero vola per un istante alle mitiche gesta della rivoluzione, ai barbudos di Fidel, a Camilo, al “Che”, alla battaglia di Santa Clara. Ma questa è un’altra storia, ovviamente ben più importante. La nostra inizia il 5 Agosto 1995 all’aeroporto Josè Martì dell’Havana, che mostra subito ai passeggeri in arrivo, la realtà dell’ isola di Castro. Inesorabilmente troviamo ad attenderci delle strutture fatiscenti, ed una lunghissima coda alla dogana. Fuori dall’aeroporto, come in tutte le grandi città del resto, si viene letteralmente assaliti da una miriade di taxisti regolari e non, desiderosi di condurti in città. Nel nostro caso usufruiamo dei servizi di una trentenne cubana, che in cambio di quindici bigliettoni verdi, ci scorazza sulla sua Lada sovietica dall’aeroporto all’Hotel Plaza, ubicato ad un angolo del Parque Central nel centro dell’Havana Vieja. Viaggiando nelle capitali dei paesi meno sviluppati economicamente, spesso si resta colpiti dal forte impatto che si avverte quando, lasciato da pochi metri l’aeroporto, ci si avventura nel cuore della città, percependo immediatamente le molteplici differenze con le metropoli occidentali. L’Havana le supera tutte, perché fuori dall’aeroporto ci si trova catapultati in un mondo senza tempo, dove le strade sono affollate da biciclette ed automobili anni ’50, dove i muri sono imbrattati da slogan inneggianti la “Revolucion”, dove le pubblicità, rimarchevoli simboli del nostro squallido consumismo, sono del tutto assenti. Ma quando, una volta superata Plaza de la Revolucion, sulla quale spicca una gigantesca immagine del Che Guevara, ci si addentra nel cuore dell’Havana vecchia, si capisce ancor più come alle soglie del duemila, si possa ridurre una nazione in ginocchio, solo perché questa abbia ventilato ambiziosi pensieri di “libertà”. L’Havana vecchia cade letteralmente a pezzi, i palazzi crollano, nonostante sia stata dichiarata dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità e sia stato varato un grandioso piano di restauro. L’Hotel Plaza, con i suoi stucchi e le sue decorazioni, spicca nel cuore della città vecchia. La sua hall, con tanto di pianista e lunghissimo bancone di legno al bar, crea un’atmosfera sensazionale. Il tempo di sistemare i bagagli nella nostra camera dall’altissimo soffitto, arredata con mobili antichi in legno scuro, ed io e la mia metà siamo già catapultati nel cuore della “magica Habana”. Con guida alla mano, occhiali da sole, ed ansia di scoprire tutto ciò che ci circonda, percorriamo dopo aver superato il mitico “Floridita”, la lunga Calle Obispo, assaliti da una moltitudine di persone desiderose di farci da guida, perché qui purtroppo, per accaparrarsi gli ambitissimi dollari, la gente simprovvisa nei più disparati tipi di mestieri. Intorno alle 18 ci sediamo su una panchina della bellissima Plaza de Armas, tipica piazza quadrata in stile coloniale spagnolo, abbellita da giardini e monumento dedicato a Carlos Manuel de Cespades, il proprietario terriero che nel 1868 diede il via con successo alla prima effettiva rivolta contro il colonialismo spagnolo. Qui facciamo la conoscenza di un ragazzo che, tra il suo ed il nostro imbarazzo, ci accompagnerà in giro per la città. Nel corso della nostra passeggiata, ci rendiamo conto sempre di più delle reali condizioni di vita del fiero popolo cubano, della sua folle corsa quotidiana per la sopravvivenza, della sua semplicità. Il Malecon (lungomare) dell’Havana è qualcosa di straordinariamente spettacolare. Questa passeggiata che si snoda per qualche chilometro, sotto un sole che mette alla prova anche il più inguaribile amante della tintarella, è il luogo di ritrovo delle giovani coppie habanere, di famiglie che si ritrovano dopo diversi giorni di lavoro in qualche parte dell’isola, dei bambini che fanno il bagno in mare muniti di vecchi copertoni, di turisti come noi. Le case al di là della strada, sebbene fatiscenti, sono particolari in quanto i loro abitanti le hanno pitturate con delle vernici dagli svariati colori, conferendo in questo modo un tocco doriginalità al malecon, che appare ai visitatori come un lungo teatrino di cartapesta. Girovagando per le strade dell’Havana, si viene inevitabilmente colpiti da un altro aspetto contemporaneo, che purtroppo ha ben poco a che vedere con i nobili intenti della rivoluzione: la prostituzione! E’ un fenomeno dilagante in questo periodo a Cuba, in quanto la povertà è cosa assai difficile da digerire e fa davvero impressione vedere quest’omoni di mezza età, dal portafoglio probabilmente gonfio, spassarsela assiduamente con belle ragazze, che potrebbero essere le loro figlie. Lincontriamo ovunque, dai ristoranti ai bar, dai musei alla hall del nostro hotel, ma la cosa che più ci stupisce, pur avendo già vissuto situazioni analoghe in altri paesi come la Thailandia, è la differenza del tipo di prostituzione, visto che qui i maialoni europei non cercano solo il momentaneo piacere erotico con una giovane dolcezza locale, ma una vera e propria amante, che li accompagni ovunque durante il loro soggiorno cubano. Così, c’è chi torna periodicamente a Cuba per spassarsela una quindicina di giorni in un posto favoloso, allegro e dal mare incantevole, con la sicurezza di non esser mai solo, e chi torna poiché qui ha lasciato in prestito il cuore a qualche calorosa e dolce ragazza, che lo aspetta impaziente a braccia aperte e che, in qualche caso… si consola con il prossimo di turno! Intorno alle 19,30, sudati e stanchi, giungiamo con il nostro amico quasi alla fine del lungomare, nei pressi del quartiere denominato “Vedado”, allinizio del quale spicca l’imponente sagoma dell’Hotel Nacional, il più lussuoso, elegante e caro di tutta l’isola. Da qui, volgendo lo sguardo indietro lungo la strada percorsa, si resta incantanti dal panorama offerto dal malecon, intriso dalla forte luce creata dal sole basso, che lentamente si sta addormentando nel golfo del Messico. Risaliamo la “Rampa” in direzione dell’Habana Libre, storico Hotel nel quale ha soggiornato anche Fidel Castro subito dopo il trionfo della Rivoluzione, e nel quale pensiamo di dormire anche noi il giorno 15, al ritorno dall’isola di Cayo Largo, la nostra prossima meta. Il proibitivo prezzo di 100 dollari, e la scadente struttura dell’Hotel Capri nelle vicinanze, ci faranno optare per la conferma del Plaza nell’Havana Vieja, dove tutt’ora siamo sistemati. A dire il vero, il nostro amico ci ha proposto l’alternativa di una casa privata cubana, ma probabilmente siamo stati sfortunati nella proposta, considerato che al delizioso aspetto esteriore, si contrapponeva un inquietante interno. Salutiamo il ragazzo regalandogli qualche dollaro e restiamo qualche minuto seduti sul bordo della lunghissima calle 13, il cui inizio viene denominato “rampa”, da dove osserviamo le lunghe code di persone in attesa dei particolarissimi autobus, che i locali chiamano “camejos”, i quali non sembrano altro che delle motrici di tir, alle quali sono stati agganciati dei rimorchi vetrati, per trasportare i passeggeri. La gente in coda alle fermate, viene ordinatamente fatta salire sui “camejos” da dei personaggi vestiti in giallo, il cui compito è proprio quello di disciplinare la fila, evitando così il problema del fatidico numeretto, assai diffuso nelle nostrane tavole calde. Dopo esser stati avvicinati da un tizio che voleva proporci un albergo economico (chissà come ha saputo che lo cercavamo), con un taxi ci spostiamo nel quartiere residenziale della capitale denominato “Miramar”, per cenare al ristorante La Cecilia. Assaggiamo quindi per la prima volta, la tanto decantata cucina criolla, della quale apprezziamo molto una delle specialità dell’isola: “moros y cristianos”, ovvero riso e fagioli neri, conditi con piccoli pezzi di carne di maiale. Particolarmente interessanti, sono anche delle banane non dolci, fritte, tagliate a rondelle, e servite come contorno. A fine cena torniamo nella vecchia Havana e ci facciamo condurre nel bar più famoso di tutta Cuba: “La Bodeguita del Medio”. La fila, in quello che una volta era il rifugio del grande Hemingway, arriva sin fuori il locale, ed il famoso “mojto”, composto da Rhum, succo di limone, zucchero e foglie di “hierbabuena” (particolare tipo di menta fresca), è servito a fiumi. Dopo aver dato il nostro modesto contributo, al consumo del notevole “ron” cubano, andiamo ad addormentarci in uno degli ultimi paesi socialisti del 1995. Il mattino seguente, il nostro risveglio è allietato da una piacevole colazione servita su un alto terrazzo, dal quale si gode uno stupendo panorama della vecchia Havana assolata. Decidiamo di ripercorrere la medesima strada del precedente giorno, anche per filmare con più tempo a disposizione la capitale cubana. L’addentrarsi nei vicoli solitari dell’Habana vieja, offre al visitatore una sensazione particolare, in quanto si riesce a percepire al di fuori dei consueti giri turistici, come vive il popolo di Fidel Castro. Scorgiamo qua e là botteghe per la riparazione di biciclette, panifici, persone con la tessera in coda davanti ai negozi, piccoli bambini di colore intenti nei loro giochi pronti a chiederti un “cicle”, ma soprattutto notevoli edifici in stile coloniale disastrati. Il tutto condito con il contorno perenne di musica salsa, che fuoriesce dalla maggior parte delle finestre. Visitiamo il Castillo de la Real Fuerza, massiccio forte dalle mura alte circa dieci metri, che fu costruito nel 1558 a difesa del porto dellHavana e sulla cui torre svetta una copia della girardilla, la statua in bronzo raffigurante una nobildonna del seicento, divenuta negli anni il simbolo stesso della città, e riprodotta tra laltro sulle etichette del rhum Havana Club. Dopo aver passeggiato lungo il canale che fiancheggia il porto, verso l’ora di pranzo stuzzichiamo qualcosa al ristorante “El Patio”, di fronte alla splendida cattedrale barocca terminata nel 1777, oggi conosciuta come Catedral de San Cristobal de la Havana, la quale ospitò tra laltro i resti di Cristoforo Colombo dal 1796 al 1898. Il nostro pasto è allietato da un complessino improvvisato, quasi a sottolineare ancora una volta la musicalità della capitale cubana. E sensazionale come con pochi strumenti, per lo più composti da percussioni, si possa creare un ritmo così travolgente, un ritmo che diffonde allegria e voglia di vivere, nonostante le tante difficoltà quotidiane. Al nostro tavolo veniamo avvicinati nellordine da un abile caricaturista, da almeno tre persone desiderose di venderci per qualche dollaro il biglietto da tre pesos cubani con leffige del Che, e per ultimo da un losco individuo che ci offre beffardamente della cocaina. Nel primo pomeriggio, iniziamo a ripercorrere il malecon dal castillo di San Salvator de la Punta, e tra le varie persone che ci avvicinano, ci fermiamo a conversare una ventina di minuti con due graziose adolescenti di colore, attratte dai fermagli e dalla maglietta di mia moglie. Ci scrivono il loro indirizzo (Campanario # 68 % Lagunas y San Lazaro), con la speranza che possiamo spedirgli qualche indumento dall’Italia e ci raccontano tra la nostra incredulità, che la loro cantante preferita è nientemeno che Laura Pausini, di cui intonano le principali canzoni. Il Malecon nonostante la sua bruttezza attrae, ed a costo di sembrare ripetitivo, consiglio spassionatamente a chi si reca in visita a Cuba, di effettuare almeno una passeggiata sul lungomare dell’Havana, poiché è un esperienza fuori dal comune, almeno fino a quando non tramonta il sole, considerato che la sera purtroppo si trasforma in un luogo più o meno equivoco. La nostra prossima tappa, è ancora una volta l’imponente Habana Libre, in quanto ci occorrono le batterie per la macchina fotografica e questo è forse l’unico posto in città dove si possono facilmente reperire, così comè l’unico posto, dove si possono prelevare dollari con la carta di credito, ovviamente se la stessa non fa parte dei circuiti statunitensi. Infatti l’Hotel possiede il più fornito negozio per turisti (tienda) di tutta l’Havana, nel quale però i cubani, sono praticamente out. Fa impressione tra l’altro, il notevole dispiegamento di forze della polizia turistica nelle adiacenze dell’Hotel e l’innumerevole quantità di taxi turistici. All’Habana Libre, ci si rende conto che a Cuba vige una netta separazione tra il turista ed il popolo cubano. Per il turista all inclusive, il lato positivo di una vacanza a Cuba è rappresentato dalla sicurezza, in quanto raramente si corre il rischio di essere molestati, considerata la costante presenza della polizia turistica, ma l’aspetto negativo è dato dal fatto che chi viaggia autonomamente, non può calarsi totalmente nella realtà del paese, in quanto ristoranti, bar e negozi pubblici, sono divisi in quelli per i cubani, nei quali si paga in pesos (moneta locale ed illegale per i turisti), ed in quelli per gli stranieri, nei quali si paga esclusivamente in dollari, ed in dollari convertibili, ovvero delle monete cartacee corrispondenti ai dollari, stampate appositamente a Cuba, per fronteggiare la mancanza di biglietti verdi. L’alternativa sempre crescente sull’isola, per stare a contatto con la gente locale, è quella di frequentare pur “illegalmente” le case private cubane, sia per dormire che per mangiare, spendendo un decimo di quello che si spende nei vari hotel e ristoranti, fornendo un concreto aiuto economico alle famiglie, comunque sempre bisognose, ed instaurando nella “maggior parte dei casi”, un vero rapporto umano. Già, nella maggior parte dei casi, visto che c’è il concreto rischio di esser derubati, come in realtà abbiamo sentito da qualcuno, forse un pò troppo ingenuo. Ma questo è il rovescio della medaglia, che colpisce soprattutto chi ingenuamente, si fida del primo conosciuto. Comunque oggi, ad Agosto ’95, questi fenomeni considerati illegali, stanno rapidamente