IO E CABO VERDE  di CARLO ROMANO ( [email protected] )

giochi tra le onde...

Mai una volta che certe decisioni vengano prese in una situazione normale. Sempre durante orge  gastronomico/culinarie e così tra un Prosecco e un Pinot, una tavola attrezzata a piadine e amatriciana,  venne fuori l’idea di Cabo Verde. Veramente si doveva andare in Yemen, ma visto che le acque da quelle  parti erano piuttosto agitate e inoltre eravamo un po’ tutti in leggera crisi economica causa altre spese fatte,  il Neni, sempre lui, se ne venne fuori col fatto che si poteva andare a Cabo Verde con poco. Ottimo! Se c’è da  spendere poco, tutti d’accordo. E con quello che mediamente si spende per 15 giorni a Rimini riuscimmo a
fare tre settimane in quel posto lontano. Intanto c’è da dire che il vero nome è: Isole di Cabo Verde.
Un’arcipelago di 9 isole davanti, si fa per dire, al Senegal da dove dista circa un migliaio di km. Ed eccoci in  viaggio, partiti una domenica di ottobre con pioggia, da Orio al Serio alle 19, atterriamo a Sal intorno alle due  e mezzo ora locale. Con due ore indietro rispetto a noi, sono state circa cinque ore e mezza su un aereo  della loro compgnia di bandiera la Tacv. Un Airbus ben tenuto, pulito, con delle hostess molto carine e  disponibili. All’uscita dall’aereo, il solito vento caldo tipo fon asciugacapelli e sabbia che ci ha riempito gli occhi. Se il buongiorno si vede dal mattino!!!! L’aereoporto, moderno e pulitissimo non ha nulla da invidiare a
Linate. Solo naturalmente più piccolo. Al posto di controllo il primo problema, se cos’ si può chiamarlo. In Italia, ci dissero che se volevamo il visto alla partenza, costava intorno alle 50.000 mentre sul luogo si spendeva molto meno. Spiegato il perchè della mancanza del “timbro” ci ritirano i passaporti dicendo che ce li faranno avere in albergo. Fuori ci aspetta un pulmino Toyota quasi nuovo. Dopo un tragitto di una ventina di minuti scarsi, attraverso una pianura desertica e buia, ma mica tanto, eccoci arrivare al Belo Horizonte, dove alla reception ci accolgono con simpatia. Uomo di colore in blazer, camicia e cravatta che ci assegna due “bungalows” e ci fa accompagnare da uno “sherpa” con i bagagli, che poveraccio lui, ha dovuto misurarsi con i soliti borsoni carichi di attrezzature sub e fotografiche.
Arriviamo ai bungalows che proprio tali non erano, in quanto si trattava di una specie di mini casa in legno.
Veranda con portico, ingresso, camera con due letti, zona per deposito bagagli e bagno. In più un grosso ventilatore su una mensola, un frigorifero e un tv. Ragazzi, che meraviglia! Veramente da favola. Tutto in legno rossiccio e costruito sulla sabbia. Sentiamo un rombo o un forte borbottio in distanza e decidiamo di andare a vedere. E’ lui, il Signor Oceano! Le costruzioni erano sulla spiaggia a una quarantina di metri dall’acqua. Entusiasti corriamo verso il bagnasciuga tra un vento tiepido che soffia da terra e una brezza fresca che arriva dal mare. Riecco la crisi! Ho voglia di ululare e alla luna questa volta. Una luna così e un
cielo così lo vedi solo in Africa. Ancora una volta dico che se c’è un medico, gradirei delle spiegazioni.
Chissà perchè anche quando ero in Sudan avevo voglia di ululare. Anche qui la stessa cosa! E sarebbe poi accaduto di nuovo più avanti nel tempo quando siamo stati in Micronesia. Mi trattengo a stento per non dare l’impressione ai miei amici di essere pazzo. Diciamo che ho ululato a lungo, col pensiero! Era appunto dai tempi del Sudan che non provavo sensazioni così forti. Il cielo nerissimo, le stelle luminosissime, una luna  che illumina tutto, il vento, la brezza, una spiaggia sterminata, il mare, i bungalows sulla sabbia e cosa  volete di più? Avrei voluto condividere queste fortissime sensazioni con tutte le persone che conosco, per  poterle comparare e capire se sono io che mi lascio prendere da queste cose o se è normale. Gli altri tre,  Pini, Neni e Walter, non aprono bocca e quando la aprono è per dire che pensavano fosse bello, ma non  così. Però siamo di notte e chissà come sarà di giorno? Presto detto, dato che abbiamo dormito  pochissimo. Di giorno forse ancora più bello. Chiaramente da una parte c’è la magia della notte africana, e  dall’altra il fatto di potersi guardare intorno. Gironzoliamo per questa specie di villaggio. In tutto una trentina  di queste “capanne” una piscina con intorno delle palme da cocco e un porticato adibito a bar ristorante.
Il trattamento è eccellente. Il personale gentile e cortese. La colazione è a buffet e c’è tutto il ben di Dio  immaginabile. Uova strapazzate, formaggi, marmellate, le solite cose insomma, ma c’è anche tanta di  quella frutta da sembrare un mercato. Mango, papaye, meloni, ananas, banane, angurie e tanta di quella  roba da farsi saltare fuori gli occhi. Ci serviamo e io mi esibisco nel mio miglior repertorio, stile morto di  fame, e in un batter d’occhio svuoto tre piatti di frutta assortita. Il sole è già alto e picchia duro. Fa un caldo boia, mitigato solo dalla brezza marina. Poco distante da noi notiamo un’area coperta e attrezzata dove si  mangia di sera e ci sono anche le cosiddette animazioni, che scopriremo più avanti che non sono quello  che ci si può aspettare in un villaggio turistico. Di sera c’era un’orchestra che suonava un po di tutto, ma  principalmente alcune melodie locali. Niente coinvolgimenti stupidi tipo “adesso tutti insieme facciamo così!”
Usciamo dal  centro e notiamo che a parte questo, a breve distanza non esiste altro. La spiaggia è immensa e praticamente deserta. Il mare è calmo, ma ci sono onde altissime a riva. Ci incamminiamo  lungo la strada e dopo nemmeno un km, arriviamo in centro paese. Case, e  molte di queste non anno il  tetto. E per tetto un cielo di stelle. Tanto li non piove da una cinquantina di anni, ci dicono. Gente in giro poca.
 Fa troppo caldo. Qualche bambino che ci guarda incuriosito. Uno di questi mi fa cenni strani indicando la  mia Nikon e mettendosi in posa. Capisco che vuole che gli scatto una foto. Detto fatto e lui se ne va  contento. Andiamo a spasso per la “main street” fatta di cubetti di pietra nera. Sabbia ovunque. Andiamo in  banca a cambiare e ci danno un escudo caboverdiano per ogni 20 lire. Troviamo un bar con veranda e ci sediamo ordinando birre.
Arrivano in un attimo e sono locali e sono pure buone e aggiungo che costano intorno ai 30 escudos, cioè circa seicento lire. Iniziamo bene. Ci giriamo tutto il paese per scoprire che assomiglia a un qualsiasi  paesetto del sud d’Italia. Un po più degradato, ma nell’insieme abbastanza pulito. Code di gente con vari  recipienti alle stazioni dove si distribuisce acqua. Qui l’acqua la ricavano con i dissalatori ed è preziosa. Non  esistono le condutture, ma solo dei silos dove viene immagazzinata.
L’impressione generale è ottima. meglio di così non potevamo capitare. Il trattamento prevede mezza  pensione, però possiamo ogni giorno scegliere se mangiare a mezzogiorno o di sera. Ci sono alcuni  negozietti con articoli locali, ma visto che la fame e il caldo si fanno sentire, decidiamo di ritornare in albergo  per mangiare e riposare un pò.
Il pranzo è stato ECCEZZIONALE VERAMENTE! Pesce in quantità industriale. E cucinato ottimamente.
Griglia di tonno e altra roba. C’è pure del polipo. In aggiunta verdure di vario tipo, poi per finire di nuovo tanta  di quella frutta da far spavento. Non mi faccio pregare e mi esibisco nel secondo tempo del film I Miserabili,  nel senso che come loro ero affamato e senza pudore credo di aver ingurgitato 5/6 mango, non ricordo  quante papaye e quante fette di un melone bianchissimo e gustosissimo. Dopo di che, pieni come otri,  decidiamo di imitare i serpenti che per digerire in pace, si cercano un angolino tranquillo e riposano. Noi abbiamo le nostre “case” e così, ventilatore acceso al minimo, rumore dell’oceano sul fondo, ventre gonfio come una gestante al sesto mese, ci si addormenta. Se esite il Paradiso, vorrei fosse così.
Il resto venne al risveglio.
Il tardo pomeriggio ci accoglie con il fuoco del tramonto sul mare. Decidiamo visto che abbiamo ancora il  mangiare nel gozzo, di camminare e dissetarci. Ritorniamo a spasso per il “paese” e facciamo sosta per la birretta pomeridiana in un altro bar. Ci sono un po’ di mosche, ma al nostro ingresso, la ragazza del bar impugna un robusto bombolone di insetticida e fa strage mentre il nebulizzato casca nei bicchieri sullo scaffale che vengono presi così come sono e riempiti di birra. Buona la birra all’insetticida! Speriamo che almeno disinfetti. Per non fare lo schizzinoso nei confronti degli altri bevo anch’io. Poi ci rimettiamo in cammino, In quattro in fila indiana tipo Banda Bassotti. decidiamo di prendere contatti con qualcuno che ci porti a vedere come sono i fondali. Troviamo un Diving. Tetescko ti Cermania che più tetesco no zi può! Per l’equivalente di 50 marchi, il giorno dopo ci porta fuori. La serata trascorre mangiucchiando, si fa per dire, in un posto dove a parte i tavoli e le sedie non c’è altro. Ma la cucina era ottima. Di nuovo tonno e polipi e, miracolo, vino bianco portoghese. Una sola bottiglia, dato che era l’unica in dotazione del luogo.