diffondendosi, tanto che credo che il governo cubano dovrà quanto prima esaminare l’opportunità di legalizzarli. Dopo aver fortunatamente cambiato le batterie alla nostra ormai fedele compagna di viaggio “Yashica”, proseguiamo il nostro tour de force alla volta della immensa Plaza de la Revolucion, distante dall’Habana Libre ad occhio e croce, circa due, o tre chilometri. Dalla rampa, imbocchiamo sulla sinistra la calle L, situata di fronte alla gelateria Coppelia, famoso ritrovo della gioventù habanera, che per nostra sfortuna oggi abbiamo trovato chiusa. Durante il percorso, condito da unimprovvisa spruzzatina di pioggia, poco prima di giungere nei pressi delluniversità notiamo diverse belle ville abbandonate, appartenute senza dubbio a facoltosi americani o ad esponenti della ricca borghesia filo-Batista, nel periodo antecedente la rivoluzione, quando l’isola famosa tra l’altro per le sue case da gioco, veniva chiamata “il bordello dei caraibi”. E’ una sensazione difficile da raccontare, quella che si prova vedendo queste splendide e decadenti ville deserte, vicino a dei bambini a torso nudo che giocano scalzi con delle semplici cose, ma che appaiono comunque felici. Loro hanno unistruzione, il governo gli offre la possibilità di studiare gratuitamente fino alla laurea, sullisola non ci sono le malattie diffuse in buona parte dellAmerica Latina, poiché i cubani godono di un sistema sanitario allavanguardia e, anche in questo caso, completamente gratuito. Credo che forse nessun altro paese del terzo mondo, possa annoverare un centro come quello Ibero-Latino Americano de Neurotrasplante, famoso in tutto il mondo per la cura dei morbi di Parkinson ed Alzheimer, delle lesioni del midollo spinale e del cervello. Ma a Cuba purtroppo mancano i beni di primaria necessità. Forse non tutto, per colpa di qualcuno è riuscito! Forse, anche qualcun’altro ha comunque commesso degli errori! Chissà cosa penserebbe attualmente della sua Cuba, il mitico “Che” Guevara, che troviamo qualche centinaio di metri più avanti, raffigurato sullintera facciata di un edificio ministeriale in Plaza de la Revolucion. Molta gente da noi incontrata in questi due giorni, anche se ha avuto alla base un’educazione forse straordinaria, non eccede in ideali ed onestà (pur mantenendo una notevole signorilità), poiché purtroppo nelle condizioni attuali, è costretta suo malgrado, a fare i conti quotidianamente con la peggior nemica della dignità umana: “madame miseria”. Sono convinto che noi viziati figli del benessere, abbiamo comunque ancora molto da imparare. Restiamo qualche minuto fermi in Piazza della Rivoluzione, sede delle più grandi manifestazioni di massa della Cuba castrista, con lo sguardo rivolto verso il pannello che raffigura il Che, dopodiché scattiamo qualche foto di rito da sotto lobelisco alto 140 metri dedicato a Josè Martì , leroe cubano per eccellenza. Martì merita a tutti gli effetti di essere annoverato tra i più grandi uomini di sempre dellAmerica Latina. Egli fu lorganizzatore politico dellindipendenza cubana dal colonialismo spagnolo, ed intuì quasi un secolo prima della rivoluzione castrista, la minaccia imperialista degli Stati Uniti dAmerica nelle Antille, ed in tutto il sudamerica. Ma il più grande progetto di quello che fu uno scrittore, poeta (le prime parole della celebre Guantanamera sono suoi versi) e giornalista, resta lidea della liberazione dai colonialisti non solo di Cuba, ma di tutta lAmerica Latina, un continente nel quale secondo Martì, avrebbero potuto convivere liberamente, e con pari opportunità, tutte le varie razze che vi abitano. Morì nel 1895 a soli 42 anni in uno scontro contro lesercito spagnolo, praticamente agli inizi della seconda guerra per lindipendenza, ma i suoi scritti e le sue tesi saranno spesso letti e citati anche dai massimi esponenti dellattuale governo cubano rivoluzionario. Sono circa le sette di sera, quando da Plaza de La Revolucion, ci spostiamo in taxi in Hotel, per una strameritata doccia. Verso le dieci, dopo un’estenuante fila, ceniamo alla Bodeguita del Medio, che con l’avvento del turismo, si è trasformata anche in un ottimo ristorante dalla notevole cucina criolla e dall’impareggiabile atmosfera. Per la cronaca, ottimi i “chicharrones de cerdo” (parti grasse del maiale fritte), oltre agli immancabili “moros y cristianos”, ottimo il duo in chitarra, che esegue svariate volte “Guantanamera” e ” Besame Mucho”, ottimo il “Mojto”, eccellente in tutto il suo complesso, la turistica “Bodeguita del Medio”, letteralmente cosparsa da centinaia di fotografie e firme, delle celebrità di tutto il mondo. Il giorno dopo, è d’obbligo una tappa al commovente museo de la Revolucion. Quadri, ritagli di giornali, fotografie e cimeli originali della recente storia cubana, da Josè Martì sino ai nostri giorni, con un occhio di riguardo, ovviamente per la “Revolucion”. Ci sono anche due statue in cera, straordinariamente raffiguranti Camilo Cinfuegos e Che guevara, i due principali leader che trionfarono assieme a Castro nella vittoria contro il dittatore Batista. Credo che lattuale Cuba avrebbe avuto fortemente bisogno delle forti personalità dei due famosi barbudos, ma purtroppo Camilo morì in un incidente aereo appena undici mesi dopo il trionfo della rivoluzione, ed il Che beh, sappiamo tutti come il 9 Ottobre 1967, una raffica di mitra nella scuola boliviana de La Higueras, abbia spento la luce che stava illuminando la dignità dei popoli latinoamericani. Dopo aver trascorso almeno un paio dore nel museo, scendiamo nel giardino sottostante, dove troviamo esposti vari aerei ed automobili dell’epoca rivoluzionaria, nonché, dulcis in fundo, in una teca di vetro ben custodita, il leggendario Gramna, lo yacht con il quale nel 1956, Fidel Castro ed i suoi rivoluzionari salparono dal porto di Tuxpan in Messico, per liberare Cuba dalla dittatura di Fulgencio Batista. Usciti del museo passeggiamo sul vicino Paseo del Prado, costruito nel 1772 sullo spunto dellomonimo viale di Madrid. Si tratta veramente di un bel viale contornato da lampioni e panchine in ferro battuto, che dal Parque Central, vicino al nostro hotel, conduce allinizio del malecon. Nel tardo pomeriggio, dopo un tramezzino, ed una pioggia torrenziale, voliamo alla volta di Cayo Largo nellarcipelago delle Canarreos in pieno Mar dei Caraibi, su un aereo “muy particular”. Dopo circa quaranta minuti di volo atterriamo sull’isola, la cui pista è situata direttamente sul mare. Però…. che mare!!!!!!! Il ragazzo che si occupa del nostro trasferimento all’Hotel Los Pelicanos, ci rallegra subito dicendoci che da due settimane piove ininterrottamente sull’isola, ed abbiamo concrete possibilità di trascorrere la nostra settimana interamente in camera. Della serie W il gufo!!! In hotel facciamo subito la conoscenza di Gustavo, un cubano che parla perfettamente l’italiano, il quale è a disposizione dei clienti per le loro eventuali necessità. Ci invita a partecipare al classico cocktail di benvenuto in compagnia di due anziane signore, le quali ci raccontano che negli ultimi due mesi hanno girato quasi tutto il Sudamerica e la cui intenzione sarebbe quella di fare snorkeling con noi il giorno seguente. Dopo le classiche ed imbarazzanti scuse di rito, ci dirigiamo gambe levate a contemplare il Mar dei Carabi, che ci regala con i suoi magnifici colori un grande spettacolo, sebbene siano ormai le sette di sera, ed il mare è leggermente increspato per via di uno dei tanti cicloni stagionali, abbattutosi sulle coste cubane, circa due settimane or sono. Malgrado il gufo, trascorriamo una settimana da sogno a Cayo Largo, un’isola nella quale basta allontanarsi poche centinaia di metri dai quattro unici complessi alberghieri (raggruppati a poche centinaia di metri luno dall’altro), per trovarsi in completa solitudine su chilometri di spiaggia di un candore abbagliante, bagnata da un mare dai riflessi di smeraldo, i cui depliant che avevamo sfogliato prima della partenza non rendono minimamente giustizia. Giornalmente effettuiamo passeggiando lungo il mare, i sette chilometri che separano il nostro hotel da Playa Sirena, la spiaggia più famosa, più bella e sicuramente più affollata dell’isola. Visto che praticamente tutti i turisti di Cayo Largo preferiscono raggiungere Playa Sirena con dei bus-navetta, che fanno giornalmente la spola tra gli alberghi e la banchina dove ci si imbarca per un breve tragitto per raggiungerla, inevitabilmente il lungo tratto di arida spiaggia che separa la rinomata spiaggia dagli Hotel, si trasforma in una specie di isola deserta, nella quale possiamo toglierci la soddisfazione di fare il bagno nudi in un mare dalle acque incontaminate, con lesclusiva ed unica compagnia di qualche enorme pellicano. Quando passeggiando, cominciamo a scorgere in lontananza le prime sagome umane, capiamo che siamo ormai arrivati a Playa Sirena, spiaggia di indiscutibile bellezza, nella quale però se non fosse per il mare da sogno, si avrebbe la netta sensazione di trovarsi in una qualsiasi spiaggia pubblica italiana, considerata la notevole affluenza di nostri connazionali. Poco distanti da Playa Sirena ci sono un paio di ristoranti (affollati prevalentemente da turisti partecipanti alle gite giornaliere in aereo, dall’Havana e Varadero), che servono aragoste, gamberoni, ed altre specialità di mare. Vicino al pontile di Playa Sirena vengono proposte anche diverse escursioni a pagamento. Decidiamo di partecipare a quella che offre un giro di Cayo Iguana, uno splendido isolotto deserto in pieno Caribe, abitato unicamente da questi animali, che si avvicinano a prendere il cibo direttamente dalle mani dei turisti. Le iguane sono state trapiantate qui diversi anni or sono e si sono riprodotte a centinaia, trovando probabilmente un habitat a loro congeniale. A Cayo Largo effettuiamo anche la nostra prima immersione freschi di brevetto. E’ giunta l’ora di goderci i sacrifici invernali. Alle 10 del mattino del nostro quarto giorno di permanenza, a mollo in un brodo di giada, al segnale dell’istruttore cubano sgonfiamo il gav, compensando e scendendo lentamente in un mondo incantato. Cernie, razze, branchi di barracuda, di pesci angelo e pappagallo lo rendono completamento diverso dall’anonimo mare al quale eravamo abituati. Cinquanta minuti di immersione a 23 metri di profondità per sognare, e per finire inevitabilmente l’aria della bombola da gran pivello, ma ne è valsa sicuramente la pena, anche se devo ammettere che ci sono stati dei minuti di gran paura. Forse il nostro istruttore, non facendoci risalire nellistante in cui ho iniziato a fargli i gesti convenzionali, e passandomi il suo erogatore solo al mio segnale definitivo di mancanza d’aria, è stato un pò troppo ardito, o forse siamo noi che ragioniamo troppo da dilettanti, comunque ormai è andata, ed è anche questa un’esperienza da raccontare. Il giorno 15 con una grande malinconia, e con dei ricordi che ci accompagneranno per il resto della nostra vita, lasciamo quel mondo incantato di Cayo Largo, per volare nuovamente alla volta dell’Havana. Posati i bagagli all’hotel Plaza, ci dirigiamo in taxi presso l’Havana Tour, un’agenzia di Viaggi sulla “rampa” dove prenotiamo un volo per Santiago de Cuba al nostro ritorno dal Messico, dove voleremo domattina, dopodiché ci dirigiamo al Castillo del Morro, attraversando il tunnel sottomarino di settecento metri, che divide lo stesso dal resto della città. Il castello fu progettato assieme a quello di San Salvador de la Punta (situato esattamente allopposto del canale), nientemeno che dallarchitetto italiano Battista Antonelli per conto del governatore spagnolo dellisola, al fine di difendere lHavana dagli attacchi dei pirati. Le due fortezze rappresentavano il primo punto di difesa dellHavana, ed in caso di imminente pericolo, veniva tesa tra le stesse una catena, allo scopo di impedire laccesso al canale. Terminato il nostro giro nel castello, visitiamo ladiacente Fortaleza de la Cabana, imponente fortezza la cui costruzione ebbe inizio nel 1764, dopo il ritiro delle truppe inglesi che, dopo ben 44 giorni di assedio, due anni primi espugnarono il Castillo del Morro, prendendo possesso della città. La Fortaleza de la Cabana divenne un po il simbolo difensivo dellHavana, tanto che a quei tempi, un colpo di cannone sparato dalla fortezza, simboleggiava il segnale di allarme per un imminente attacco nemico, con la conseguente chiusura delle porte della città e lo sbarramento delladiacente canale di accesso al porto. Nel nostro secolo fu usata anche come prigione dopo il trionfo della rivoluzione, tanto che oggigiorno il pezzo forte della fortezza, sono gli uffici dove lavorò con il grado di comandante il Che Guevara, con tanto di scrivania originale, oggetti privati e varie toccanti foto che ci vengono illustrate in completa solitudine, da una giovane custode, apparentemente emozionata quanto noi, la quale non usa mai il termine Che, ma sempre El comandante. Per degli inguaribili romantici come noi, sono quei momenti nella vita in cui la commozione raggiunge l’apice e riesci a stento a trattenere le lacrime. Aspettiamo seduti lungo le mura della fortezza che il sole si corichi nel golfo del Messico, facendoci (semmai ce ne fosse bisogno) sognare, ed alle nove in punto assistiamo in compagnia di numerosi cubani alla sparo del quotidiano colpo di cannone. Essendo Ferragosto, legati come siamo alle nostre tradizioni, la sera decidiamo di cenare in uno dei migliori ristoranti dell’ Havana: El Floridita. Un tempo solo bar, frequentato dal solito Hemingway che sembrava non perdersene uno, e che lo ha reso celebre citando nei suoi romanzi leccezionale daiquiri, la specialità della casa, oggi si è trasformato nell’unico locale dell’isola capace di guadagnarsi di diritto un posto nella speciale classifica dei migliori ristoranti del mondo. Eccellente paella, ottimi crostacei alla griglia, discreto vino cileno, gustosa frutta tropicale saltata al Rhum, ed immancabile quartetto musicale abile nel creare la giusta atmosfera romantica cantandoci “Besame mucho”. Una serata davvero indimenticabile, per la modica e popolare somma di 120 dollari americani. Mica male però per un paese socialista.
CUBA, YUCATAN e BELIZE 1995![]()
di Bnx ( Benedetto Antonucci )
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L’ISLA REBELDEIl mattino seguente alle otto in punto, lasciamo Cuba con un volo della Mexicana de Aviacion per dirigerci in Messico, un paese che da sempre ci ha attratto. Alle otto ora locale (due ore in meno rispetto a Cuba), atterriamo a Merida, la capitale dello stato dello YUCATAN, culla del mondo Maya. Dopo dieci giorni trascorsi a Cuba, l’aeroporto di Merida risveglia in noi con le sue pubblicità luminose, il ricordo leggermente assopito dell’Europa. Il nostro lussuoso Hotel “Casa del Balam”, un tempo casa di ricchi proprietari terrieri locali, è letteralmente eccezionale con il suo patio interno in stile coloniale spagnolo circondato da piante altissime, fontane, e sedie a dondolo in legno pesante. Le sue enormi camere sono arredate con mobili neri e sulle pareti adiacenti i due grandi letti rivestiti da spettacolari coperte azzurro scuro, spiccano due enormi crocifissi. Davvero un’atmosfera del tempo che fu. Intorno alle nove del mattino ci rechiamo nello spettacolare zocalo (la piazza principale della città), il quale è circondato da alberi, innumerevoli panchine in ferro battuto, ed è sovrastato dalla mole dell’enorme cattedrale, la cui costruzione iniziò nel 1561, con le pietre del locale tempio maya distrutto dagli spagnoli. Allinterno della stessa troviamo la statua del Cristo de las Ampollas, la quale secondo quanto narra la leggenda, fu scolpita nel legno di un albero che, dopo esser stato colpito da un fulmine, arse ma non si distrusse. La statua si salvò in seguito anche dallincendio della prima chiesa dove venne collocata, ma su di essa apparvero dei segni simili alle vesciche procurate da una scottatura, divenendo in questo modo un caloroso oggetto di culto. In un altro lato dello zocalo, si erge maestoso il palazzo del governo, sulla cui sommità, sovrapposto allintensissimo cielo azzurro contornato da nugoli di candide nuvole, svetta il tricolore messicano. Entriamo allinterno del palazzo, dove osserviamo i colorati murales di un artista locale chiamato Fernando Pacheco, i quali illustrano la storia dei maya. Altro edificio di spicco sulla piazza è la casa dei conquistatori dello Yucatan, la famiglia Montejo. Allinterno del palazzo è collocata una filiale della Banamex, e ne approfittiamo per prelevare un po di pesos dalladiacente bancomat. Il palazzo in se stesso, la cui costruzione risale grosso modo alla metà del 1500, non sarebbe niente male se non fosse per la sua facciata, sulla quale sono rappresentati i conquistadores che tengono i propri piedi sul collo dei maya, sostanzialmente a simboleggiare il proprio dominio. Gironzolando nella piazza, si denota subito un’evidente differenza con la vicina e decadente Havana, in quanto questa città di Merida, ad un primo impatto somiglia molto ad una nostra cittadina di provincia, sebbene un pò più caotica. Continuando a passeggiare per le sue strade, ci si rende però conto che, sebbene ci siano tutti i segni del progresso, quali banche, grandi automobili, cartelloni pubblicitari, ristoranti e bar, ci sono anche evidenti segni di indiscutibile sottosviluppo e povertà, primi fra tutti la miriade di mendicanti e storpi che si aggirano per la città. In breve tempo vediamo gente con delle malformazioni tali che non abbiamo mai visto in vita nostra, anziani elemosinare fuori dalle chiese, ospedali con la simbolica scritta “economico”, bambini lustrascarpe disseminati ad ogni angolo della città. Qui il sistema economico è simile al nostro, qui vige il capitalismo, ma praticamente quasi non esiste una classe media, in quanto o si è ricchi in strettissima minoranza, o si è molto poveri in larghissima maggioranza. Beh, a questo punto, credo che sarebbe superfluo chiedersi chi comanda il paese. Dopo aver girovagato un pò per questa città, la quale manifesta tutti i suoi limiti di bellezza appena ci si allontana dal centro costituito in pratica dalla zocalo e dalladiacente Parque Hidalgo, ci rechiamo intorno a mezzogiorno al mercato municipale. Il caldo tropicale, associato al notevole smog, creano un cocktail niente male. Intorno al mercato si vede più colore, un pò più di Messico autentico, quel Messico che il turista occidentale immagina, quel Messico fatto di donne Maya vestite con i loro caratteristici e candidi huipiles occupate a vendere i propri prodotti, i loro frutti a noi praticamente sconosciuti, i loro splendidi tessuti, quel Messico fatto di suoni, musiche, ed intensi profumi. Riesco fortunatamente ad accorgermi di un losco individuo, che fissa con avidità il mio marsupio ancorato in vita. Mentre ci avviciniamo al mercato, continuo a tenere d’occhio il messicano, il quale ci cammina davanti, girandosi di tanto in tanto per guardarci. Poco prima di entrare nel mercato coperto (il quale vale la pena precisarlo, non è un mercato turistico dove si vendono souvenirs, ma un mercato locale), nel mezzo di una confusione pazzesca dovuta ai clacson delle automobili in coda, e alle urla dei vari venditori, chiedo a mia moglie di fermarsi e ci sediamo sul ciglio di un marciapiede, continuando a guardare il nostro amico. Non mi ero sbagliato, poiché dopo un paio di minuti, questi vedendo che ci eravamo fermati, torna indietro invitandoci addirittura ad entrare nel mercato, ma viene immediatamente allontanato con toni intimidatori da alcuni poliziotti di pattuglia, i quali ci invitano a prestare attenzione, poiché sembra che nel mercato si siano verificati numerosi episodi di furti ai danni dei turisti. Il tale era un pò troppo sospetto, anche per la proverbiale ospitalità messicana. Decidiamo quindi di tornare in hotel, al fine di lasciare tutto ciò che potrebbe far gola ad eventuali malintenzionati, e visitare senza contrattempi il caratteristico mercato di Merida. In hotel facciamo due conti, constatando che le nostre finanze sono già state abbondantemente intaccate nei dieci giorni trascorsi a Cuba, dopodiché pensiamo che potremmo mai perdere l’occasione di pranzare in uno spettacolare patio fresco e ventilato, come quello della “Casa del Balam”? Hamburgesa “bien cocida” per il sottoscritto, ed un “platillo de fruta” per la consorte. Lascio circa cinque pesos (1.000 lire) di mancia al cameriere, non disponendo di altra moneta, ma questi me li restituisce ridendo sarcasticamente, e facendomi osservare che la mancia nei ristoranti de lujo in Messico, ammonta al dieci per cento del conto, ovvero nel nostro caso a 6 pesos (1.200 lire). Confesso che restiamo interdetti. Ma dovè finita la signorilità dei camerieri cubani? In seguito, dopo aver lasciato il marsupio (che non porterò mai più con me), e con solo pochi spiccioli in tasca, torniamo al mercato, dove possiamo girovagare indisturbati tra le molteplici e particolari merci in esposizione, senza il pericolo di essere molestati. Terminata la nostra visita, attraversiamo praticamente a piedi l’intera città, per arrivare alla stazione degli autobus, dove acquistiamo un biglietto per il giorno seguente per Uxmal, una delle più belle e famose rovine della civiltà Maya, distante da Merida circa ottanta chilometri. Nella stazione, straziati dal caldo tropicale di Merida, ci sediamo dissetandoci con una Sprite, la cui lattina vuota, con nostro grande stupore, sarà oggetto di contesa tra diverse persone. La sera, dopo aver girovagato ancora una volta nei dintorni dello zocalo, ed aver fatto qualche piccolo acquisto, ceniamo in uno dei ristoranti più popolari e caratteristici di Merida chiamato Tiano’s, dove assaggiamo la “Cochinita Pibil”, uno dei piatti più famosi dello Yucatan, costituito dal maialino da latte cotto nella salsa achiote, (composta da succo di arance amare, cipolle, coriandolo e sale), assieme ad aglio, cumino, pepe nero, ed infine avvolto in foglie di banane e arrostito. La nostra prima sera in Messico, scivola ad un tavolo sotto un cielo stellato, circondati da venditori di amache, da piccoli bambini dai grandi occhi bruni intenti a vendere i loro tipici braccialetti colorati, da altri viaggiatori stregati come noi dalla magnifica atmosfera creata dal suono della “marimba”, il particolare xilofono assai diffuso nello Yucatan e Guatemala. Il mattino seguente, intorno alle otto, partiamo con un autobus di seconda classe per Uxmal, vecchia città maya in stile Puuc, dal nome delle basse colline circostanti. Alcuni studiosi sostengono che lo stile Puuc, sia tra gli stili architettonici più puri dei maya, cioè senza influenze da altri popoli, come nel caso di Chichén Itzà, laltro sito archeologico che visiteremo domani, il quale secondo quanto leggiamo, mostra chiare influenze tolteche. Nello stile Puuc, a copertura delle grezze mura di pietra, gli architetti Maya usavano delle mattonelle intagliate, una specie di tessere di mosaico sulle quali venivano finemente rappresentate alcune figure sacre, inoltre le costruzioni presentano altri splendidi dettagli come pregevoli fregi ornati e cornicioni finemente lavorati. Insomma, sembrano attenderci delle autentiche meraviglie. Sullautobus in partenza, oltre ad altri turisti come noi, salgono decine di donne Maya, le quali stipano nel portapacchi sottostante vari generi di mercanzie come ortaggi, sacchi di patate e mais, tacchini. Dopo circa un’ora e trenta di viaggio, veniamo lasciati sulla strada per le rovine, dove veniamo assaliti da un branco di fameliche zanzare. Sant’Autan, pensaci tu!!! Varcato il cancello d’ingresso, si resta completamente colpiti dalla grandiosità della principale rovina di Uxmal: la piramide del mago. Una volta superato il vero e proprio shock emotivo, provocato dalla sensazionale vista della piramide dai bordi avvolti che le conferiscono una particolare forma semiellittica, e scattata qualche irrinunciabile foto, ci accingiamo a scalarla, constatando subito, che l’impresa non sarà poi così facile. Infatti, gli innumerevoli gradini che dividono il suolo dalla cima della piramide, situata ad una quarantina di metri di altezza, sono incredibilmente ripidi e con pochissimo spazio su cui appoggiare i piedi per consentire la salita. Ci sono anche delle catene appositamente posizionate ai lati della scalinata, per aiutarsi soprattutto nella discesa. La difficoltà della scalata, è inoltre aumentata dai problemi che ha, chi come mia moglie soffre di vertigini. Comunque, dopo qualche peripezia e con un gran fiatone, riusciamo a raggiungere la cima della piramide, dove troviamo il portale che raffigura la bocca spalancata di Chac, il dio Maya della pioggia dal grande naso allungato. Dalla sommità della piramide si può godere di una spettacolare vista dell’intero sito archeologico, completamente circondato dalla foresta. E’ veramente bella Uxmal, ed è affascinante contemplare lo stupendo paesaggio circostante in tutta tranquillità, seduti sulla cima della piramide del mago, leggendo con calma qualcosa sui Maya, sulla loro storia, attorniati da viaggiatori di varie nazionalità. Si ha la sensazione non trascurabile di essere cittadini del mondo, di avere qualcosa in comune con ognuna di queste persone, che come noi hanno affrontato ore ed ore di aereo, spesso con notevoli sacrifici anche economici, per arrivare in cima a questa piramide persa nella foresta, per sognare ad occhi aperti dopo una faticosa scalata, qui, ad Uxmal. In circa cinque ore (un pò pochine per la verità), scaliamo e scopriamo le altre principali rovine dello splendido sito esteso approssimativamente su cento ettari. Visitiamo il quadrilatero delle monache, splendido edificio quadrangolare circondato da mura, il quale conta ben 74 stanze. Anche qui, sulla facciata dei quattro templi che formano il quadrilatero, è chiaramente visibile dappertutto il terribile volto del veneratissimo dio Chac, la cui importanza per i maya è ricollocabile presumibilmente alla scarsità di acqua sulle adiacenti colline Puuc. Proseguendo sulla stradina a sud del Quadrilatero, incontriamo il piccolo campo da gioco della palla, meglio noto come Ulama. Era un gioco crudele, religioso, rituale, tipico delle popolazioni mesoamericane. Il campo a forma di I maiuscola, delimitato sui lati da lunghe gradinate destinate al pubblico, rappresentava presumibilmente il mondo, mentre la traiettoria della palla veniva accomunata a quella del sole e della luna nel loro avvicendarsi tra giorno e notte, luce e oscurità. Al centro del campo, su entrambi i lati, a circa sette-otto metri di altezza, sono posizionati degli anelli in pietra finemente scolpita, raffiguranti Quetzalcoatl il terribile dio serpente piumato degli Aztechi, noto presso i maya con il nome di Kukulkan. Attraverso questi cerchi doveva passare una pesante palla in caucciù, la quale poteva essere colpita dai partecipanti solo con le anche, protette da apposite imbottiture di cuoio. Era un cruento gioco tra i vari partecipanti, dove in palio cera la vita. Chi perdeva veniva sacrificato agli dei, sempre avidi di nuove immolazioni. Mentre ci allontaniamo dal campo da gioco della palla, riflettiamo scherzando sullaltra teoria diffusa da alcuni studiosi, i quali sostengono che veniva sacrificato agli dei colui che vinceva il gioco, ed il tutto ci sembra decisamente bizzarro. Visitiamo in seguito il palazzo del governatore, magnifico edificio costruito su tre piattaforme ottimamente conservato, il quale misura circa cento metri di lunghezza e presenta ben undici entrate. A differenza degli altri, esposti verso ovest, questo è anche lunico edificio del complesso rivolto ad est, probabilmente