Integriamo con l’onnipresente birra locale che trovo ottima. Poi la sera ci vede tutti e quattro in cammino  sulla spiaggia, sotto le stelle e la luna leggermente velata. Di nuovo la voglia di ululare, ma soprassediamo!  L’atmosfera è magica veramente. Se vi può interessare, facendo un balzo avanti di una settimana, dico che  le magie vissute qui, sono nulla al confronto della seconda isola. Ritorniamo a casa e mentre gli altri  cominciano a stappare le immancabili bottiglie che avevamo al seguito, io per curiosità accendo il tv. Cosa ti  vedo? Incredibile! Il TG RAI1 della notte! Cambio subito e passo alla Cnn, poi a TF1 e ad altri canali. Dopo
tre minuti e 34 secondi decido di lasciar perdere e faccio compagnia agli altri tre. Pensate che in ogni  viaggio che facciamo, la media dei beveraggi che ognuno di noi si porta appresso, è di circa 3 litri a testa, e si tratta sempre delle stesse cose. Champagne, wishky, grappa, vodka e Pernod. Eravamo riusciti a portarli anche in Sudan! Naturalmente non si può solo bere ed ecco che spunta fuori l’immancabile Parmigiano Reggiano e le scatolette con le olive. La serata finisce tra lazzi, scherzi e amenità varie.
Il giorno dopo, la colazione è il solito pranzo di nozze a base di tutto quanto disponibile, fino a quando un pik up Toyota, ci viene a prendere e dopo aver caricato noi e le nostre attrezzature, con 2 caboverdiani accompagnatori, ci dirigiamo verso il deserto. La traversata è allucinante. Noi seduti nel cassone sulle panchine, col sole che ti martella come un maglio. Intorno un deserto lunare. Terra rossiccia e in lontananza un paesaggio da Valle della morte. Però il fascino è immenso. Dopo un’oretta tra sballottamenti e litri di sudore, arriviamo dove la terra finisce, e una delle guide, che parla francese, ci dice che siamo arrivati e che possiamo iniziare la vestizione. Ma arrivati dove che non c’è nulla! Lo dicevo io che c’era la fregatura! Altro che nulla. Lui mi accompagna fino al bordo dove la terra finisce e c’è il vuoto. Sotto di noi l’oceano.
Immaginate una piattaforma di tuffo a una decina mi metri nel vuoto con sotto l’oceano! Ci spiega che l’immersione la si fa da qui. Basta saltare! Ma è pazzo? penso io! Muta da 6 millimetri e mezzo, 8 kili di pesi, due erogatori, venti kili di bombola sulla schiena e dovrei saltare nel vuoto? Ma neanche al corso addestramento in Marina mi hanno fatto fare questo! Giusto, nemmeno li, ma ora siamo qui ed il discorso è diverso. Ci spiega che c’è una bellissima grotta sotto di noi. Io, ammesso che salto, chiedo poi per risalire, cosa facciamo? Ci vengono a prendere con l’elicottero? Niente paura. Ecco la soluzione. Due grosse corde con un grosso nodo ogni 50 centimetri et voilà. Per i non esperti dico che i nodi servono per migliorare la presa delle mani sulla corda. Quella coi nodi per risalire e quella senza nodi per legarci le attrezzature che la seconda guida tirerà su. Voi cosa avreste fatto? O stare li sotto l’incudine del sole a disidratarsi o saltare.
Segno della croce, pater ave e gloria  dopo un volo di una decina di metri e oltre, con gli occhi chiusi e le braccia ben strette al corpo e le mani sulla maschera e sul culo della bombola, eccoci a contatto con l’acqua. Una botta della mad… pardon si insomma quella cosa li, e giù per non so quanti metri. Sul genere tuffatori di Acapulco! A parte il colpo di cannone causato dall’entrata in acqua, ci ritroviamo poi tutti a una quindicina di mt. di profondità in un’acqua abbastanza fresca e molto chiara.
Aspettiamo la quida che vediamo entrare in acqua al contrario di un missile polaris e penetriamo in una cavità che è l’ingresso della grotta. Poi accese le lampade, vediamo l’interno mentre lo percorriamo. E’ una caverna immensa che scende dolcemente. Alle pareti incrostazioni varie e per il resto nulla di più. Avevo lasciato la Nikonos col flash in macchina. E bene ho fatto in quanto non credo avrebbe sopportato l’urto.
Dopo una mezzoretta di gironzolamento tra pesci vari riguadagnamo l’uscita e io non oso pensare alla risalita. Qual’è il Dio dei subacquei? Gesu’ aiutami tu. Questi sono più pazzi di me. Ora voglio vedere come facciamo. Come facciamo?  Ecco fatto. A galla sostenuti dal gav, poi ci si toglie bombola, pinne, pesi e tutto quanto si può, lo si lega a turno alla cima a penzoloni nel vuoto e il grosso negro che sta dieci piani più sopra tira su il tutto e poi ributta la cima per il secondo giro, nel frattempo il primo di noi si arrampica con la cima con i nodi e dopo una decina di minuti tra imprecazioni e accidenti vari, riguadagna il terrazzo dal quale
ci eravamo buttati. Quando tocca a me, non oso guardare in giù. Rimpiango di non avere un dresler, quell’aggeggio che uso in speleologia che permette di risalire in verticale lungo una corda.
Eccoci a bordo del pik up sudatissimi e stanchissimi. Non è stato uno scherzo. Ora però ci aspetta un “ristorante”. Dopo un’oretta di nuovo, approdiamo in un villaggio dove c’è un locale, due stanzoni e un po’ di tavoli e le onnipresenti mosche. Alla parete una lavagna con scritto quello che era disponibile. Pollo, tonno, polipo e aragosta. Optiamo per il pesce naturalmente. Il Neni da buon mercante arabo qual’è, riesce a scovare tre bottiglie di vino bianco e inizia un discorso tra lui in novarese e il proprietario del locale nella sua lingua. Alla fine la guida ci ha tradotto il tutto. Quelle tre bottiglie erano il patrimonio personale e a detta dell’oste, costavano troppo per poterle consumare, tanto che volle vedere i soldi prima. E il Neni tirò fuori il portafoglio e visti i quattrini, l’amico si decise. Era anche abbastanza fresco. Sentiamo il profumo della griglia che lavora e dopo ecco i piatti con quello che avevamo chiesto. Mezza aragosta, un polipo e una bistecca di tonno a testa. In più, qualche foglia di insalata che aveva visto tempi migliori e alla fine il conto.
900 escudos a cranio, tutto compreso.Pensate, intorno alle diciottomila lire e con il vino che era carissimo. Lasciamo anche una generosa mancia in modo che l’amico si ricordi di noi nel caso dovessimo ritornare. Rimontiamo sul cassone dell’auto e ritorniamo in albergo. Il pomeriggio è una replica di quello prima. La sera seduti in un bel bar con una specie di patio all’aperto a bere birra e mentre beviamo ascolto delle canzoni che arrivano dal bancone del bar. C’è n’è una che mi lascia incantato. Una melodia dolce, tenera e struggente. Di quelle che ti rapiscono. Da ex ingegnere del suono che sono, di certe cose me ne intendo e allora chiedo al ragazzo spiegazioni. Mi fa vedere la custodia di un cd e mi spiega in misto spagnolo e portoghese, che si tratta di Boy G. Mendes in coppia con Manu Lima. Due artisti locali molto famosi (da loro) Il pezzo che mi ha fatto sognare è Terra Cretcheu. Non che gli altri fossero da meno, ma quello è superbo.
Chiedo se è in vendita e dove. Lui mi indica il negozio di dischi poco distante, in mezzo ad altri negozietti di cianfrusaglie varie e io mi precipito. Entro e chiedo il disco e lui me lo da. Con 1200 escudos mi sono tolto la soddisfazione. Torno al bar dove gli altri erano già al secondo giro di birre e io attacco conversazioni musicali con l’indigeno che mi spiega che c’è anche Cesaria Evora. Cantante caboverdiana di colore dal peso di oltre un quintale ma con un voce che è un mix di quella che cantava il gospel nel film Blues Brothers.
Scusate ma non ricordo il nome. Aretha Franklin? Mi fa sentire alcuni pezzi e rimango ancora più incantato di prima. C’è una canzone che si intitola Partida, che è un canto nostalgico di una persona emigrata. Ritorno al negozio e compro tutto quello che ha della Evora. Tre dischi. Apro una parentesi. Avrei piacere di farvi ascoltare questi pezzi. Sono da sogno. Se a qualcuno interessa, posso metterli su cassetta e spedirli. Credetemi, se non vi fanno sognare, mi mangio la cassetta. Cesaria Evora è una cantante famosa. E’ di casa in tutto il mondo. L’ho trovata con concerti a Parigi, a Las Vegas e in tanti altri posti. Esiste anche un sito internet, www.lusafrica.com. fatevi un giro. Non vorrei essere frainteso. Non ci guadagno nulla, solo la soddisfazione di fare partecipi delle persone a delle cose fantastiche. La serata finisce al ristorante dell’albergo con un brodetto di aragosta da leccarsi le dita.  Poi altro pesce e naturalmente frutta tropicale.
La serata è uguale alla precedente. Noi siamo degli abitudinari. Poi con un whisky  in mano, l’oceano sul  fondo, la brezza tiepida e in lontananza una chitarra che suona cosa volete di più. Intanto decidiamo che il giorno dopo lo passiamo in giro per l’isola. E così fu. Eccoci il giorno dopo a spasso. Dietro consiglio del portiere, ci rechiamo a piedi sulla piazza dove stazionano diversi pulmini. Dai Toyota a un Fiat Daily. Stanno li e aspettano che la gente salga. Quando sono pieni, partono e fanno il giro dell’isola e se non basta ti portano dove vuoi. Costo 90 escudos (1800 lire) e per quella cifra ci portano insieme ad altre persone dall’altra parte dell’isola dove arriviamo una mezz’ora dopo.
Durante il tragitto, l’autista parla in italiano abbastanza comprensibile e mentre il paesaggio scorre, ci spiega alcune cose. La strada in ottime condizioni attraversa il deserto di sabbia, prima costeggiando il mare e poi addentrandosi nell’entroterra. Mentre lui spiega, noi captiamo un nome italiano. Dini! E si cari, proprio lui, anzi proprio lei. La moglie del nostro ministro Dini, si sta comprando tutto quello che può con l’intenzione di creare villaggi turistici. Ne hanno fatto uno che vediamo lungo la strada. Una distesa di casermette in cemento, con vegetazione che si capisce al volo che è stata messa li apposta. Allucinante! Però noto che
parte delle case sono parzialmente insabbiate e il motivo è che a Cabo Verde, il vento è una costante e se costruisci in un posto sbagliato, ti trovi sommerso dalla sabbia proveniente dal deserto. Evidentemente i progettisti di quel “villaggio” non avranno tenuto conto di ciò e ben gli sta. Siamo tutti contenti, anzi io vorrei che gli fosse impedito di costruire, trasformando un paradiso, pur con tutte le problematiche che ci sono, in qualcosa di simile alla costa romagnola o peggio ancora alle Canarie. Arriviamo in un villaggio.  Noto un’impressionante proliferazione di bar.

...uno dei tanti bar, a destra il nostro pik up

Bar per modo di dire. Immaginate uno stanzone con un tavolo, un  paio di tavolini sgangherati e qualche sedia. Un frigo e mensole dove c’è di tutto, dal Campari al Martini. C’è  pure una bottiglia di Strega e fa pure la sua figura un Amaro Cora! Da noi credo sia scomparso da secoli.
Optiamo per la solita birra. Costa anche meno. Intorno alle cinquecento lire. Ci chiedono se vogliamo mangiare, ma rifiutiamo. Non è ancora ora. La gente è di una squisitezza unica. Tutti vogliono parlare, sapere, stringerci la mano; sembriamo una delegazione di persone importanti. Sulla piazza di questo posto c’è un unico albero grandissimo che fa ombra e un sacco di gente forma dei capannelli dove si strilla e si discute animatamente. Ci avviciniamo e alla vista della mia Nikon, la gente si apre come per far passare Mosè nel mar Rosso. Ci fanno arrivare al cuore dei capannelli dove ognuno ci tira dove vorrebbe lui. Molti mi  fanno cenni di fotografare e io non mi faccio pregare. Poi noto che la gente in quel posto, gioca a carte o a un altro gioco, che ho già visto in altri posti del mondo, ma non ho mai capito. C’è una specie di piroga lunga 40 centimetri di legno con dei buchi come fossero scodelle. Poi ci sono dei sassolino rotondi e colorati come biglie che vengono usati come dadi e altri sassolini che vengono spostati da una scodella all’altra. Parlano portoghese e spagnolo. Uno in inglese, e allora chiedo spiegazioni sul gioco e lui mi sfavella il regolamento a 3600 parole al secondo che io naturalmente non  capisco, ma alla fine annuisco e lui mi fa cenno di
provare. Io ringrazio e lascio perdere. Altri giocano a carte a qualcosa che assomiglia alla nostra scala 40.
 Dopo un po’ ci congediamo e riprendiamo il nostro bighellonare ed entriamo in una botteguccia che vende souvenir. Compriamo lire, delle bellissime maschere ricavate dai gusci di noce di cocco. Veramente belle. Costo intorno alle 3000 lire l’una. Intanto cominciamo ad avere un languorino e guardandoci intorno vediamo una specie di mercato coperto dove cercano di venderci dei polli vivi. Compriamo invece frutta e ci troviamo un “bar” dove quando entriamo ai tavolini ci sono un po’ di persone sedute. l’oste (chiamiamolo così) vedendoci entrare ci chiede cosa vogliamo e noi a gesti facciamo capire che vorremmo sederci e prendere da bere e se non ci sono problemi, mangiare la nostra frutta. Detto fatto lui in modi abbastanza bruschi, caccia fuori tutti gli altri, e fa posto a noi! Ci siamo scompisciati dalle risate, quando lui ci ha fatto capire se eravamo contenti di ciò. Gli altri erano avventori che non consumavano nulla, mentre noi….. Così gli altri se ne sono andati a sedersi fuori su quello che avrebbe dovuto essere un marciapiedi e noi in un tavolo dove arrivano birre e patate fritte. L’oste si fa in quattro per servirci e coccolarci. Ci fa capire che se vogliamo qualcosa, ce la procura. Poi vede la mia Nikon e sparisce per ritornare dopo pochissimo con i suoi due figli per mano. Un bambino e una bambina intorno ai sei/sette anni e mi fa segno di fotografarli. Anche questa volta non mi faccio pregare e scatto a ripetizione. Lui un bel ragazzino, ma lei una bimba stupenda. Diciamo con un viso molto più bello della Naomi Campbell, ed era solo una bambina. Ha delle pose da modella nata. Gli occhi poi sono la fine del mondo. Non fraintendetemi, parlo solo dal punto di vista fotografico! Comunque ne sono venute fuori delle dia incredibili per le espressioni dei bimbi. Finita questa cosa, prendiamo un pik up che per circa 5000 a cranio ci porta in giro un po dappertutto. Facciamo ancora una sosta in un bar dove seduto sulla porta c’è un vecchietto con un cappello in testa stile Blues Brothers. Seduto immobile con le mani appoggiate su un bastone. Poteva essere la controfigura del vecchietto usato da Luciano De Crescenzo in una delle foto del suo libro La Napoli di Bellavista. Ci saluta in francese e io contracambio e inizia così un discorso sul più e meno. Ha una settantina di anni e parla perfettamente francese in quanto ha vissuto in Francia per molto tempo. Vuole sapere se la Francia è sempre la stessa e se le cose sono cambiate, e io gli dico che è sempre uguale e non c’è nulla di nuovo. Arriva così il pomeriggio tardo e andiamo a visitare le vecchie saline. Un’area con una immensa miniera a cielo aperto dove si estraeva il sale dal mare. E’ tutto abbandonato, ma conserva un molto fascino. Le baracche dei lavoratori, le barche, gli attrezzi, tutto in disuso e vecchio. Ci sono ancora montagne di sale che nessuno mai utilizzerà e il sole rosso del tramonto incendia di colori il bianco del sale.
Il vento ci riempie la pelle di salmastro e devo dire che provo un sottile piacere. La temperatura credo fosse intorno ai 28/30 gradi e salgo così sulla cima di una di queste montagnette, da dove si vede il mare e li vicino l’aeroporto. C’è un’unica pista e di fianco delle case. Un aereo della Varig (Brasiliano) è pronto al decollo e io me lo voglio godere. Ecco che prende velocità, si stacca dalla pista e punta verso il disco rosso del sole. Il motore della Nikon fa il suo dovere alla media di 4 scatti al secondo e questo mi consentirà poi di avere delle dia stupende. Il sale, l’aereo che punta in alto e il rosso del sole. Riguadagnamo l’automezzo che ci
porta in paese e per altre 5000 lire ci accompagnerebbe anche in albergo, ma optiamo per il ritorno col pulmino. Paghiamo e nel darmi il resto, mi appioppa una moneta da 100 escudos. La guardo e noto una faccia familiare. Ma è il Giovanni Paolo nazionale esclamo! Gli altri, nicchiano e mi dicono di non dire cazzate e io insisto ed ecco allora che il Neni, collezionista di monete, me la prende e guardandola bene, conferma.
E’ una moneta da 100 esc. coniata per la visita del Papa che era stato li due anni prima! Cavolo, anche questa volta ci ha preceduto. Scatta così la corsa all’accaparramento di queste monete. Le vogliamo per ricordo e io ne ho due, che ho incorniciato in un apposito quadretto. Fronte e retro col Giovanni Paolo Mondiale benedicente con una mano e con l’altro braccio disteso verso l’infinito. Com’è piccolo il mondo. In pulmino mi capita seduta di fianco una bella ragazza che immediatamente attacca discorso. Qualche parola di portoghese la conoscevo, ma ora sono in grado di sostenere una conversazione di qualche minuto,
aiutandomi con i gesti però. Lei ha 19 anni ed è veramente carina (a dir poco) e ci chiede se tutti e quattro vogliamo andare a visitare casa sua che sta in mezzo al deserto. Lei fa la maestra in un villaggio. Credo che non aspettasse altro che io la invitassi a fare qualcosa, ma visto che io nicchio, è lei che si fa avanti. mi dice che più tardi, in serata verso le 10 viene a Sal e se voglio, viene a prendermi al bungalow per portarmi a ballare da qualche parte con lei. Che dire, la carne è debole, la tentazione è forte, ma non so perchè, ringrazio e rifiuto e noto grossi segni di delusione da parte sua. Piiiiirlaaaaaaaa! (lo dico ora) Non ho una spiegazione a questo fatto, ma è andata così. Non ne ho nemmeno parlato con mia moglie di questo fatto.