per il fatto che lo stesso veniva usato dai grandi astronomi Maya per osservare il pianeta Venere. Sulla parte superiore ammiriamo neanche a dirlo, unestesa serie di bassorilievi raffiguranti le ennesime maschere del dio Chac. Adiacente alla costruzione troviamo la casa delle tartarughe, un piccolo edificio così chiamato dagli archeologi a causa di un sfilata di tartarughe scolpite con i loro gusci sul cornicione superiore. Tra una pausa e l’altra, con un pizzico di fortuna scorgiamo anche degli animali caratteristici, assai diffusi nelle rovine, come alcune gigantesche iguane, e delle particolari lucertole color verde smeraldo. Dopo aver visitato la gran piramide, e la colombaia, altre rovine che non ci hanno particolarmente entusiasmati, intorno alle quindici usciamo dal complesso archeologico, ed in attesa di prendere l’autobus per il ritorno a Merida, girovaghiamo un pochino, tra le varie bancarelle gestite da donne di origine Maya. Visto che non esiste una stazione, occorre comperare il biglietto dell’autobus direttamente dal conducente, il quale assegna i pochi posti a sedere, probabilmente a simpatia. Difatti, la prima volta che mi rivolgo a lui, mi dice che i posti a sedere sono terminati, ma dopo aver parlato con un ragazzo italiano dalla straordinaria rassomiglianza con un nostro vecchio compagno di classe, il quale mi ha detto di aver visto l’autista consegnare ad alcune persone i biglietti con “l’asiento”, torno dal messicano con un grandioso colpo di genio. Infatti, con una parte da grande attore, quale credo di esser sempre stato, gli dico che ci ha assegnato dei posti in piedi per un tragitto di un’ora e mezza, nonostante mia moglie si trovi in stato interessante. Il tizio scusandosi, mi sostituisce immediatamente i biglietti, assegnandomi i posti, cosa che deve aver letteralmente fatto impazzire il sosia del nostro vecchio compagno, visto che quando gli ho mostrato i biglietti numerati (ovviamente senza raccontargli l’espediente usato per ottenerli), questi si è diretto con istinto omicida verso l’autista, protestando come una furia. Prima di salire sull’autobus parlo un pò con il ragazzo italiano, scambiandoci le impressioni di viaggio e resto affascinato dal suo itinerario in Messico, raccontandogli a mia volta qualcosa su Cuba. Credo che il bello del viaggiare, sia anche questo. Dopo un tragitto più lungo del previsto, con le persone esauste, coricate persino sul fondo dell’autobus, arriviamo a Merida verso le cinque del pomeriggio e girovaghiamo per le sue spoglie e polverose strade. Il percorso a piedi, dalla stazione degli autobus allo zocalo, mostra l’aspetto genuino di questa città, con i negozi che al posto dell’ insegne, hanno le scritte verniciate sui muri, con dei piccoli locali dove a qualsiasi ora mangia la gente del posto, con delle pittoresche chiesette, con alcune fumose cantinas. Facciamo una breve sosta da Tiano’s assaggiando per la prima volta il cocktail nazionale, cioè il “Margarita”, mentre la sera ceniamo al ristorante Los Almendros, dove gustiamo il pavo relleno negro, ossia tacchino ripieno di carne di maiale notevolmente speziata e ricoperto da una salsa scura, che accompagniamo con delle squisite e calde tortillas, ed annaffiamo con la locale birra Montejo. Ci addormentiamo, con il pensiero rivolto alle autentiche meraviglie che abbiamo contemplato in giornata. Il giorno seguente (18 di Agosto), alle 7,30 lasciamo definitivamente Merida in autobus di prima classe, per dirigerci alla volta di Chichén Itzà, le rovine Maya più famose di tutto lo Yucatan. Chichén Itzà rappresenta la fusione architettonica di più culture, dove ad esempio, i fregi decorativi dello stile puuc si fondono con gli elementi squadrati e le piattaforme dei toltechi, il bellicoso popolo proveniente dal Messico centrale, la cui capitale era Tula, situata a nord di Città del Messico. In realtà sembra che la città sia stata costruita ben tre volte, la prima delle quali dovrebbe risalire al quinto secolo dopo Cristo, su uno stile molto simile al Puuc, come si evidenzia in alcuni edifici dalle diverse effigi del dio della pioggia Chac. Nel corso dei secoli fu abbandonata e riscoperta sia dai Maya di lingua itzà, provenienti dalla regione del Tabasco, sia dai Toltechi del Messico centrale. Dopo circa due ore e trenta di viaggio, scendiamo dall’autobus, che proseguirà la sua corsa verso la cittadina di Valladolid, e dopo aver acquistato il biglietto dingresso, attraversiamo bagagli in mano tutto il percorso che si snoda attraverso le rovine, rimanendo ammutoliti dinnanzi la maestosità degli splendidi siti. Con fretta depositiamo i bagagli nel nostro albergo chiamato Hacienda Chichen (che abbiamo riservato grazie allhotel di Merida) posizionato appena fuori il complesso archelogico, per avventurarci intorno alle 10,30 in questa vasta area, testimone in pieno, dello splendore della civiltà Maya. Scaliamo per primo “El Castillo”, la principale piramide del luogo alta circa 25 metri, nota anche come piramide di Kukulkan, meno pericolosa, ma altrettanto spettacolare della piramide del mago di Uxmal. Sotto una delle quattro facciate notiamo una lunga fila alla quale ci accodiamo, perché El Castillo contiene al suo interno unaltra piramide, dove ammiriamo tra laltro una scultura di un giaguaro di giada dipinta di rosso. Ma forse la più importante particolarità della Piramide di Kukulkan, la cui somma dei gradini delle quattro facciate e della piattaforma in cima, corrisponde ai 365 giorni del calendario Maya, consiste nel singolare fatto che negli equinozi di primavera e autunno, grazie alle grandi conoscenze astronomiche dei Maya, abili nel calcolare la posizione del sole rispetto alla terra, la stessa riflette sul terreno un’ombra raffigurante un serpente strisciante. Lenorme statua in posizione distesa del Chac Mool, il dio che tiene tra le mani una ciotola destinata a raccogliere i cuori pulsanti appena strappati dalle vittime sacrificate, sembra vegliare imperterrito sulle orde di turisti che si accingono a scalare la piramide di Kukulkan. Alle sue spalle visitiamo il tempio dei guerrieri, vicino al gruppo delle mille colonne, sulle quali sono scolpite immagini di guerrieri armati, e dalle quali arriviamo ad un edificio che si pensa avesse la funzione di un mercato. Gli studiosi sostengono che il tempio dei guerrieri presenti delle profonde analogie con il tempio tolteco di Tula, grazie alle colonne costituite da serpenti piumati, e dai motivi raffiguranti alcuni animali come i giaguari in cammino, i puma, e soprattutto le aquile che simboleggiavano gli ordini militari presenti negli altipiani messicani. Chichén Itzà a mio modesto parere, è indubbiamente più bella e grandiosa rispetto ad Uxmal, ed infatti lintera giornata che le dedicheremo sarà insufficiente, considerata l’estensione della città. Una menzione particolare merita l’enorme campo del gioco della palla presente a Chichén Itzà, il più grande rinvenuto in tutto il Messico, dove navigando con la fantasia, si possono immaginare le gare che vi si svolgevano, nelle quali era in palio la vita, che poteva essere sacrificata agli dei in caso di sconfitta (o di vittoria secondo altre teorie). Le mura intorno al campo sono piene di scene scolpite raffiguranti sacrifici, dove dalle teste decapitate delle vittime fuoriescono rivoli di sangue che si trasformano in teste di serpente, e parlando a bassa voce da unestremità allaltra, a causa di un singolare fenomeno acustico, è possibile udire chiaramente le parole. Il campo che stiamo visitando, è solo uno degli otto presenti a Chichén Itzà, e questo credo che possa dirla lunga sullossessione che i Maya provassero per questo gioco. Mentre passeggiamo tra gli scavi, il tempo che fino a questo punto del nostro viaggio è stato più che generoso con noi (considerando che Agosto in Messico non è proprio la stagione più indicata), si ricorda di mandar giù un pò d’acqua, che ci costringe a ripararci sotto alcune rovine, in compagnia di alcuni bambini di origine Maya. Questi, assieme alle proprie madri, vendono per pochi pesos oggetti dartigianato, frutta, e bibite, all’interno del vasto complesso archeologico. Fa riflettere il fatto che questi bambini, per la maggior parte scalzi e mal vestiti, siano i diretti discendenti di coloro che con grandioso ingegno architettonico, edificarono secoli fa questi edifici che attraggono ogni anno migliaia e migliaia di visitatori da ogni parte del mondo. Comunque la pioggia dura meno del previsto, consentendoci di ammirare in pieno le principali meraviglie del posto, come il tempio dell’uomo dalla barba, nel quale è presente un bassorilievo che raffigura chiaramente un uomo barbuto (che riporta alla mente le numerose leggende circa luomo venuto dal mare, adorato da molte civiltà mesoamericane), lo Tzompantli, un tempio di pietra nei quali sono scolpiti dei teschi umani e la Piattaforma dei giaguari e delle aquile, dove sono raffigurati questi animali che si accaniscono su dei corpi umani. Da qui imbocchiamo una stradina che ci conduce direttamente al Sacro Cenote, un largo pozzo profondo più di trenta metri, dove sono stati rinvenuti scheletri di donne, uomini e bambini, probabilmente sacrificati alle terribili ire dei sanguinosi dei locali. Nelle viscere del cenote sono stati ritrovati anche vari tesori doro e di giada, alcuni dei quali è stato dimostrato con certezza che provenissero da regioni molto remote. Sulla via del ritorno, poco prima di raggiungere la piazza principale del sito archeologico, troviamo un banchetto di un ragazzo che espone bei pezzi di artigianato locale, il quale farà la felicità di mia moglie, che riprenderà il suo cammino con appeso al collo uno splendido medaglione in argento, sul quale è stato finemente inciso il calendario Maya su entrambi i lati. Chichén Itzà è talmente vasta (circa dieci chilometri quadrati), che per visitarla tutta in maniera adeguata, credo occorrano almeno tre o quattro giorni pieni, e non riesco a spiegarmi, cosa poi traggano di positivo quelle persone (provenienti per la maggior parte da Cancun e Cozumel), che con un’escursione di un paio d’ore visitano il sito, affollandolo tra l’altro nelle ore centrali della giornata. All’orario di chiusura, mentre la città si sta colorando del rosso del tramonto, rimanendo praticamente deserta, noi ci rifugiamo nel nostro Hotel, immerso nelladiacente foresta che circonda Chichén Itzà, facendoci un superbo bagno in piscina e ritornando alle rovine intorno alle sette, quando viene effettuato uno spettacolo di luci e suoni per i pochi turisti che soggiornano sul posto. Considerato inoltre che il povero villaggio di Piste nelle vicinanze, offre ben poco, decidiamo di cenare con una buona bistecca alla parrilla con contorno di fagioli fritti nel nostro Hotel, che in passato è stato tra l’altro, tradizionale Hacienda messicana, consolato degli Stati Uniti d’America, nonché abitazione degli archeologi, che per primi scoprirono Chichén Itzà. Mentre la foresta circostante comincia ad animarsi di misteriosi rumori, che giungono sino al nostro tavolo, ci accingiamo ad addormentarci nella città che ha ospitato una delle più importanti e misteriose civiltà di tutte i tempi: i Maya. Il mattino seguente, dopo un’abbondante ed ottima colazione, rientriamo alle rovine per completare, seppur sommariamente la visita, facendoci tra l’altro intagliare per pochi pesos, una statuetta in legno raffigurante Yum-Kaax, il dio Maya del mais, da un giovane ed abile indio. Siamo praticamente soli, e ampiamente soddisfatti della giusta scelta di aver dormito nelle vicinanze. Riscaliamo in completa solitudine la piramide di Kukulkan, dopodiché imbocchiamo un piccolo sentiero che conduce dapprima ad una fatiscente piramide chiamata ossario, allinterno della quale furono trovati i resti di quello che fu presumibilmente un sacerdote, ed in seguito, dopo aver superato altre piccole rovine semisommerse dalla vegetazione, raggiungiamo El Caracol, losservatorio di due piani che ricorda nella forma circolare una chiocciola. Ci sono diverse finestre orientate nella direzione dei punti cardinali, praticamente a dimostrazione che le stesse venivano usate degli abili astronomi Maya che, probabilmente al fine di conoscere con precisione i periodi della semina, ed ingraziarsi a dovere i propri dei allo scopo di favorire le stagioni e propiziare dei buoni raccolti, seppero elaborare negli anni il loro praticamente perfetto calendario di 365 giorni. In seguito rientriamo in hotel, dopodiché, preparati i nostri bagagli, ci dirigiamo in taxi alla stazione degli autobus di Piste, distante un paio di chilometri. La nostra prossima destinazione, sarebbe dovuta essere la cittadina di Playa del Carmen, sul caribe messicano, ma il giorno precedente abbiamo verificato che non ci sono autobus in partenza da Piste per tale località, ed abbiamo quindi deciso di prendere l’autobus delle undici con destino Cancun, al fine di non rischiare di non trovar posto sugli autobus “de paso” diretti a Playa del Carmen. In circa tre ore di viaggio, giungiamo in quella che al giorno d’oggi, è la località turistica più famosa dell’intero Messico. Dalla stazione degli autobus, raggiungiamo in taxi dopo un’estenuante contrattazione l’Hotel El Pueblito, situato quasi alla fine dei venti chilometri della bianchissima e sottile striscia di sabbia sul Mar dei Caraibi, che costituisce la “zona hotelera” di Cancun. Ci è stata riservata telefonicamente una camera a buon mercato, da un impiegato dell’Hotel Hacienda Chichen, il quale è riuscito a trovarla solo dopo aver effettuato vari tentativi , considerato che Cancun non si contraddistingue certo per la sua economicità. Per fortuna l’hotel si dimostra ottimo, con personale simpatico ed accogliente e con una buona spiaggia sul turchese Mar dei Caraibi, che qui sembra particolarmente bello. Trascorriamo un