Oggi però non so se rinuncerei. Intendiamoci bene, solo e nient’altro che amicizia passeggera, solo e nient’altro per curiosità di vedere qualcosa di più autentico e locale: Che ci crediate o no è così. Il giorno dopo andiamo a fare un’altra immersione. Ci portano con un gommone enorme dotato di motore da 200 hp a visitare un relitto. I relitti sono sempre ricchi di fascino e già ci freghiamo le mani, per poi prendere una grossa delusione. Il relitto, altro non è che una normale barca da pesca affondata sui 20 metri e giacente nella sabbia. La avranno messa quelli dell’ente provinciale del turismo? I fondali da quelle parti sono sabbiosi e c’è sempre molta corrente il che rende l’acqua con poca visibilità. Al ritorno, io decido da quel momento di rinunciare alle immersioni, per dedicarmi alla terraferma. Il giorno dopo camminando lungo la battigia dopo un paio di km arriviamo a un altro albergo. Orrore e schifezza! Avete presente le case a schiera? Ecco Una cosa simile. Una costruzione a due piani in cemento armato con tante stanzette tipo alveare. E la piscina, il giardino, il bar, lo spaccio. Facciamo un giro e rimango di stucco. C’è l’animazione Italiana. Un cretino di disk jokei sta pompando a tutto volume il Lorenzo nazionale. Jovanotti intendo e dopo di lui prosegue strillando dal microfono il programma della giornata. Alle 14 gara di boccette, alle 15 gara di scala 40, alle 16 aerobica, alle 17 per i bambini giochi vari, alle 18 giochi di società per gli adulti, alle 19 aperitivo in piscina alle 20 cena, alle 21 serata disco, alle 22 spero che il diavolo se lo porti via! La gente annuisce compiaciuta. Tutti sui lettini ultimo modello con occhiali da sole Sergio Tacchini e tre centimetri di crema solare sul corpo e, diavolo porco! copie del Corriere della sera e di Repubblica. Quasi tutti italiani e allora noi cominciamo a parlare tra noi in una lingua che non esiste, la inventiamo al momento. Un mix di arabo/cinese/taithiano/burundese. Io mi vergogno di essere italiano in queste circostanze.
Al negozio troviamo tutto il peggio della paccottiglia che si può trovare nei negozi al mare. Secchielli, palette, formine, sandali, creme abbronzanti ecc. E i giornali, che ci dicono, arrivano ogni due/tre giorni. Anche le riviste tipo Novella 2000/3000/4000, accidenti a loro, e quel disgraziato continua a urlare nell’impianto di amplificazione.
Decidiamo di abbandonare immediatamente il luogo per riportarci verso il deserto quando noto in lontanaza un muretto bianco che più bianco non si può. Ha un che di messicano. E’ un muro di cinta che circonda un cimitero che è identico in tutto e per tutto a un cimitero messicano. Muro di cinta bianchissimo, ingresso con un cancelletto in ferro, una sola croce sopra l’ingresso, e le tombe che non sono altro che tei tumuli di sabbia con una croce di legno con nome cognome e date di nascita e di morte. Anche qui, consumo una buona dose di scatti. Sicuramente sto meglio qui che non in quel “villaggio” di prima. Una cosa allucinante.
 Poi vengono a dire che a Cabo Verde si sono divertiti. Ma a fare cosa? Cosa hanno visto? Cosa hanno fatto?
 Animazioni e ballo liscio? Toto’ direbbe: “Ma mi faccia il piacere!!!!!”
 Il giorno dopo, altro pik up. Ormai si era sparsa la voce e ce ne erano sempre due o tre in attesa davanti all’ingresso dell’albergo. Ci porta a vedere un altro tipo di deserto. Di roccia vulcanica. Arranca come pochi in mezzo alla pietraia e noi sempre seduti fuori nel cassone, ormai più neri di un negro, pardon, uomo di colore! Ma di che colore? Nero!Allora è un negro! Scusate, non sono affatto razzista, ma odio gli eufemismi. Il tossicodipendente, il non vedente, l’audio leso, ecc, tutte parole per indorare una pillola che e sempre quella.
Ogni tanto quando abbiamo sete, l’autista cerca una palma, ci sale sopra e butta giù dei cocchi che apriamo e ci servono per bere e mangiare. Capitiamo in un paese davanti a una chiesa dove si celebra la Messa e alla fine di questa, la gente vestita a festa esce per la strada. Ci sono dei bambini bellissimi. In gruppo fanno a gara per farsi fotografare e io ci do dentro. I vestiti sono di un candore incredibile.
Il pomeriggio, decidiamo di andare a far spese. Ed eccoci  in quei negozietti a caccia di souvenir. Gli occhi mi cascano su una bellissima spada di fattura tipicamente artigianale. Lunga oltre un metro e venti, con un fodero di cuoio nero ricamato a mano e un laccio, sempre di pelle per la tracolla. E’ troppo bella per lasciarsela sfuggire e chiedo il prezzo.  Lui vuole circa 180.000 lire. Ha capito che mi interessa e siamo turisti. Inoltre è domenica e sa che c’è un aereo in partenza il giorno dopo e noi siamo li. Non ci vuole molto a capire che può chieder quel che vuole. La spada è bella, ma non mi va di spendere quella cifra. Allora faccio intervenire il Neni che come al solito, peggio (o meglio) di un mercante arabo, inizia la trattativa. Lui in novarese e il negro in portoghese. Alla fine Neni chiude a 100.000 e mi chiede se mi va bene. Io do un sonoro OKKKKEIIIIII e così 5000 escudos cambiano di mano e io mi metto la spada a tracolla. Stretta di mano e usciamo e il negro ci viene dietro strillando qualcosa ad alta voce. Ci giriamo e lui col braccio e il dito puntato verso Neni strilla fortissimo: TU MAFIOSO!!!!!!
A momenti ce la facciamo addosso dal ridere, e il negro saluta con un clamoroso CIAUUUUU!
Tra una birra e l’altra in attesa di far ritorno in albergo, divento la comica degli altri tre. Loro tranquilli a prendermi in giro per quella spada enorme che mi dicono vogliono vedere come farò a portarla via in aereo fino a casa mia. Ma questo fa parte del giorno dopo. Vi dico solo che me la sono semplicemente messa a tracolla.
In albergo non troviamo ancora i passaporti e domattina si parte e allora dopo varie pressioni e incazzature il portiere trova uno che si incarica di cercarli. Li trovano, ma non ce li possono dare in quanto nessuno ha ancora messi il visto e inoltre dobbiamo anche pagarlo. Abbastanza scocciati del fatto chiediamo quanto vogliono e ci dicono 200 escudos! 4000 lire a cranio e i passaporti saranno timbrati e ce li faranno trovare al chek in la mattina dopo. E così avvenne. Ma da domani si cambia isola. Boavista ci aspetta e a detta di molti, è la più bella. Eccoci all’aereoporto di Sal. Mi viene in mente quello che abbiamo fatto
qualche giorno prima e che ho tralasciato. Un pomeriggio, mentre eravamotutti e quattro in spiaggia, abbiamo visto delle onde altissime che sifrangevano sulla riva. Avete presente quelle che usano i surfisti? Ecco, molto simili e allora cosa ci è venuto in mente? Ma di giocare con queste onde e così, indossata maschera, boccaglio e sandali di plastica, nuotiamo verso il largo, a trenta/quaranta metri dalla riva e aspettiamo l’onda. Che roba!!!!! A volte riusciamo a cavalcarla facendoci trasportare sulla sua
cresta fino a farci scaraventare rotolando sulla riva e a volte ci tuffiamo sotto, facendoci prendere dai vortici che poi girandoci come fuscelli, ci sbatacchiano sulla riva per poi riportarci in fuori. E’ stato bellissimo. Ci siamo fatti tante di quelle risate che non avete idea e siamo anche riusciti a fotografarci a vicenda mentre l’onda ci travolge. Questo giochino, è durato parecchio. Ci ritroviamo sbattuti sulla sabbia, impanati fino ai capelli e poi via di nuovo in acqua. A un certo punto, tanta è stata la forza di un’onda che ha strappato la maschera, i sandali e il costume al Neni! I sandali non sono stati più trovati, ma la maschera e il costume si.
Mi viene in mente una notizia data da un telegiornale una decina di giorni fa che riguarda proprio un turista travolto e annegato da una di queste onde a Cabo Verde. Cavolo! Non immaginavo fosse così rischioso, ma lo rifarei.
Dopo un’ora in attesa all’aerostazione, ecco che un tipo ci viene incontro con i nostri passaporti in mano e ce li consegna vistati, però vuole 200 escudos l’uno. Paghiamo e andiamo al bar. Un caffè e un succo di frutta e poi l’annuncio del volo.
Un Atr 42 ci attende sulla pista e una ragazza con i gradi di comandante ci accoglie con un sorriso di benvenuto. E’ proprio lei la pilota e l’equipaggio è composto da altre due hostess. Io salgo a bordo con la spada a tracolla e una borsa in mano. Nessuno ci fa caso e una volta accomodati, noi e altre poche persone, l’aereo parte. Dopo una ventina di minuti atterra a Boavista. L’aereoporto è più un aereoclub. Una capanna con una bilancia e un tavolo. Tutto li. Fuori una Land Rover rossa con un bidone d’acqua dietro. Servizio antincendio! Dopo poco l’aereo riparte e ritiriamo i bagagli. Anzi ritirano i bagagli in quanto il mio non lo hanno scaricato e l’Atr 42 se lo riporta a Sal. Fuori ci aspetta un pulmino con la nostra guida italiana, di Padova, che ci carica tutti e dice di non preoccuparsi.
Faranno ritornare indietro l’aereo per riportarmi il mio borsone e così avviene, nel pomeriggio però. Mai vista una cosa simile. Servizio a domicilio! Dalla stazione aeroportuale, ci inoltriamo per una strada asfaltata che attraversa il deserto e passa in mezzo ad alcune oasi.
Meraviglia delle meraviglie. Sembra di essere in Marocco o giù di li. Il paesaggio è bellissimo. la sabbia è molto chiara e dopo una mezz’ora entriamo in paese. La prima cosa che ho visto alla periferia del paese, che guarda caso, si chiama Sal Rei, è una specie di bidonville tipo favelas brasiliane. Case costruite con scatoloni di cartoni e qualche lamiera a mo di tetto. Tanto anche qui sono 50 anni che non piove, quindi non c’è problema. Al massimo è il vento che può portarsi via qualche “casa”.
Arriviamo così all’hotel Dunas, in pieno “centro”. Avete mai visto la classica pensione a Rimini o Cattolica negli anni 50? Eccola li’ servita in fotocopia. A due piani, pulitissima, ordinatissima. Ci accolgono come dei marajà e l’autista ci porta i borsoni in camera. Due bmelle camere molto spaziose, con frigo e ventilatore. Il balcone si affaccia sul porticciolo e sotto di noi alcuni pescatori sono intenti a squartare quantità industriali di pesce che mettono a essiccare sopra il muretto che separa la strada
sterrata dall’oceano. Inutile dire che ci sono tonnellate di mosche sopra questo pesce e i profumi, non sono proprio simili a Paco Rabanne o Chanel n.5, però è interessante vedere decine di grosse murene e grandi capponi (scorfani) messi ad essiccare. Li abbiamo proprio sotto di noi e a queste operazioni, partecipano in molti, vecchi, bambini e gatti compresi. Il vento
per fortuna si porta via i “profumi”. Ci fanno vedere il salone da pranzo con quattro o cinque tavolini apparecchiati e ci spiegano che ci daranno da mangiare quello che vogliamo. Basta ordinare al mattino, e per la sera i nostri desideri saranno esauditi, aragoste comprese. Quindi non ci facciamo pregare e ordiniamo pesce alla griglia per la sera. Il cuoco ci dice che ha
ancora un paio di mezzi chili di spaghetti provenienti dall’Italia! Allora vada per lo spaghetto alle aragoste.
Il pomeriggio passa guardandoci intorno e prendendo contatto con la realtà locale che devo dire molto bella e caratteristica. Il paese lo giriamo in una ventina di minuti a passo di “passeggio” Le strade sono in parte in terra battuta e in parte asfaltate o in pietra. La gente ci osserva incuriosita e tutti ci fanno grandi cenni di saluto. Anche qui i bar abbondano e così ci tuffiamo nella solita birra Caboverdiana che troviamo sempre buona. Poi ci dicono di andare all’Espalanada 5 Julo. Traduco: piazza 5 luglio.
Al centro c’è un monumento con la data del 5 luglio 1975, giorno dell’indipendenza dal Portogallo. E sulla piazza c’è un ampio spazio con una “spianata” di cemento, ricoperto da un bel pergolato con vegetazione. Chi si ricorda queli locali all’aperto dove al centro una pista rotonda di cemento a intorno i tavolini? Uguale e il locale si chiama come la piazza.
Il proprietario è Giuliano, 65 anni, un toscanaccio di Grosseto che era proprietario della concessionaria Opel e che era in lista di attesa per non so quanti by pass cardiaci, se voleva vivere ancora qualche anno. Lui ha preferito curarsi in altro modo. Ha mollato la Opel, la moglie, i figli e tutto, e si è trasferito a Cabo Verde. I chirurghi lo stanno ancora aspettando sulla porta della sala operatoria con i by pass in mano! Vive con due donne, una di 24 anni (stupenda) e un’altra di qualche anno in più, che
non si fanno problemi se nel letto sono in tre. Basta avere delle lenzuola, un tavolo per mangiare e qualche vestito. Confesso di averci fatto un pensierino anch’io. All’Esplanada, si mangia, si beve, si balla. Ci sono degli avventori che passano la giornata bevendo grog, una bevanda terribile, fatta con vino, rum e altre cose che non vi dico. Da Giuliano veniamo informati su tutto ciò che accade sull’isola, sui suoi abitanti e sui suoi ritmi. Da lui possiamo trovare di tutto, basta chiedere. Andando a spasso
per la main street, notiamo anche qui i punti dove ci sono delle cisterne per l’acqua e la gente fa la coda con taniche e secchi.
Rientriamo per il pisolo pomeridiano e al tramonto con un’aria tiepido/fresco/calda usciamo di nuovo per andare a prenotarci la prima immersione del giorno dopo. Ci dicono che la barca ha un problema al motore e se vogliamo possiamo avere una barchetta in legno di un pescatore.
Accettiamo e andando avanti e indietro, capitiamo sulla fabbrica di tonno.
La serata passa tra una mega abbuffata di spaghetti all’aragosta per poi passare a delle enormi bistecche di tonno e per finire un dolce e la frutta. Il tutto con vino bianco. Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà senz’altro un’ottima settimana! La serata finisce con la solita passeggiata lungo la strada dove all’improvviso, da una casa si è spalancata una porta e qualcuno ha scaraventato fuori un secchio che poteva esere acqua sporca o ….. bhè diciamo qualcos’altro. A momenti investe in pieno il Neni e la cosa finisce tra grandi risate. Poi al ritorno, qualcuno spalanca una finestra e sputa, ma uno sputo di quelli da mezzo chilo. Scansiamo anche questo “pericolo” e anche qui grandi risate. Scusate, ma noi siamo fatti così. E chiaro che certe cose non fanno piacere, ma noi le accettiamo ugualmnete. Non per niente ci definiamo viaggiatori e non turisti. Se facciamo un certo tipo di
viaggio/vacanza, ne accettiamo tutte le caratteristiche, altrimenti andiamo a Ibiza e la sera in discoteca, ma non fa per noi.
Le solite chiacchiere sui due balconi quasi comunicanti e poi un bel sonno. La mattina ci trova a tavola per la colazione con tutto il ben di Dio immaginabile. Poi ci prepariamo e scendiamo al porticciolo con le attrezzature per caricarle sulla barca. Barca?????? Una barca in legno lunga circa tre metri con motore fuoribordo da 25 cavalli e due indigeni pescatori! sarà, ma prendere o lasciare e così guadagnamo il mare aperto e eano scità  ‘ nu poc’ngazzat! Anzi, scità proprio ngazzat assaie, direbbe un napoletano verace! E tra scrosci d’acqua in faccia e rollio/becheggio, mi vien da vomitare. Resisto e indosso la muta così almeno la pianto di prendere secchiate addosso. La terraferma è un lontano ricordo, nel senso che non la si vede più e i due pescatori, con la
perenne sigaretta accesa all’angolo della bocca, (come avranno fatto?) continuano imperterriti a parlare tra loro come se niente fosse dirigendo la barca non so dove. Mi vengono in mente le cose più assurde. Al Cristo degli abissi di San Fruttuoso (Portofino) chiedo di proteggere me e i mei compagni, al Padre Eterno chiedo di occuparsi che Suo Figlio (quello di San
Fruttuoso, riceva e esaudisca le mie suppliche) a Nettuno (se mai esiste) chiedo una mano per far calmare il mare, a mio padre, deceduto nel 1970 chiedo di rimandare ancora un po’ il mio incontro con lui, a mia madre, deceduta nel 84, chiedo di convincere mio padre a rimandare quell’appuntamento appena citato, ai miei ex istruttori militari, vivi o morti che siano, chiedo cosa devo fare, ma nessuno fa niente, e io allora mi arrangio da solo. Nel senso che cerco di sopportare, non pensando al fatto
che se si dovesse fermare il motore che facciamo? Bha! lasciamo perdere! Epensare che al Lago Maggiore, la prima volta che sono rimasto a “piedi” con la mia barca causa la foratura di un pistone del motore, il giorno dopo sono andato a comprare un motore di scorta. Dopo non so quanti secoli, ma credo oltre un paio d’ore, uno dei pescatori si alza in piedi della barca e si
guarda intorno e urla qualcosa all’altro facendo strani gesti.