pomeriggio da sogno, godendoci il bellissimo mare trasparente, dalle tonalità impossibili da descrivere, leggermente mosso, ed usufruendo in pieno di tutte le comodità offerte dall’Hotel, come il bar situato proprio dentro la bella piscina, tra l’altro piena zeppa di americani che si divertono come bambini. Intorno alle diciotto, dopo una gradevole Pina Colada, prendiamo un minibus per andare a visitare i giganteschi centri commerciali di Cancun, dove lo shopping ed i “born in the U.S.A.” la fanno solennemente da padroni. Qui, incredibilmente, troviamo anche dei commessi che sembrano non capire (o non vogliono) lo spagnolo, chiedendoci nel loro inglese messicaneggiante: “Do you not speak english”? E’ il rovescio della medaglia, l’altra faccia del nostro viaggio. Qui gli sbiaditi ideali non contano, qui tutto è in funzione del fantomatico….. dio dollaro. Ceniamo in un caratteristico ristorantino frequentato prevalentemente da messicani, in Avenida Cobà nella vecchia Cancun, chiamato “El Tacolote”, dove gustiamo una faraonica parillata mista di carne, riuscendo tra l’altro ad assaggiare la fatidica carne “al pastor”, che immancabile nei localini di Merida, aveva stuzzicato la nostra curiosità. La carne “al pastor”, consiste in deliziose sottili striscie di carne di color rosso fuoco, unite l’un l’altra in un enorme cono posizionato ad arrostire su uno spiedo verticale, la quale viene usata dai locali, soprattutto come ripieno per i tacos. Dopo questa cena, che avrebbe sfamato anche un leone, compriamo dei dolci in un supermarket, dopodiché in una ventina di minuti, raggiungiamo il nostro Hotel, con uno dei tanti minibus che collegano 24 ore su 24, la zona hotelera al centro della vecchia Cancun. Lindomani, dopo una goliardica colazione a buffet nel bar adiacente la piscina dell’hotel, ci godiamo in mattinata per l’ultima volta il mare di Cancun, prima di partire nel pomeriggio in autobus, alla volta di Playa del Carmen. Secondo i nostri studi, avremmo dovuto conoscere la tranquillità del tipico villaggio messicano del caribe, ma appena scendiamo dall’autobus, alla stazione di Playa del Carmen ci rendiamo conto che il turismo di massa, tra l’altro prevalentemente italiano, ha fatto proprio questo posto. Appena presi i bagagli nella pancia dellautobus, allinterno della stazione un giovane messicano ci avverte che tutti gli Hotel del paese sono pieni, consigliandocene uno (l’unico disponibile), dove ci avrebbe accompagnato lui stesso. Noi, malfidati più che mai, lo snobbiamo addentrandoci sulla strada situata a sinistra dalluscita della stazione, mettendoci alla ricerca di un alloggio. Dopo vari tentativi falliti, stanchi per il notevole peso dei bagagli, ed in preda allo sconforto, decidiamo che mi sarei mosso da solo, mentre mia moglie mi avrebbe aspettato seduta su un marciapiede, custodendo i bagagli. Provo dappertutto, dagli hotel alle semplici cabanas sul mare, ma è tutto pieno. Italiani ovunque, turisti su turisti. Trovo solo due sistemazioni: un bungalow sul mare a 100 dollari americani per notte, ed una squallida capanna dal tetto in paglia, completamente isolata, il cui proprietario mi dice che, nel caso avessi accettato, avrei potuto tranquillamente prenderne possesso anche in sua assenza, pagandogli all’indomani la “modica” somma di circa cinquantamilalire. Mentre ormai sono le diciotto, sconfortato più che mai, raggiungo velocemente mia moglie e torniamo a testa bassa dal ragazzo della stazione degli autobus, il quale molto cortesemente, ci accompagna in questo hotel di sua conoscenza, che poi non è altro che una casa privata di una famiglia messicana, quella che qui semplicemente tutti chiamano “posada”. Paghiamo alla proprietaria l’equivalente in pesos di circa trentamilalire, per l’uso di due notti di una stanza ben pulita, con bagno privato e ventilatore a soffitto. Desterà curiosità il fatto che, mentre la moglie risulterà molto affabile ed attiva, in questi due giorni vedremo sempre il marito costantemente spiaccicato sul divano a guardare la televisione. Che sia una forma del tanto decantato “machismo” messicano? Una volta posati i bagagli, andiamo a passeggiare poco prima del tramonto sulla bianca spiaggia di Playa del Carmen, giungendo fino al villaggio turistico denominato “Shangri-La Caribe”, dove seduti in riva al mare, mangiamo un paio di arance portateci dietro da Cancun. La sera, passeggiando lungo la strada principale, abbiamo modo di constatare ancor più quanto il paese sia turistico e quanto massiccia sia la presenza, dei turisti dello “stivale”. Il luogo nel quale cercavamo la tranquillità, risulta ancor più affollato di alcune zone della stessa Cancun, così mentre cediamo alla prima nostalgia culinaria del nostro viaggio, sedendoci ad un ristorante che inneggia alla nostra italica cucina, capiamo entrambi di non sentir nostro questo posto e decidiamo di spostarci verso un’altra meta non programmata, un altro luogo da scoprire, nel nostro peregrinare attraverso lo stato dello Yucatan. La croccante focaccia bianca e le dolciastre linguine ai frutti di mare, di cui il piatto è letteralmente cosparso, ci riportano alla mente (come sempre facciamo dopo un periodo di assenza più o meno lungo dall’Italia), i nostri piatti favoriti, ed iniziamo così una sorta di masochista revival, che accresce drasticamente la nostra fame. A stomaco pieno, dopo aver pagato un conto veramente irrisorio per ciò che abbiamo consumato, sazi e soddisfatti anche per un piatto di pasta che in Italia non mangeremmo mai, effettuiamo una breve passeggiata, soffermando la nostra attenzione prevalentemente su qualche negozietto, dove finiamo inevitabilmente per comprare qualcosa. La notte non riusciremo praticamente a chiudere occhio, in quanto al caldo asfissiante, si aggiungeranno le grida di baldoria provenienti dai locali sulla strada, ed un paio di ubriachi che tenteranno di intrufolarsi nella nostra camera, probabilmente confondendola con la loro. Il mattino seguente di buon’ora, assonnati più che mai, attraversiamo la deserta strada principale del paese (desta impressione vederla così), recandoci dopo colazione alla stazione degli autobus, dove facciamo la conoscenza della coordinatrice delle attività turistiche, svolte da quei ragazzi messicani, del quale fa parte anche il giovane amico che ci ha trovato l’alloggio. Monica, questo è il suo nome, è un’italiana venuta qui in vacanza nel mese di Aprile, ed innamoratasi del posto a tal punto, che ha deciso di viverci aprendovi un’agenzia di viaggi. Ci racconta che gli affari non le vanno niente male e ci consiglia che se davvero non ci piace Playa del Carmen, potremmo recarci ad Akumal, distante una cinquantina di chilometri, dove tutto è più tranquillo. La incarichiamo di trovarci un alloggio per i successivi tre giorni, dopodiché una volta acquistati i biglietti, ci rechiamo in autobus, a Xaret. Questa specie di affollatissimo parco divertimenti, è decisamente bello, anche se forse il biglietto dingresso, ci sembra esageratamente caro. Allinterno, tra palme ed altre bellissime piante tropicali, troviamo dei bar, un ristorante, alcune zone adibite a picnic, altre adatte per lo snorkeling ed i bagni, dei resti di una chiesa coloniale e alcune piccole rovine maya, in quanto sembra che il posto fosse un importante centro cerimoniale, da dove i maya partissero per lisola di Cozumel. Cè anche unarea dove è possibile nuotare a pagamento assieme ai delfini, ma lattrazione per la quale siamo comunque venuti qui, è il fiume sotterraneo che sbuca da un cenote, nel quale ci tuffiamo appositamente muniti di un ridicolo giubbotto di salvataggio color lilla. Facciamo un mezzora di ottimo snorkeling, osservando alcune interessanti formazioni coralline e diverse specie di pesci tropicali. In serata prendiamo l’autobus per tornare alla nostra “posada” di Playa del Carmen, dove apprendiamo che Monica non ha ancora confermato la nostra prenotazione ad Akumal. Riceviamo rassicurazioni dall’italiana circa il successo dell’operazione, ma cominciamo un pò a dubitare delle sue capacità quando ci informa che avremmo avuto la certezza della conferma da parte dell’hotel, solo il giorno seguente. Solo la distanza (un’ora e trenta di autobus ed un chilometro a piedi dalla strada), ci impedisce di ringraziare la ragazza, e recarci ad Akumal senza prenotazione. Comunque Monica ci convince dicendoci che la tariffa che ci ha proposto, è una tariffa speciale che lei stessa ha pattuito con l’hotel, il quale applica ai viaggiatori che bussano alle sue porte, tariffe ben più gonfie, addirittura impossibili da sostenere per chi come noi ha ancora diversi giorni di viaggio da effettuare. La notte sembra un’ esatta replica della precedente, ed il mattino seguente di buon’ora, ci rechiamo alla stazione degli autobus in cerca di Monica, la quale ci annuncia che è tutto o.k. Dopo aver quindi preso i bagagli nella “posada”, ed aver salutato Monica e i ragazzi, prendiamo un affollato autobus diretto a Tulum, il quale percorre la prima mezz’ora con il sottoscritto in piedi, cioè fino a quando quasi tutti i passeggeri, scendono al parco divertimenti della laguna di Xaret. Siamo gli unici a scendere ad Akumal e stiamo quasi per dimenticarci la videocamera nel portapacchi dell’autobus. Il chilometro percorso a piedi sull’asfalto infuocato, dalla statale 307 al nostro hotel situato direttamente sul mare, mi sembrerà un’eternità, ed il peso della valigia, addirittura insostenibile. All’improvviso, un cartello indica che siamo giunti ad Akumal, ed una volta superati un piccolo alimentari e una lavanderia, ci troviamo già nella casetta adibita a reception del complesso denominato Akumal Hotel & Villas Maya. Pago all’impiegato dell’hotel solo la prima notte, in quanto se il posto non risulterà di nostro gradimento, saremmo pronti a lasciarlo il mattino seguente, per una nuova meta, come ormai siamo abituati a fare. Il nostro bungalow, immerso completamente nel verde, è molto spazioso e dispone tra l’altro, oltre che dell’aria condizionata, anche di un salottino completo di divano e tavolo con sedie. Una volta posati i bagagli, ripetiamo la solita scena di tutti i nostri viaggi, correndo verso il mare, un mare ancora una volta pronto a stupirci. Il Caribe, per effetto della barriera corallina distante appena un trentina di metri, è di una calma tale che appare ai nostri occhi increduli come una sorta di lago dalla forma di mezzaluna. La sorpresa poi più piacevole, deriva dal fatto che una volta seduti nell’acqua cristallina ad un paio di metri dalla riva, veniamo avvicinati da un paio di pescioni colorati, incuranti di noi e delle nostre grida di stupore. In un attimo capiamo che siamo giunti in un luogo fuori dal comune, la cui natura incontaminata, appare appena sfiorata dai pochi turisti per lo più statunitensi. In realtà, scopriremo poco dopo che poche centinaia di metri dal nostro complesso, c’è un enorme villaggio “tutto compreso” dei Viaggi del Ventaglio, con clientela esclusivamente italiana. Comunque ciò non prevarica lo splendido isolamento di cui ancora gode questa eccezionale località, in quanto per fortuna, gli abitanti all inclusive di questi tipi di villaggi, sono di solito abbastanza restii nel superare i confini del loro turistico mondo dorato. Trascorriamo tre giorni favolosi ad Akumal, un luogo fatto apposta per oziare sotto una palma, dove l’unico inconveniente è rappresentato dalla fame, poiché ci sono solo un paio di ristoranti che propongono una cucina di pessima qualità. La prima volta che decidiamo di indossare maschera e pinne, allontanandoci qualche decina di metri dalla riva, restiamo stupefatti dallo scenario che offrono i fondali di Akumal, la sua barriera corallina, la svariata fauna marina. Sarà in questi giorni il nostro passatempo preferito. Trascorreremo ore ed ore facendo snorkeling nelle tranquille acque turchesi del Mar dei Caraibi, finchè una mattina spinti dalla voglia di andare più in profondità, prenoteremo un’immersione nel diving appartenente al complesso alberghiero. Dopo una lunga contrattazione sul prezzo dell’immersione (il portafogli inizia a segnare rosso), ci allontaniamo dalla bianca riva cosparsa di palme intorno alle undici del mattino, in compagnia di altre tre persone e della giovane istruttrice americana che ci è stata assegnata. Dopo i soliti preliminari, nei quali la ragazza nel suo yankee ci spiega il da farsi, ci immergiamo a venti metri di profondità indossando unicamente una canottiera. Dopo una trentina di minuti, ed una bellissima visuale della sabbia di Akumal, la ragazza ci dà il segnale di risalita, spiegandoci poi in superficie che la corrente ci ha spinto in una direzione a lei sconosciuta, priva di interessi subacquei. Abbiamo così guadagnato la ripetizione dell’ immersione nel pomeriggio, ovviamente gratis. Il tempo quindi di mangiare uno yogurt, ed eccoci di nuovo intorno alle 13,30 ad assemblare l’ara. Questa volta il nostro istruttore è un giovane messicano dall’ingannevole aspetto, ma dalla grande professionalità, che dimostra sin dalla prime battute. Controlla l’assemblaggio dei nostri gruppi personalmente uno ad uno, ed anche in acqua riuscirà a diffondere nella comitiva una certa sicurezza. I trenta minuti dello spettacolo al quale assistiamo nei fondali di Akumal, equivalgono all’essenza stessa della subacquea, un’immersione che da sola vale il costo di un viaggio. Il ragazzo ci porta tra l’altro in una serie di grotte sottomarine, dove in alcune punti occorre passare solo con la forza delle braccia, al fine di non smuovere la sabbia pinneggiando. Così passiamo attraverso vari stretti cunicoli, accerchiati da pesci multicolori di varie dimensioni, fino a quando il nostro istruttore facendoci segno di rimanere immobili, non batte il proprio pugnale sulla bombola, provocando un suono metallico che, come per magia, fa uscire da una grotta svariate splendide tartarughe che si dileguano planando nel blu. Uno spettacolo impareggiabile! Mentre ci avviciniamo alla riva, un’atmosfera di grande allegria si è impossessata della barca, una specie di fratellanza che ci unisce con queste persone di varie nazionalità, con queste persone che possiedono una propria storia, una propria vita, una propria fede politica e religiosa, con queste persone che una volta messo piede a terra, probabilmente non rivedremo mai più, ma con le quali abbiamo condiviso un’esperienza indimenticabile, quale un’immersione subacquea nel mare fatato di Akumal. Passiamo il nostro terzo pomeriggio ad Akumal, seduti sotto la nostra palmetta personale e mentre stiamo riposando, veniamo avvicinati da un venditore di oggetti in argento. Cerca di accaparrarsi la nostra simpatia parlandoci della sua famiglia e sfodera bei sorrisi mostrandoci orgoglioso i propri denti doro, che qui sembrano proprio andare di moda. Gli diciamo che siamo entusiasti di Akumal, ma parlando ci racconta delle possibilità di alloggiare lontano da tutto a sud delle rovine di Tulum, incuriosendoci non poco. Ci segna un indirizzo di un suo amico su un foglio di carta. Mentre il sole sta adagiandosi lentamente nelle tranquille acque caraibiche, vediamo la barca uscita in mattinata per la pesca d’altura far rientro con due enormi barracuda e nonostante abbiamo già deciso di lasciare il posto, veniamo assaliti da una grande malinconia, perché in qualche modo in questi tre giorni ci siamo innamorati di Akumal. Il 25 Agosto di buon mattino, siamo già sulla stradale 307 in attesa di un autobus per Tulum, con il peso non irrilevante del nostro bagaglio, che è andato aumentando di giorno in giorno nel corso del nostro viaggio nello Yucatan. Saliamo sul primo autobus, scendendo a Tulum Pueblo sotto un sole cocente. Ci facciamo indicare dove si trovano le cabanas di Don Armando, lindirizzo segnatoci dal venditore ambulante, che raggiungiamo dopo un quarto dora di cammino su una strada sterrata. Si tratta di un complesso di piccoli bungalow, localmente chiamati cabanas, situato su una spiaggia bianchissima su cui riflette un mare dai colori accecanti. Poiché è praticamente al gran completo, ci viene assegnata una cabana fatiscente che non dispone di bagno e letti, ma unicamente di semplici amache, al prezzo di circa quindicimilalire a notte. Ormai però ci siamo e prendiamo possesso di questa specie di baracca nella quale lasciamo frettolosamente i nostri bagagli, per raggiungere le adiacenti rovine di Tulum. Queste rovine, non hanno niente a che vedere in quanto a grandiosità, con quelle di Uxmal e Chichen Itza, ma hanno l’originalità di trovarsi praticamente di fronte al Mar dei Caraibi, che qui assume delle tonalità altamente spettacolari. In un’ora circa, visitiamo i punti principali di quello che si presume sia stato un avamposto Maya, una specie di fortino adibito a difesa dei territori, fra cui spicca El Castillo, così chiamato dalla solita fantasia spagnola. Questa costruzione a picco sul mare, assieme alla Piramide di Kukulkan di Chichen Itza, rappresenta sicuramente limmagine più propagandata dello Yucatan, la tipica cartolina da spedire agli amici invidiosi. Quando il sole dei tropici sta ormai sfiancandoci, decidiamo che è giunta l’ora di tuffarci in questo mare da sogno. Tulum è uno di quei posti che mette d’accordo tutti, sia quelli che prediligono una vacanza culturale, sia gli amanti della tintarella e del mare, che qui è di una bellezza unica. Tulum, ovvero due realtà al prezzo di una. Quale prezzo? Ovviamente quello del biglietto di ingresso alle rovine. Trascorriamo tutto il giorno sulla spiaggetta sottostante le rovine, con lo sguardo perso a metà sui riflessi azzurro-verdi dell’acqua marina, ed a metà sulle sovrastanti ed imponenti rovine, appartenute nientemeno che ai misteriosi Maya. Questi sono quei momenti nella vita nei quali un uomo dimentica il proprio passato, la propria condizione, i propri affetti, sono quei momenti in cui ci sembra sempre di esser vissuti qui, quei momenti nei quali ci dimentichiamo di avere una casa, in cui si assapora il sottile piacere del girovago, ovvero colui che ogni giorno scopre un posto nuovo, colui che è libero nello spirito. Rientriamo poco prima del tramonto alle cabanas di Don Armando, dove ci attende una bella doccia con acqua fredda e dove prendiamo possesso di un paio di candele, poiché qui non cè elettricità e noi non abbiamo una torcia. La sera a cena facciamo conoscenza di Bryan e Cindy, due americani sulla cinquantina di Chicago. Sono molto cordiali e simpatici e ci raccontano un po del loro viaggio e della passione che li accomuna per la subacquea. Lei, che fa di cognome Giannino, è di origine pugliese e parla un discreto italiano, che ci aiuterà meglio a capire il marito quando parlerà nel suo veloce americano. Bryan è un omone alto quasi due metri, dai biondi capelli raccolti in unenorme treccia. Ha una risata fragorosa e sprizza energia da tutti i pori. Dispongono di una macchina presa a noleggio allaeroporto di Cancun e ci invitano ad andare con loro il giorno seguente per una visita alla riserva di Sian Kaan. Con qualche birra di troppo ci corichiamo nella nostra cabana, dietro la cui porta chiusa alla meglio, abbiamo adagiato il nostro borsone. Passeremo una notte insonne, tra afa insopportabile, la scomodità delle amache alle quali non siamo abituati e le zanzare che non ci daranno tregua per un istante. Allindomani partiamo con i due americani imboccando la strada chiamata Boca Paila Road, dapprima asfaltata per un breve tratto iniziale, e poi sconnessa e piena di buche, fino a giungere nellomonimo paese, che superiamo per giungere a El Rancho Retiro, una splendida spiaggia disabitata cosparsa letteralmente da palme. Sembra un sogno, tanto che umoristicamente ci diamo qualche pizzicotto per svegliarci. Siamo praticamente in piena riserva Sian Kaan, una zona protetta, di circa 528 mila ettari. I nostri amici yankee avevano previsto tutto e troviamo ad attenderci una piccola barca che ci conduce a fare un giro nelle grande laguna dalle basse acque posta alle spalle della spiaggia, chiamata Chunyaxche. Tra zanzare fameliche, che sembrano completamente indifferenti alle numerose spruzzate di autan a cui ci siamo sottoposti, e qualche altro sconosciuto insetto che sibila minaccioso sulle nostre teste, riusciamo a vedere numerosi fenicotteri e altri uccelli abbastanza inconsueti ai nostri occhi. Ci viene spiegato che la riserva annovera in totale qualcosa come trecento specie diverse di uccelli, oltre ad altri animali rari come gli alligatori, che a quanto ci dicono, abitano anche la laguna dove ci troviamo, ma degli stessi non vediamo nessuna traccia. Il nostro giro continua in mare, attraverso la visita non facile di alcune grotte, nella cui limpida acqua sottostante ci tuffiamo per un bagno rigeneratore fra pesci colorati ed aragoste, che però per legge non si possono prendere. Il ragazzo che conduce la barchetta illumina con una potente torcia le pareti rocciose, sulle quali notiamo distintamente delle incisioni che ci dice risalire nientemeno che ai Maya. Mi rifiuto di crederci forse offendendolo, fino a quando Bryan, sulla via del ritorno non mi mostrerà un suo libro che parla delle stesse. Facciamo una tirata fino a Tulum Pueblo, dove gli americani fanno rifornimento di benzina che mi offro di pagare, considerata la cortesia che ci hanno fatto. Bryan dapprima non voleva, ma poi dopo le nostre insistenze accetta, a patto che allindomani li seguiamo. Ci comunica che lasceranno le cabanas di Don Armando, per spingersi ancora a sud, praticamente ai confini con il Belize, in un piccolo complesso turistico nel quale sono già stati, situato nella penisola di Xcalak, della quale abbiamo sentito un gran bene dagli istruttori del diving di Akumal. Faremo delle immersioni fantastiche ci dicono. Il solo pensiero ci stuzzica terribilmente, ma non rientra nei nostri programmi, in quanto vorremmo trascorrere i giorni rimanenti sullisola di Cozumel e poi nonostante siano così gentili, sappiamo ben poco dei due. La sera dopo aver mangiato uno squisito huachinango a la veracruzana (una specie di spigola cotta in una salsa piccante comprendente pomodori e cipolle), ci sediamo comodamente davanti a qualche bicchierino di tequila. Bryan e Cindy insistono. Vedrete, non ve ne pentirete ci dicono, e così in preda alleuforia alcolica, tra un brindisi e laltro, forse imprudentemente accettiamo. Dopo unennesima notte insonne, il 27 di Agosto eccoci di nuovo in macchina sulla statale 307 assieme ai due americani. Costeggiamo nuovamente la riserva Sian Kaan spingendoci verso linterno, sulla strada che improvvisamente diventa piuttosto spoglia e sui cui lati notiamo decine di piccoli allevamenti. Dopo aver superato la cittadina di Felipe Carrillo Puerto, continuiamo la nostra marcia fino alla località di Limones, poco dopo della quale imbocchiamo una strada in direzione del mare. Lungo il percorso attraversiamo varie paludi e notiamo nuovamente molte varietà di uccelli, fino a quando il paesaggio inizia a cambiare di nuovo, segno che stiamo per raggiungere il mare. Giunti nella località di Majahual, voltiamo a destra in ununica strada non asfaltata che costeggia uno spettacolare Mar dei Carabi. Candide spiagge solitarie, file interminabili di palme da cocco, barchette di pescatori, miriadi di uccelli in volo. Questo è il paesaggio a cui assistiamo percorrendo in solitudine circa sessanta chilometri su questa strada. Abbiamo da poco superato mezzogiorno, quando nella località di Xcalak, raggiungiamo il Costa de Cocos Resort, un piacevole complesso turistico costituito da comodi bungalow costruiti su una spiaggia da cartolina. I nostri due amici hanno riservato il loro bungalow e purtroppo per noi, sembrano esserci delle serie difficoltà in quanto è tutto pieno. Malediciamo la nostra imprudenza e siamo soggetti alle decisioni di una coppia messicana, che avrebbe dovuto liberare lunico bungalow disponibile a mezzogiorno, e della quale non cè traccia nelle vicinanze. Dipende tutto da loro. Ci sediamo sconsolati e stanchi ad attenderli sorseggiando lennesimo margarita, mentre rientrano i sub dalle immersioni mattutine e chiediamo loro cosa hanno visto. Aumenta il nostro desiderio di fermarci in questo posto fatato, anche perché non credo che muoverci da Xcalac sia poi così facile, non disponendo di un nostro mezzo di trasporto. Dopo una mezzora di nervosa attesa arrivano i due giovani messicani pieni di pacchetti, scusandosi con il personale del minuscolo resort, al quale comunicano per nostra fortuna che lasceranno il bungalow. Anche stavolta è fatta e in questo viaggio la sorte sembra decisamente dalla nostra parte. Siamo euforici e presi da una strana sensazione di scoprire tutto ciò che è inaspettato, non preventivato, casuale. Di colpo ritroviamo le energie. Non perdiamo tempo e dopo aver sistemato i bagagli nel bungalow che paghiamo circa quaranta dollari americani per notte, armati di pinne, maschere e boccagli, partiamo con i due dinamici americani per un giro in barca. In poco tempo raggiungiamo delle bellissime formazioni coralline ricche di fauna marina, dove trascorreremo in pratica lintero pomeriggio. La sera ceniamo assieme a Bryan e Cindy nei pochi tavoli del Costa de Cocos, assaggiando una sublime sopa de lima, cioè un brodo di tacchino nel quale galleggiano piccoli pezzi di carne e tortillas e nel quale è stata aggiunta una sostanziosa spremuta di limetta, a cui facciamo seguire delle freschissime aragoste. Un posto davvero speciale questa Xcalak, oserei dire quasi romantico. Confesso che poche volte mi sono sentito così entusiasta, soprattutto per il fatto che non pensavamo affatto di giungere fin qui e che la nostra inseparabile Lonely Planet non menziona affatto il posto. Questa è la località dove si potrebbero veramente far perdere le proprie tracce. Siamo fuori dal mondo, in un luogo dimenticato, con un giungla incredibile così vicina a noi, la quale chissà cosa nasconde, in fondo . siamo nella terra dei maya. Ma ci troviamo anche a pochissima distanza dal Belize (Ambergris Caye è quasi attaccata alla penisola di Xcalak), ed in preda ad una strana sensazione, inizio a fantasticare. Così chiedo al personale del piccolo resort se esistono delle possibilità di andarci via mare, e qualcuno mi dice che qualche pescatore locale potrebbe condurci su qualche cayos disabitato al largo, ma non sulle isole principali. Bryan afferma che il periodo è estremamente difficile, in quanto ci sono da anni dei disaccordi tra gli stati riguardo i confini e potremmo incorrere in qualche serio guaio. Sembra addirittura che periodicamente, negli anni passati, ci siano state delle scaramucce tra gli stati del Belize ed il Guatemala, che ne rivendicava addirittura lannessione. Una vera e propria guerra tra poveri. Bryan e Cindy si fermeranno a Xcalac lintera settimana, lultima del loro viaggio, ma con la gentilezza che lo contraddistingue, Bryan si dice disposto ad accompagnarci fino a Chetumal, qualora intendessimo recarci in Belize e mi presta la sua guida per leggere qualcosa di interessante sul paese. Trascorrerò qualche ora leggendo prima di addormentarmi. Il giorno seguente di buon mattino ci imbarchiamo tutti e quattro su El Gavilan, limbarcazione del diving center. La nostra destinazione è il Banco Chinchorro, situato circa 30 chilometri al largo, che raggiungiamo in poco più di unora. Il Banco Chinchorro è un grandioso ed esteso complesso corallino situato in prossimità della penisola di Xcalac. Ancorata la barca, ci tuffiamo in acqua, dalla quale traspaiono chiaramente bellissime formazioni di corallo nero e dalla quale spunta la prua di un relitto. Sgonfiamo il gav e scendiamo lentamente in queste acque dalla visibilità notevole. Veniamo accolti da ingenti branchi