Odddddiiiioooo oddiiiiiooooo che succede? I pirati, gli squali, le sirene, li mortacci loro e miei e quando ho scelto di fare il subacqueo. Il golf, la dama, gli scacchi, il meccano, l’uncinetto? Nooo? Macchè, proprio in Marina come sommozzatore dovevo andare ad arruolarmi accidenti a me. Magari in artiglieria, come furiere? Niente! Manco Marina, una mia amica pure bonazza!
Così tra idee confuse e farneticamenti vari, mi accorgo che la concitazione, era dovuta al fatto che eravamo arrivati sul luogo designato. E non potevano dirlo civilmente? No! Dovevano fare tutto sto casino, tipo l’avvistamento dello Squalo 4. Mi viene da ridere a pensare al mio Gps, al sistema satellitare e a tutto l’armamento elettronico che ho in barca. Questi due mezzi nudi, una mano sulla leva della manetta dell’Evinrude 25 e l’altra per la sigaretta accesa in mezzo all’acqua, così, come se niente fosse dopo
oltre due ore di navigazione in oceano col mare mooooolto inkazzato, arrivano dove esattamente volevano arrivare. Una secca sui 20 metri dove c’è il passaggio delle aragoste. Gettata l’ancora composta da un grosso sasso legato con una cima di canapa, scendiamo con uno dei due che ci porta sul fondo dove la corrente è abbastanza forte e la visibilità ridotta, e vediamo la processione. Centinaia, migliaia, milioni (bhè non esageriamo, mica siamo pescatori!!!) di aragoste che in perfetta fila indiana formano una processione sterminata. Lui ne mette qualcuna nella rete che si era portata e io comincio a scattare foto. Uno spettacolo così non l’avevo mai nemmeno immaginato. Queste bestie enormi ch formano una fila infinita e che si spostano da una secca all’altra per trovare cibo e riprodursi, così ci hanno detto. Io credo di aver fatto le bave nell’erogatore. Le immaginavo tutte su enormi piatti di spaghetti fumanti e su griglie grandissime e fumanti. Tutta qui l’immersione, ma vi assicuro che ne valeva la pena. Il rientro è l’esatta replica dell’andata. All’arrivo, la prima cosa che ho fatto, è stata l’emulazione di Cristoforo Colombo quando toccò terra. In ginocchio a baciare la terra. Il resto della giornata passa tra l’Esplanada e il solito “struscio”. Il giorno dopo optiamo per un giro dell’isola con un fuoristrada che aveva i pneumatici un tantino consumati. Nel senso che si vedeva
l’intreccio dei fili d’acciaio che compongono la rete sotto il battistrada.
Ma fa parte tutto del flclore locale. Eccoci al mattino presto pronti e bardati per il giro dell’isola. Sembriamo dei beduini. A bordo del fuoristrada seduti sulle panche laterali nel cassone all’aperto, con il sole che è già alto. Direzione sud/ovest verso Rabil dove entriamo in paese come gli alleati entravano nelle città liberate alla fine della guerra. Ci guardano stranamente. La prima tappa è un bar dove una signora ci accoglie  aprendo il frigorifero e facendoci vedere il campionario. Optiamo per acqua e menta e ce ne andiamo lasciando la madama delusa in quanto ci stava attaccando un “bottone” mica da ridere. Dirigiamo a nord/ovest e ci inoltriamo nel Deserto de Viana.  Il posto non ha nulla da invidiare al Sahara. Mi sento Lawrence d’Arabia. Inutile dire che io vado matto per il deserto e a chi dice che non c’è nulla, gli mordo un’orecchio.
Il deserto, se lo sai ascoltare ti parla. Il soffio del vento ti porta delle storie lontane; solo che bisogna capirle. Il fuoristrada arranca su è giù per dune di sabbia bianchissima fino a trovare una specie di pista che ci conduce a un’oasi che si chiama Extancia de Bixao. Un paio di cocchi finiscono a bordo e ci dissetano. Noto degli asini e l’autista mi dice chesono selvatici e girano liberi per conto loro. Proseguiamo per oltre un paio d’ore fino a quando il gippone si arresta in una radura a picco su un
pendio. Si prosegue a piedi per una ventina di minuti fino ad arrivare alla spiaggia  di Cabo Santa Maria dove meraviglia delle meraviglie, c’è una enorme nave arenata sulla sabbia.

E’ un relitto enorme. Un mercantile che trasportava balle di cotone e tempo fa si è arenato. La struttura è ancora solida ma il mare ha fatto la sua opera di demolizione tanto che sotto la linea di galleggiamento si vede la luce che passa nelle pareti stesse della
nave.  Il fascino è immenso. Il silenzio assoluto e rotto solo da un leggero sciacquio del mare stranamente calmissimo. Il sole è accecante e il vento leggero sibila tra le strutture della nave. E’ impossibile descrivere la scena. La mia Nikon FE diventa rovente, non tanto per il sole, ma per il lavoro. Devo aver fatto un paio di rullini e in quell’occasione ho usato anche una pellicola negativo / colore che mi ha dato delle foto uniche.
Mi piacerebbe farvi vedere una di queste, ma temo che in allegato sia impossibile. Se a qualcuno interessa, la mando in privato. Le borracce d’acqua che ci siamo portati, si svuotano in un attimo e allora meglio ritornare alla macchina e così, molto a malincuore lascio il relitto. Addio nave! Chissà qual’era il tuo nome. Resta dove sei a testimoniare una delle tragedie del mare. Se qualcuno di voi che leggete, ha avuto esperienze “marinare” , credo che capirà cosa significa. Mi asciugo la faccia con la mano, ma non capirò mai se oltre al sudore c’era anche qualche lacrima. Nel caso non me ne vergogno affatto. Puntiamo su Joao Galeco riattraversando il deserto da dove siamo venuti per deviare verso Fundo de Figueras. Una via di mezzo tra un’oasi e un villaggio dove anche qui qualche noce di cocco serve ad alleviare il caldo e la sete. I posti sembrano tutti uguali, quindi non ci soffermiamo più di tanto e andiamo avanti su e giù per la pista, fino a quando la sabbia lascia il posto a una pianura di sassi neri. E’ roccia vulcanica e ci stiamo avvicinando a una montagna che altro non era, chissà quanto tempo fa un vulcano vero e proprio. Arriviamo alle falde e il mio altimetro segna 370 metri. Continuiamo fino ad arrivare alla costa dove il vento dal mare ci porta un po’ di refrigerio. Non credevo fosse così dura, ma sono, e siamo, tutti arcisoddisfatti. Ci fermiammo sulla spiaggia e la guida ci fa strada fino ad arrivare a una grotta, per entrare nella quale, dobbiamo entrare in acqua fino alla vita. teniamo alti gli zaini con il mangiare e il bere.
Entriamo e ci sono due indigeni che hanno fatto con la sabbia, una enorme tartaruga. Come si fa con le formine in spiaggia, solo che la bestia è lunga quasi un paio di metri. Ci spiegano che è una cosa propiziatoria. Quando salirà la marea, l’acqua invaderà la grotta e  la tartaruga di sabbia si dissolverà portando benessere ai due. Così dicono loro. Ci fermiamo a fare uno spuntino e dentro la grotta l’aria è fresca. Finito il tutto e fatte le solite foto ritorniamo alla macchina e riprendiamo la strada. Prima di un
villaggio, la strada si fa bella. Il fondo è lastricato di pietra nera e a un tratto vediamo al lato della strada, un vecchietto con un  grosso fardello in spalla. L’autista frena e ci chiede il permesso di farlo salire a bordo. Gli diamo così un passaggio. Ha una camicia di un colore azzurro cielo, stranamente pulitissima. Ci dice che ha più di 70 anni e stava tornando a casa con un  po di verdure che è riuscito a coltivare in un campo. Ci sono circa una diecina di km e lui se li sarebbe fatti a  piedi col suo bastone e
il fardello in spalla. All’arrivo in paese lo portiamo fino a casa sua e li ci congeda con qualche migliaio di benedizioni e ringraziamenti. Altro bar e una bella birra non troppo fredda è un toccasana per la gola. La pelle comincia a bruciare. Il sole, il vento e la sabbia si fanno sentire e a nulla vale la crema. Serve solo a formare un pastone sulla pelle stessa e allora tanto vale farne a meno. Meglio tirare giù le maniche della camicia e per fortuna ho il mio cappello mod. Indiana Jones che ripara il collo con la sua ombra. La prossima volta mi porto il Kepì della Legione Straniera, quello con la tela che copre la nuca. Ricordo di una settimana passata a Orano con il Terzo R.E.I. della Legione. Si sono stato in Legione Straniera per una settimana, ma non arruolato. Semplicemente per realizzare un servizio televisivo su questo corpo. Ci sarebbe da scrivere un libro su quella settimana. Mi diedero Le Kepì Blanc, un berretto con le insegne, un paio di magliette e i distintivi in ottone dorato con i fregi del
Reggimento. Inutile dire che sono cimeli che custodisco gelosamente.
Puntiamo sud fino ad arrivare a Santa Monica. Una spiaggia fantastica. Il  fuoristrada corre veloce sul bagnasciuga fino a quando decide di fermarsi e concederci un bagno fantastico. E’ una spiaggia lunga non so quanti km completamente deserta con la sabbia bianchissima e l’oceano azzurrissimo.
Inutile dire che ce la siamo goduta. Tuffi sotto le onde, nuotate, galleggiamenti a morto e tutto quanto il repertorio bagnarolo può prevedere.
Poi mentre ci asciughiamo diamo fondo a panini e birre ormai calde, ma non importa. E chi ci fa caso? Siamo in Paradiso e cosa volete che sia una birra calda?
Dopo una sosta veramente ristoratrice, riprendiamo la strada, se così si può chiamarla, per inoltrarci in un altro tipo di desrto. Sabbia e pietre rosse. Un colore che va dal rossiccio al ruggine, segno evidente di antiche tracce di acqua che a contatto con rocce contenenti pirite, ha generato degli ossidi di ferro. Dopo una quarantina di minuti col sale che ormai ha formato una crosta sulla pelle e che ci ripara dal sole, arriviamo in un paese: eccoci a Povoasao Velha. Qui scendiamo e ci muoviamo a piedi. All’improvviso da un angolo di una strada sbuca un tizio a bordo di un asino carico di paglia. Ma era talmente carico che quasi non si vedeva ne lui e ne l’asino e viaggiava con una minuscola radiolina a transistor attaccata all’orecchio.
Come fanno da noi quelli che la domenica vanno in giro e si sentono le partite per radio. E’ stata un’immagine buffa. Anche qui qualche foto.
Troviamo un tale vestito impeccabilmente come se dovesse andare a un matrimonio. pantalono scuri, camicia rosa con colletto e polsini bianchi, cappello stile Blus Brothers e bastone. fermo e  immobile che sembrava finto. Lo salutiamo e lui ci risponde. Parla spagnolo e gli chiedo se posso fotografarlo. Lui si mette in posa come se avesse dovuto posare per la classica foto di nozze. Diritto e altero come un fuso. Scatto e lo ringrazio e lui mi dice che ha 85 anos, 85 anni. Complimenti! L’autista ci porta nella strada principale dove fotografiamo una sequenza di case, tutte a un piano, una attaccata all’altra e di colori diversi e vivacissimi. Rosse, gialle, blu. Riprendiamo la strada alternando  ancora deserto e costa fino a quando arriviamo a un villggio composto di non più di
cinque o sei case dove c’è un laboratorio di terracotte. Alcuni ragazzi, creano oggetti in terracotta che cuociono in un forno. Ci fanno vedere di tutto e alcune cose sono veramente belle. Compro un paio di vaetti alti non più di una decina di centimetri. Sembrano dei pestelli che si usavano per pestare i pinoli. Me la cavo con non più di 300 escudos. 6.000 delle nostre lire.
A questo punto abbiamo fatto il periplo dell’isola con alcune deviazioni. E’ già pomeriggio inoltrato quando rientriamo alla base. Una doccia ci toglie la sabbia di dosso e poi un meritato relax fino a quando ci fanno cenno che è pronto da mangiare. Pesce in tutte le salse e abbiamo dato fondo ai piatti. Non è avanzato nulla. Il giorno dopo ci vede pronti per un’altra immersione, ma quando mi fanno vedere di nuovo la stessa barca dell’altra volta, io rinuncio. Gli altri tre partono e io me ne vado da Giuliano che mi affitta una moto e relativo casco ed alcuni consigli. Indovinate dove dirigo? ma verso il deserto, naturalmente. Evidentemente non ne ho avuto abbastanza. Ed eccomi a cavallo di un cinquantino a godermi una strada lunga una ventina di km tutta in pietra, col deserto di sabbia ai lati. Ero da solo e qui mi sono lasciato andare. Ho dato fondo a tutto un repertorio di ululati che un branco di lupi e coyotes messi insieme non avrebebro saputo fare!
Semplicemente fantastico. Mi fermo in un’oasi deserta e mentre mi aggiro con la Nikon pronta a cogliere qualcosa di strano, da dietro un cespuglio spinoso, vengoso strani rumori. Avanzo e a momenti mi prende un infarto. Un asino. Ci siamo trovati quasi muso contro muso. Io mi sono spaventato e ho gridato e lui più spaventato di me si è messo a ragliare. Ma vi hanno mai ragliato in faccia? Non ve lo auguro! Lui si è impennato e se le data a gambe, pardon a zampe e io col cuore in gola, sono rimasto li. Passato lo spavento mi sono mesos a ridere da solo come un cretino e mentre viaggiavo in moto, poi sapete cosa facevo? Ragliavo! Roba da pazzi. E’ stato fantastico. Midono fatto un bel po di km fino a quando, stanco sono rientrato da Giuliano che mi ha preparato carpaccio di pesce, pesciolini fritti in olio e peperoni, vino bianco, e frutta. Il tutto per 10.000 lire.
Il pomeriggio lo passo andanto a zonzo con la Nikon pronta. Fotografo il mercanteggiare dei pescatori, le donne che puliscono il pesce e a un tratto in un gruppo di persone che stavano pesando dei pesci, mi colpisce una vecchietta con un grembiule coloratissimo. La bilancia avrà avuto due secoli e mezzo. La riprendo e lei poi dice qualcosa a uno li vicino e tutti scoppiano a ridere guardano me. Chiedo nel mio misero portoghese spagnoleggiante il motivo di tanta allegria e il tale, mi fa da interprete.
Lei dice che se voglio, posso portarla con me a casa mia in Italia. Sarà la  mia donna, la mia serva, accudirà la casa, farà la spesa, tutto insomma. In cambio vuole solo andare via da li. Io ringrazio e dico che ho già una moglie, ma lei replica dicendo che non gli e ne importa nulla. Le va bene ugualmente. La cosa è seria. Peccato che lei deve avere intorno a una settantina di anni, o almento tanti ne dimostra. La cosa finisce li tra fragorose risate.
Poco dopo incrocio gli altri tre soci d’avventura. Mi dicono che l’immersione non valeva la pena e che ho fatto meglio io a non andare.  Chiuso il discorso subacqueo, ci dedicheremo alla terraferma.
A un tratto Ural, grida ecc. Dietro l’angolo, due donne abbastanza giovani se le stanno menando di santa ragione. Capelli strappati, pugni, calci schiaffi. Il  motivo? Un uomo. Non per scherzo, ma la popolazione è composta in stragrande maggioranza da donne che spesso si contendono lo stesso uomo. Buffo vero? E la cosa a volte finisce in tribunale. Una stanza che sta a pochi passi dall’albergo dove un “giudice” è chiamato a dirimere contese amorose sessuali. Forrei commentare questa cosa, ma forse è meglio di no. Si commenta da sola. Certo che però….. quasi quasi….. ma lasciamo perdere.
La sera mi vede protagonista di un’altra bellissima esperienza. Alla Esplanada, da Giuliano,  c’è un tale che ha una pianola elettrica e sta suonicchiando qualcosa. Alcune ragazze molto belle ballonzolano tra loro e io incuriosito guardo lo strumento: è una GEM, italiana. Quando lui smette, gli chiedo se me la lascia provare e io acceno a qualcosa del mio repertorio. Lui mi invita a proseguire e dopo un po arriva uno (negro) che sembra la fotocopia di Bob Marley. Spolverino fino ai piedi, cappello di lana, un violino sotto il braccio. Mi fa cenno di continuare e nel frattempo arrivano altri due con tromba e chitarra e poi si aggiunge una batteria
fatta di qualche tamburo, tipo fustino del Dash. sapete come è finita? Io che non sapevo più cosa suonare. Da O sole mio al Va pensiero passando per tutto il mio repertorio che facevo alle feste studentesche. E la gente ballava e cantava. E’ stata una serata magnifica. Abbiamo fatto tardi e quando finalmente siamo andati a dormire, ho pensato che veramente un posto così non l’avevo mai immaginato.
Il giorno dopo andiamo a visitare un villaggio turistico. Un villaggio vero. Di quelli dove tutto è perfetto. Aria condizionata, impianto stereo con diffusione in ogni angolo, camerieri in divisa, bicchieri di cristallo, e tutto quanto si può trovare in un Club Med o simile. E’ il Marine Club. Ci sono degli italiani seduti su poltrone di vimini con Martini in mano che conversano. Ci vediamo e prendiamo da bere. Campari soda! Attacchiamo discorso con qualcuno. Turisti italiani. Dicono che li si sta
magnificamente. C’è tutto. Lo stereo, la tv, i camerieri, l’aria condizionata ecc ecc. Parliamo di noi e delle nostre esperienze e notiamo che ci guardano sul genere: oddio chi sono questi! Ma sono pazzi! Mescolarsi con i nativi del posto. Andare in giro nel deserto a bordo di un fuoristrada poi, mangiare panini, bere birra a canna ecc.ecc. Credo che abbiamo lasciato dietro di noi tracce di orrore. Paghiamo i Campari intorno alle 10.000 lire a cranio e ce ne andiamo disgustati.
La sera ci vede ospiti di alcuni pescatori che sulla spiaggia hanno acceso un fuoco e stanno grigliando delle grosse aragoste. Non ci facciamo pregare e ci aggreghiamo portando del vino che siamo andati a comprare in un negozio. Mica andare a nmani vuote, scherziamo? Siamo accolti magnificamente e la serata passa al chiarore del fuoco tra canti, birra, vino e aragoste,
Non per ripetermi, ma ho avuto ancora una volta l’impressione di essere in Paradiso.
Il resto dei giorni passa tra le solite passeggiate fino a scoprire una baracca in lamiera dove hanno appena macellato un maiale squartandolo da vivo e ora stanno facendo bollire alcuni pezzi in un pentolone che emana un tanfo micidiale. Il bello è che in quella baracca ci vivono pure uomo donna e alcuni bambini. Poi sempre nella zona vediamo altre di queste baracche.