di enormi pesci angelo i quali formano una specie di barriera che perforiamo pinneggiando a circa dieci metri di profondità. Listruttore ci conduce tra una serie di articolate foreste di coralli, una sorta di fragilissimo labirinto creato dalla natura, fino a quando scende ancora di livello, penetrando di fatto nel relitto. Lo seguiamo abbastanza intimoriti, ma prendiamo fiducia anche vedendo Bryan, il quale dimostra una certa dimestichezza. Allinterno di questo barcone troviamo dei veri e propri branchi di enormi e impressionanti cernie che, con molta probabilità, hanno fatto del relitto la loro casa. Facciamo un giretto allinterno dello spoglio relitto praticamente irriconoscibile seguendo listruttore, per poi uscire dalla parte opposta a circa ventitre metri di profondità, dove veniamo gelati dalla spaventosa visione di alcuni enormi barracuda. Dopo circa quaranta minuti risaliamo in superficie ancora una volta in preda allentusiasmo. Sulla barca ci guardiamo soddisfatti, mentre il cielo si sta annuvolando. Nel viaggio di ritorno e per tutto il pomeriggio, prendiamo la prima consistente pioggia del nostro viaggio e questo è di cattivo auspicio, in quanto siamo praticamente attaccati al Belize, spesso devastato dagli uragani in questo periodo. Continuo a leggere avidamente la guida di Bryan nel pomeriggio piovoso, mentre la sabbia perde il suo color borotalco, ed i granchi giocano a nascondino. Così scopro che il BELIZE (ex Honduras britannico) del quale sapevo poco e niente, è indipendente dallInghilterra solo dal 1981, che il paese annovera una ventina di zone protette che si estendono su circa 500.000 ettari, che circa la metà di questo territorio non più grande di una nostra regione, è occupato dalla foresta tropicale dove vivono allo stato brado moltissimi animali come giaguari, ocelot, tapiri, alligatori, che ci sono diverse piste sparse sul paese sulle quali pare atterrino i velivoli dei narcotrafficanti colombiani, che hanno qui le loro basi di smistamento verso gli Stati Uniti. Mia moglie, che fino a quel momento non si era espressa sullargomento, si avvicina fugando ogni mia perplessità: mi piacerebbe andare sui cayes del Belize mi dice. Il giorno 29 Agosto poco dopo il sorgere del sole siamo già in macchina assieme allinossidabile Bryan. Abbiamo salutato ieri sera la dolce Cindy, che stamane si sarebbe reimbarcata per una nuova immersione. La strada sterrata percorsa due giorni prima è notevolmente mutata, a causa del diluvio che è venuto giù nella giornata di ieri, e anche stamattina il cielo è molto coperto. Troviamo molti punti allagati, ed impieghiamo diverso tempo prima di arrivare alla statale 307, che imbocchiamo in direzione di Chetumal, dove arriviamo poco dopo le dieci. Bryan ci conduce allaffollata stazione degli autobus, nella quale entra assieme a noi, accompagnandoci ad acquistare i biglietti. Siamo fortunati, tra poco più di mezzora parte uno dei tanti autobus espressi che giornalmente collegano Chetumal a Belize City, e troviamo posto. Salutiamo con un grosso abbraccio ed un groppo in gola lamericano, il quale ci regala con un sorriso la sua guida e si allontana con la sua bionda coda, dileguandosi tra la colorata folla. Lasciare le persone con le quali hai legato, e che presumibilmente non rivedrai mai più, rappresenta forse lunico aspetto negativo in un viaggio. Bryan, che granduomo! Lo ricorderò per sempre. Troppo spesso si parla a sproposito dei viaggiatori statunitensi, riferendosi agli stessi unicamente come turisti in cerca di mille comodità e divertimenti. Bryan e la sua compagna sono viaggiatori veri, gente preparata che si adatta a tutto, e che frequenta da anni questi posti quasi sconosciuti in Italia. Imbarchiamo il bagaglio e saliamo sullautobus della compagnia Venus. Sono ormai quattordici giorni che ci troviamo nello Yucatan, e sono molti gli autobus che abbiamo preso, ma dai finestrini notiamo come la gente che affolla questa stazione, sia diversa da quella alla quale siamo ormai abituati. Ci sono molte persone di colore, probabilmente per lo più beliziani, molti meticci, diversi turisti occidentali con gli zaini in spalla, tantissimi Maya. Ancora stento a crederci, stiamo per recarci in Belize, ma chi ci pensava minimamente alla vigilia del nostro viaggio. I miei pensieri vengono interrotti qualche decina di minuti dopo la partenza dellautobus, quando dobbiamo sbrigare le formalità doganali, dove il nostro bagaglio viene esaminato con scrupolo, e ci viene chiesto dai funzionari beliziani, di mostrare loro il biglietto aereo che dimostri la nostra futura uscita dal paese. Lautobus ferma ancora alla stazione di Corozal, dove salgono altri passeggeri, dopodiché ci addormentiamo e ci risvegliamo dopo circa tre ore a Belize City. Ancora una stazione degli autobus, ancora il ritiro dei bagagli sempre più pesanti, ancora confusione, urla, forti odori, asfissiante caldo umido. Saliamo al volo su uno sgangherato taxi, il cui conducente di colore parla un inglese cantilenato, e ci facciamo condurre allimbarcadero delle lance dirette ai cayes, mentre il sole è tornato a splendere. Attraversiamo parte della città piuttosto squallida, nella quale notiamo indiscutibili segni di sottosviluppo. Bryan ci consigliò di evitare di trascorrervi la notte, poiché a suo dire a Belize City gira brutta gente e circola molta droga, forse troppa. Ci raccontò che alcuni suoi amici di Chicago erano stati rapinati con le armi, minacciati, picchiati. Durante il nostro tragitto notiamo molte casette in legno, poco più che baracche colorate, ed alcune fogne a cielo aperto. Superiamo lHaulover Creek, ed arriviamo al terminal delle lance in North Front Street, dove paghiamo lautista e veniamo subito circondati da alcune persone dallaspetto poco rassicurante desiderose di farci vedere le loro imbarcazioni. Forse saranno le parole di Bryan, ma confesso che un po mintimorisco, soprattutto perché vedo mia moglie visibilmente scossa e ci sediamo qualche minuto vicino ladiacente museo marino, tenendo i nostri bagagli ben stretti. Poco distante, notiamo due giganteschi neri che ci girano intorno da quando siamo arrivati sniffare qualcosa, dopodiché uno dei due si avvicina lentamente e mi tira violentemente su per un braccio. Mia moglie urla, ma lui impreca che non ci sono problemi, che vuole solo farmi vedere la sua barca, la migliore del Belize, la più sicura. Lo seguiamo intimiditi con il peso dei nostri bagagli fino ad una specie di rottame sgangherato, una sorta di relitto ambulante, e lo ringraziamo con deciso no, sorbendoci una serie di incomprensibili insulti, mentre si avvicina un simpatico ragazzo sulla quindicina che ci indica in lontananza la sua barca. Parte tra dieci minuti con destinazione finale Caye Caulker ci dice, costa dieci dollari americani a persona, e con voi due saremmo al completo. Ed allora salpiamo velocemente superando lo Swing Bridge, il ponte di ferro costruito a Liverpool nel 1923, che si apre per consentire lingresso alle barche dallalto albero, ed usciamo in mare aperto, lasciandoci alle spalle le limacciose e maleodoranti acque del torrente Haulover. Col trascorrere dei minuti le acque sotto la nostra lancia cambiano rapidamente colore, e dal giallo dellHaulover Creek diventano progressivamente blu, azzurro intenso, verde smeraldo. In breve tempo superiamo St. Georges Caye, uno splendido isolotto cosparso di palme e giungiamo in prossimità del reef, che avvistiamo facilmente con la sua lunga scia bianca prodotta dallinfrangersi delle onde. Tuttintorno è un susseguirsi di isolotti (cayes) più o meno grandi, alcuni pieni di vegetazione, altri praticamente aridi. Limbarcazione ferma a Caye Chapel, bellissimo isolotto costituito da una esile striscia di sabbia bianchissima contornata da una fila interminabile di palme, dove scendono alcuni passeggeri canadesi e dove purtroppo perdiamo moltissimo tempo fermi per un imprecisato motivo. Impieghiamo quindi più del previsto per arrivare a Caulker, che intorno alle sei del pomeriggio ci appare con la sua linea sconfinata di palme da cocco e mangrovie. Approdiamo su uno dei tanti pontili di legno nel mezzo del piccolo villaggio, dove troviamo un cartello con una scritta colorata Welcome to Caye Caulker, e come letto sulla guida regalataci da Bryan, ci dirigiamo direttamente a sinistra, sulla strada principale che costeggia il mare, in direzione del Tropical Paradise Hotel, dove posiamo i bagagli in un piccolo, colorato e spoglio bungalow di legno, che paghiamo lesagerata cifra di trentacinque dollari americani per notte. Proviamo a contrattare, ma ci rispondono picche e siccome siamo quasi esausti, accettiamo, seppur a malincuore. E ancora giorno e ne approfittiamo per passeggiare nel minuscolo villaggio, dove si respira subito unatmosfera molto informale e simile a quei raduni hippies che abbiamo spesso visto nei films anni settanta. Musica a tutto volume e parecchia gente dalla lunghe capigliature che circola a torso nudo. Veniamo immediatamente avvicinati da alcuni ragazzi con le capigliature da rasta, che ci offrono con insistenza della marijuana e che liquidiamo con dei secchi no thanks. Continuiamo a passeggiare tra le casette di legno colorate, tra la cordialità della gente che ci saluta ripetutamente, tra i sorrisi dei bambini, e tra le improvvisate bottegucce di souvenirs che sorgono ai margini delle due stradine principali chiamate con discutibile fantasia Front Street (di fronte al mare) e Back Street (la parallela situata dietro la Front Street), con il sottofondo della musica rap e reggae, ma inizia a piovere e poi siamo veramente stanchi, così poco prima del tramonto torniamo indietro, e terminiamo la nostra stressante giornata al bar dellalbergo davanti ad un ghiacciato cuba libre, ed ad un cielo che lentamente si sta colorando di viola. La mattina seguente, equipaggiati a dovere, siamo intorno alle dieci su uno dei moli principali dellisola. Fortunatamente splende il sole, nonostante abbia piovuto praticamente tutta la notte, e così ci sentiamo particolarmente ispirati nel contrattare con i numerosi barcaioli che offrono dei giri sulla barriera corallina facilmente visibile al largo. Venti dollari a testa per effettuare qualche ora di snorkeling ci sembrano decisamente tanti, ma la barriera corallina del Belize con i suoi 290 chilometri è la seconda del mondo per estensione dopo quella australiana, e nel prezzo è compreso il pranzo, quindi accettiamo, anche se ormai abbiamo da tempo decisamente sforato il nostro budget. Saliamo su una barca a vela in compagnia di due tedeschi e del simpatico marinaio di colore con la capigliatura da rasta, che qui sembra proprio di gran moda. Mentre ci allontaniamo in direzione del reef, notiamo su indicazione del marinaio il canale che separa in due Caye Caulker, causato a quanto sembra addirittura dalla furia delluragano Hattie nel 1975, e che viene chiamato localmente The Cut, il taglio. Lacqua ha una notevole trasparenza, e quando ci fermiamo in prossimità del reef, possiamo osservare facilmente la numerosa fauna marina che nuota indisturbata sotto la nostra barca. Il tempo di infilarci la maschera e ci tuffiamo in questo mare color smeraldo. I nostri soldi sono ben ripagati dallo spettacolo a cui assistiamo. Ci siamo immersi veramente in un acquario e trascorriamo qualche ora tra discese in apnea e faticose risalite in superficie, letteralmente circondati dal libro del mare, tanto che verrebbe voglia di fare lappello perché attorno a noi vediamo sguazzare pesci pagliaccio, pappagallo, angelo, murene, razze, barracuda, piccoli squaletti, tartarughe, cernie e tanti altri a noi poco conosciuti. Nel primo pomeriggio ci dirigiamo dallaltra parte del taglio, nella parte deserta dellisola, dove una volta scesi a terra, il nostro amico marinaio allestisce un barbecue sul quale cuoce delle succulente aragoste, che ci serve accompagnandole con del riso. Sediamo allombra di una delle tante palme, con lo sguardo rivolto verso il mare smeraldino ed il cielo azzurrissimo, nettamente separati allorizzonte dalla lunga e rumorosa striscia bianca delle onde che impattano il reef. Purtroppo un piccolo lato negativo in questo contesto fiabesco esiste, poiché la nostra macchina fotografica ha smesso inspiegabilmente di funzionare, ed è un peccato, ma forse pretendere troppo da questo viaggio, in cui tutto è filato liscio ci sembra esagerato, e accettiamo il fatto, seppur a malincuore. Sulla via del ritorno ci facciamo lasciare dal simpatico rasta proprio sulla spiaggetta situata dallaltra parte del cut, nella zona popolata di Caulker, dove in un ambiente da ultima beat generation, nel quale spira impietosa la brezza dolciastra della marijuana, trascorriamo un paio dore più o meno in tranquillità, prima di tornare a piedi in paese passeggiando scalzi sulla Front Street, dalla quale ammiriamo linterminabile fila di palme e le numerose mangrovie che a tratti nascondono il verde intenso delle acque caraibiche. Ci fermiamo quindi in un piccolo bar a sorseggiare una Tequila Sunrise al ritmo sincopato del reggae, e raggiungiamo il nostro alberghetto, dove ci facciamo prenotare un volo per lindomani per Ambergris Caye, lisola più grande degli oltre 200 cayes beliziani. Il 31 Agosto alle 11,30 decolliamo con un piccolo bimotore della compagnia Maya Island Air da Caye Caulker che, nonostante misuri circa sette chilometri di lunghezza, dallalto ci appare decisamente piccola, e non regge minimamente il confronto con Ambergris Caye, lunga una quarantina di chilometri, sulla quale atterriamo dopo appena dieci minuti di volo. Poiché come ho già scritto, ormai abbiamo abbondantemente sforato il nostro budget, decidiamo di concederci un lusso (come si dice fatto trenta ), e così una volta ritirati i bagagli, ci dirigiamo a piedi direttamente verso lalbergo consigliatoci da Bryan, il Sun Breeze Beach Hotel, poco distante dalla pista datterraggio, che ci accoglie con un simpatico cartello sul quale è scritto No shoes, no shirt, no problem. Alla reception spuntiamo un prezzo formidabile (70 dollari americani) per una camera vista mare, dotata di gradevoli comfort ai quali non eravamo più abituati, come aria condizionata e televisore. Posiamo i nostri bagagli e ci rechiamo sulla antistante spiaggia, passando nel complesso che si rivela più bello di quanto immaginassimo. Ci sono molte palme (ma forse è ormai inutile sottolinearlo), una bella piscina con una particolare forma, diverse verande sul mare, un gradevole portico dove troviamo alcuni americani intenti a sorseggiare dei coloratissimi cocktails. Ci sediamo quindi a mangiare qualcosa, con lincomparabile vista azzurro-verde del Mar dei Carabi, dopodiché ci sediamo comodamente in prossimità della spiaggia, dove udiamo chiaramente il fragore delle onde che sinfrangono sulla barriera, distante meno di un chilometro. Nel tardo pomeriggio con due biciclette imbocchiamo la strada principale chiamata Barrier Reef Drive, tramite la quale entriamo nel centro del paesino di San Pedro, costituito da graziose casette colorate per la maggior parte di azzurro e rosa. Anche qui molta musica reggae, che evidentemente ha ben attecchito tra i numerosi abitanti di colore di queste isole, e molti, forse troppi negozi. A differenza di Caye Caulker, dove si avvertiva la piacevole sensazione di trovarsi veramente isolati dal mondo, qui notiamo uno sviluppo inaspettato. A San Pedro circolano abbastanza turisti, prevalentemente statunitensi, e si trova praticamente di tutto, tantè che ne approfittiamo subito, in quanto entriamo in unagenzia di viaggi al fine di trovare la soluzione che ci consenta di raggiungere il più comodamente Cancun tra due giorni, quando alle 18 partirà il nostro volo per lHavana. Ed i simpatici ragazzi della Ambergris Tour, la soluzione la trovano davvero, anche se non economica. Ci prenotano un volo alle sette del mattino per Corozal con la piccola compagnia con la quale abbiamo volato stamattina, ed uno alle 9,50 da Chetumal per Cancun con lAerocaribe. Prendendo un taxi a Corozal, ci assicurano che al massimo in quaranta minuti raggiungiamo laeroporto di Chetumal, formalità doganali comprese. Accettiamo e prenotiamo anche unescursione per il giorno seguente, dopodiché ci immergiamo nella scanzonata vita di San Pedro, pedalando lentamente nelle sue stradine su cui circolano molte golf cart, e nelle quali ci si sente subito a proprio agio. Gironzoliamo un poco nei negozietti di Ambergris Street e Bucaneer Street, compriamo delle simpatiche e colorate t-shirts, e poi ce ne andiamo in prossimità del mare ad osservare la gioia di alcuni bambini che, tra urla e risa, sguazzano felicemente nelle chiare e calme acque caraibiche. Ovunque si respira unatmosfera di serenità, di quiete, il tempo sembra scorrere veramente tranquillo per gli abitanti di San Pedro, e stranamente non veniamo abbordati da nessuno in quanto turisti. Dopo cena terminiamo questa estenuante giornata davanti allennesimo Cuba libre (che si beve più in Belize che nella stessa Cuba) in un bar pieno zeppo di americani, dove la musica reggae rende allegra e trasgressiva la sera, e dove osservando il cielo, questi appare più che mai stellato. Il giorno seguente di buon mattino siamo già sul potente fuoribordo a due motori che penetra velocemente nel taglio della barriera adiacente Ambergris Caye, per giungere poco più di tre ore dopo nel Lighthouse Reef, il più esterno degli anelli corallini del Belize. Al centro della turchese laguna dalle basse acque troviamo il Blue Hole, il mitico buco blu di circa 300 metri di diametro esplorato nientemeno che da Jacques Cousteau. Il Blue Hole è una delle mete più ambite dai subacquei mondiali per le sue grotte dove è possibile ammirare decine di stalattiti, ma le immersioni vengono effettuate ad alte profondità e non ci sentiamo ancora sufficientemente preparati, per cui ci immergiamo in questo immenso anello di corallo profondo 125 metri, solamente per un po di snorkeling in compagnia di branchi di enormi carangidi e di qualche minaccioso barracuda. Dal Blue Hole, ci spostiamo velocemente sullHalf Moon Caye, vicina isoletta a forma di mezzaluna di soli diciotto ettari, dichiarata parco nazionale dal 1982. La particolarità di questisola consiste nellesistenza di due diversi ecosistemi, in quanto la parte ovest che costeggiamo, ricchissima di vegetazione, è dedicata alla protezione di oltre cento specie di uccelli, fra cui le rarissime sule dalla zampe color rosso che qui chiamano affettuosamente Booby, mentre la parte est nella quale attracchiamo, possiede una vegetazione più scarsa, caratterizzata però da file interminabili di palme da cocco. E anche qui, in unarea appositamente delimitata, su una striscia di candida sabbia in pieno caribe, urlando la nostra gioia al vento, ripetiamo il rito del barbecue, delle aragoste, del riso. Poi, fra centinaia di pellicani e gabbiani in volo in un cielo che più azzurro è davvero difficile immaginare, passeggiamo tutti alla ricerca delle tartarughe, che a quanto sembra vengono periodicamente sullisola a deporre le proprie uova, ma sfortunatamente non ne avvistiamo nemmeno una, e lo skipper ci comunica che è già ora di ripartire. Costeggiamo quindi le Turneffe Islands, una serie di straordinari isolotti corallini racchiusi attorno ad unincantevole laguna color smeraldo che intravediamo facilmente, e ripartiamo alla volta di Ambergris Caye, per la nostra ultima notte in Belize. La sera scivola malinconicamente a un tavolo sotto lo stellato cielo beliziano, come del resto è scivolato troppo velocemente il nostro breve, seppur intenso soggiorno su questi cayes, e domani ripartiremo con la convinzione che questo splendido paese meriti una visita più approfondita. Dopo cena sorseggiamo il nostro ultimo ghiacciato Cuba Libre, e rivediamo i nostri amici Bryan e Cindy, distanti qualche decina di chilometri da noi, ma vicini per sempre nei nostri cuori, e ripensiamo a questo mare fatato, a questa gente dei cayes così apparentemente spensierata, così socievole ed amichevole, a questa terra così facile da amare a prima vista, il cui slogan del nostro hotel sembra particolarmente indicato per descriverne latmosfera che vi si respira: No shoes, no shirt, no problem.
16 Agosto 1995: “EL MUNDO MAYA“Tutto secondo copione. I ragazzi dellagenzia di San Pedro avevano perfettamente ragione. Il primo Settembre alle 8,40 siamo già allinterno dellaeroporto di Chetumal, in attesa che alle 9,50 decolli il nostro volo per Cancun. LAerocaribe è puntuale, e alle undici circa atterriamo all’aeroporto della turistica città messicana dove lasciamo i bagagli al deposito, per trascorrere il primo pomeriggio al fresco dellaria condizionata di qualche centro commerciale, del quale ci eravamo dimenticati letteralmente lesistenza. Alle 18 in punto l’aereo della Mexicana lascia la città caraibica, mentre noi lasciamo in questa parte di mondo un frammento del nostro cuore. Nelle due ore di volo verso l’Havana, brinderemo in preda all’euforia con un whisky, ad un nostro possibile futuro ritorno in queste straordinarie terre. Per effetto del fuso orario, sono le ventidue quando l’aereo atterra all’aeroporto Josè Martì, e questa volta forse per l’ora tarda, le formalità doganali risultano più agevoli della volta precedente, tanto che in una decina di minuti, siamo già fuori a contrattare una corsa in taxi per l’ormai familiare Hotel Plaza. Il mattino seguente sveglia alle cinque, in quanto abbiamo l’aereo alle sette per Santiago de Cuba, città situata nella parte opposta dell’isola. All’aeroporto però l’amara sorpresa. Causa problemi tecnici, il volo è stato spostato alle tredici, il che per noi equivale a mezza giornata persa. Altro taxi, ed altri quindici dollari per giungere all’agenzia Havana Tour, dove chiediamo il rimborso del volo, ma ci rispondono che proprio non possono, ed allora decidiamo di cambiare programma, anche perché capiamo che siamo forse un pò stanchi, e prenotiamo tramite la stessa agenzia gli ultimi quattro giorni del nostro movimentato viaggio nella località turistica cubana per antonomasia: Varadero. Mai e poi mai avremmo pensato di arrivare sin qui, in questa spiaggia lunga circa venti chilometri da sempre consacrata al turismo di massa, e regno incontrastato (dalla fine degli anni venti fino al trionfo della rivoluzione) del miliardario americano Du Pont de Nemours, il quale astutamente comprò ettari di terreno per pochi soldi, per poi rivenderli ricavandone tantissimo. Ma Varadero però ci sorprende. Quello che per molti rappresenta il bordello di Cuba, per noi significa solo acqua cristallina, unimmensa e candida spiaggia bordata di palme, salsa, allegria e relax allo stato puro. L’hotel Sol Palmeras, nel quale alloggiamo, si dimostra di standard internazionale, ed i quindici dollari del suo ricco buffet serale sono strameritati. In una giornata riusciremo a trascorrere addirittura sette ore di seguito in acqua, poiché anche qui, come in tutti i posti che abbiamo toccato in questo viaggio, il mare è a dir poco eccezionale, e nel tratto sottostante il piccolo promontorio adiacente l’hotel Melia Varadero, si presta alle macchine fotografiche quasi invitandole a scattare una cartolina. Noi non vedremo la Varadero notturna tanto cara ai turisti europei, se non in occasione di uno spettacolo di cabaret presso l’hotel International, ma Varadero, è giusto precisarlo, non rende minimamente l’idea di ciò che è Cuba attualmente, perché qui tutto è velato dietro il luccichio turistico. Una cosa è certa, chi cerca compagnia, qui sicuramente la troverà. Questo è il caso per esempio di due nostri connazionali sulla cinquantina, che conosciamo durante una massacrante gita di un giorno alla cittadina coloniale di Trinidad. I due modenesi, regolarmente sposati, appartengono a quelle coppie che amano partire per le vacanze separatamente dai rispettivi coniugi. Così, giunti turisticamente nella tanto rinomata Varadero nel mese di Febbraio, ci sono ritornati ad Agosto, ovviamente sempre in solitudine, per ritrovare le loro conquiste cubane, delle quali decantano a non finire le doti. La cittadina coloniale di Trinidad, distante da Varedero circa quattro ore di macchina, è splendidamente conservata, in quanto per la sua scomoda posizione, rimase nel nostro secolo isolata dal paese, mantenendo in questo modo pressoché inalterata la sua struttura originale. Una volta giunti sul posto, iniziamo la nostra visita dalla splendida Piazza Mayor, vero fulcro del paese, contornata da palme reali, inferriate, giardini, e splendidi edifici. E bello passeggiare tra le stradine ciottolate di Trinidad, dove le case color pastello presentano splendide finestre in ferro battuto, dove passano ancora i calessi trainati dai cavalli che nitrendo sfiorano i lampioni in ghisa, ma può essere un pò sconvolgere dal lato umano, con le decine e decine di bambini di colore a piedi nudi, che inseguono per le tortuose stradine il benestante turista, al fine di farsi regalare qualcosa. Qui forse si vede la vera anima dell’attuale Cuba, una nazione orgogliosa, ma forse stanca della fame, una nazione che, soprattutto nei giovani i quali probabilmente si paragonano ai loro coetanei turisti, manifesta apertamente il proprio malcontento, il proprio disagio, la propria rabbia, una nazione che attualmente sta facendo i salti mortali. Qui i bisognosi bambini di pochi anni, vedono nel turista una fonte di sopravvivenza, come ad esempio un bimbo piccolissimo che da dietro le grate del ristorante nel quale pranziamo ci chiede un succo di frutta. Sappiamo quanto sia sbagliato, ma stiamo consumando un pranzo turistico che decisamente non ci piace, e non possiamo esimerci dal porgerglielo, osservando con il cuore in mano come lo ingurgiti con inaudita voracità, così vediamo seguirci ad ogni angolo del paese quattro bambini che, appena arrivati in paese, ci hanno dato il loro indirizzo per spedirgli qualcosa dall’Italia. Colpisce Trinidad, probabilmente più di quanto colpisca alla testa la squisita “Canchanchera”, tipica bevanda del paese a base di estratto di canna non distillato, succo di limone e miele. Dopo aver visitato una fabbrica di sigari, nel primo pomeriggio lasciamo la città coloniale, dichiarata dall’unesco patrimonio culturale dell’umanità, per dirigerci alla volta di Cienfuegos, anonima città dal passato illustre, abitata un tempo prevalentemente da ricchi proprietari terrieri, come testimoniano i bellissimi e caratteristici palazzi che la circondano. Raggiungiamo in serata Varadero, con il peso di otto ore di minivan e le immagini nella testa di chi, al di fuori di questo fittizio mondo dorato, combatte quotidianamente contro la fame. E’ il caso della nostra guida, che ci ha raccontato a pranzo di come sia costretta per pochi soldi a sopportare suo malgrado, stupide ed infantili battute sul degrado dell’isola da parte dei molti turisti che quotidianamente accompagna, i quali con ogni probabilità, non hanno mai avuto nella propria vita problemi economici. Il giorno seguente alle tredici, dopo aver sorseggiato per l’ultima volta il “Sol Palmeras”, l’eccellente e colorato cocktail dell’hotel, lasciamo Varadero ed il suo splendido mare per dirigerci all’aeroporto dell’Havana, dove il nostro aereo è già pronto per decollare verso l’Italia. Il nostro viaggio è finito, si ritorna al grigio benessere della nostra vita quotidiana fatta di lavoro, di stress, di malcontenti, di ipocrisie, lontani dallincanto dei siti Maya dello Yucatan, dai cayes corallini del Belize, dal fascino decadente di Cuba e della sua straordinaria gente, ormai racchiusi per sempre nei nostri ricordi e nei nostri cuori .
Ed è ancora CUBABenedetto Antonucci
Ndr: le foto di questo viaggio si trovano su: http://www.bnx.it