Impossibile sbagliare. Il tanfo è uguale per tutte e tutte hanno il loro bel  maiale. Questa cosa potrà far arricciare il naso a qualcuno, ma vi ricordo ancora una volta lo spirito con il quale noi andiamo in giro. Viaggiatori e non turisti, altrimenti andiamo alle Canarie!
Ormai in paese ci conoscono tutti e tutti ci salutano e ci stringono la mano quando ci vedono. E’ bello. E poi ho dato delle caramelle a dei bambini che le hanno accettate un po’ con riluttanza, ma poi me le continuavano a chiedere. Da quelle parti oserei dire che c’è una dignitosa povertà, ma non la miseria. Tutti mangiano e sono tutti molto puliti. Pensate che sotto il nostro balcone, al mattino uno con un bicchiere d’acqua, prima si lavava i denti e poi dopo aver risputato il tutto nello stesso bicchiere, si lavava la faccia. Non inorridite, ma pensate che anche la più piccola goccia d’acqua è preziosa laggiù.
L’ultimo pomeriggio ci facciamo una lunghissima passeggiata a piedi lungo la strada che costeggia il mare. Arriviamo a dove il deserto si fa avanti. Ci portiamo in mezzo alle dune e io me ne cerco una alta e mi siedo a gambe incrociate guardando l’oceano. Il sole sta incendiando di nuovo di rosso tutto intorno e lo spettacolo è da togliere il fiato. Ho quasi paura a fotografare. Vorrei poter catturare l’ambiente, le emozioni, ma come si fa?
Rientriamo in albergo e dopo cena prepariamo i bagagli. Domattina con un aereo a noleggio lascieremo questo paradiso per andare nell’isola più selvaggia di tutto l’arcipelago. Fogo. La serata passa da Giuliano.
Salutiamo tutti quelli che abbiamo conosciuto e di cui ormai siamo amici.
C’è molta tristezza in me. So che sarà difficile ritornare e riprovare queste emozioni, ma così è la vita. Andiamo avanti. Ci saranno altre sensazioni e altri luoghi. E per intanto, visto che la vacanza sta andando verso la parte finale, ci consoliamo prendendo in considerazione i  prossimi obbiettivi che alla fine si concretizzeranno col mega viaggio in Micronesia fresco/tiepido/calda e i profumi di questa isola meravigliosa. Paliamo con  un medico che lavora in ospedale e ci dice che grandi problemi non ne hanno.
Grosse patologie agli occhi, causate dal vento e dalla sabbia, questo si.
Qualche infezione dovuta a tagli non ben disintettati e qualche dissenteria causata dal fatto che ha volte i recipienti dell’acqua non vengono ben lavati. Malattie come tumori o infarti sono pressochè sconosciute. La gente vive mediamente oltre i settanta anni. Daltronde si mangia solo pesce, un pò di verdure, frutta, qualche pollo e un po’ di maiale. Noi in albergo abbiamo l’autoclave col depuratore per l’acqua. Il tempo passa ed è veramente ora di salutarci.
Domani ci attende un’altra bella avventura e vogliamo godercela fino in fondo, quindi bando alla tristezza!
Arrivederci Boavista. Porterò sempre con me i sorrisi e le strette di mano della gente. Il profumo della brezza dell’oceano e perchè no, anche del tanfo del pentolone dove bolliva il maiale.
Eccoci a bordo di un turboelica 7 posti. C’è voluto l’equivalente di 300.000 lire a cranio per farci portare a Fogo e ritorno.
Dall’alto riusciamo a vedere l’arcipelago. Le isole sono disposte a mezzaluna in senso orario. Boavista pare la priù grossa seguita a ruota da Santiago Sal è proprio una piattaforma simile a Lampedusa. La più lontana a nord è Santo Antao e poi ci sono le altre isolette. Sao Vicente, Santa Luzia, sao Nicolao, Majo e Brava la più lontana a sud. La giornata è particolarmente serena, poco vento e ciò ci permette di vedere alcuni dettagli. L’oceano è particolarmente scuro, ma ciò è causato dal fatto che intorno alle isole i fondali vanno dai 30 ai 50 metri, ma basta allontanarsi di poche miglia è si scende a 350 metri per passare immediatamente dopo alla fossa abissale che scende oltre 4500 metri e ciò rende l’acqua scura. Poi il gioco di luci fa il resto. Sono tutte isole vulcaniche sputate fuori dal mare non so quanto tempo fa. Dagli strumenti di bordo vedo che siamo a latitudine 15 gradi nord e longitudine 24 ovest. Ed ecco in lontananza Fogo.
Avete presente un cono gelato rovesciato? Ecco, uguale. E’ una montagna, anzi un vulcano che occupa tutta l’isola che a occhio direi che ha un diametro che non supera i 5/6 km. Atterriamo regolarmente  e un caldo bestiale ci accoglie. L'”aeroporto” è peggio di quello di Boavista, nel senso che è solo una pista e una baracca. Un pulmino ci aspetta e ci dirigiamo verso il capoluogo, Forno. Il nome è tutto un programma. Ma cosa siamo venuti a fare qui? Non era meglio restare a Boavista?  Chiediamo all’autista se ci trova un posto per alloggiare e lui ci  porta da alcuni pescatori che affittano delle camere. Detto fatto siamo a Sao Felipe. Quanti santi da ‘ste parti. Qui stanno peggio di noi! Ci danno un paio di camere comunicanti che una volta dovevano essere un deposito per attrezzi. Non è male il luogo e poi per quello che ci costa. Intorno alle 20.000 lire al giorno a cranio e poi veniamo a sapere che hanno approfittato. Fa solo caldo. Il resto della giornata passa nel sistemare le nostre cose. Decidiamo di lasciar perdere anche qui le immersioni per vedere cosa offre il luogo.
Non è diverso dagli altri, solo che sembra molto più brullo, selvaggio, anzi direi selvatico. Al porticciolo alcune barche da pesca sono ormeggiate e dondolano pigramente. Ci chiedono se vogliamo andare a fare un giro. Optiamo per il domani. Col pulmino che avevamo preso in aeroporto, ci facciamo portare un po’ a spasso e alla fine troviamo un bar dove in cambio di una decina di mila lire (al cambio) ci abbuffano di gamberi e calamari. Da bere birra. Ci farei la firma, visto cosa si mangia e cosa si paga da noi in         fatto di pesce.
La mattina dopo carichiamo macchine fotografiche e qualche provvista in barca e prendiamo il largo. A dire il vero non ci allontaniamo molto dalla costa. Il vento è rinforzato e il mare non è dei migliori, ma pazienza. In confronto a quello che ho passato a Boavista, questo è nulla. Vedo solo coste ripide e scoscese e a parte qualche radura sabbiosa vicino a Porto Vale de Cavajeros, non c’è altro. Dirigiamo a nord sottocosta e arriviamo a  San Jorge. Altro santo. Qui c’è una bellissima oasi con spiaggia. E’ troppo
bella e decidiamo che è il posto giusto per fare una sosta. Ci sono dei  ragazzini e delle ragazzine che fanno il bagno nudi. Non si preoccupano di  noi. Ci guardano e ridono, chissà poi perchè? Siamo così strani? Il barcarolo, ci fa capire che qui di turisti non se nen vedono molti, anzi!
Birre, scatolette di tonno e pane servono a riempire la panza che cominciava a dare segni di inquietudine. Poi pigramente ci stendiamo all’ombra delle palme, sempre facendo attenzione che non ci siano noci di cocco sopra di noi. Una noce di cocco pesa tra i 5 e i 7 kili e avete presente se vi arriva in testa da una decina di metri di altezza? Non c’è da scherzarci sopra. Si muore per lo sfondamento del cranio. Pensate che a Pee Pee in Tailandia, c’è gente che manda sulle palme le scimmie legandole con una catenella e che queste staccano i cocchi e li buttano al suolo. Però, è capitato, così ho sentito, che qualche scimmia particolarmente dispettosa o per vendicarsi del padrone, abbia tirato il cocco addosso a chi teneva la catena. Dopo un salutare relax, ripartiamo e continuiamo a circumnavigare l’isola: ecco Porto Dos Mosteiros e poi Ponta Fundao. Più a sud c’è Porto do Alcatraz, ma niente di simile all’omonimo posto in Stati Uniti. Il paesaggio è sempre lo stesso. Brullo e arido. Solo la parte ovest dell’isola nella parte che va dalla costa fino a sotto il cratere, ha della vegetazione. Andiamo avanti fino a quando arriviamo al punto di partenza. Ad occhio direi che non abbiamo fatto oltre le 12/13 miglia nautiche quindi oltre una ventina di km.
Il sole e la salsedine si fanno sentire e decidiamo di levarcele prima con un bagno in mare e poi con un po’ d’acqua dolce fornitaci in un secchio dal pescatore. La sera ci vede al “ristorante” dove tanto per cambiare ci servono un passato di aragosta. E’ un brodetto molto denso di sapore molto forte. E’ buonissimo. Poi un po’ di pesce fritto e la serata finisce nella nostra suite a dar fondo al poco whisky rimastoci. Siamo in riserva e mi sa che resteremo a secco, ma pazienza. Siamo anche agli sgoccioli della vacanza.
Il giorno dopo col pulmino, andiamo a vedere il santuario di Nostra Senora de Socorro. E’ una chiesa molto semplice e senza nessuna pretesa. Niente a che vedere con il santuario di Oropa qui dalle mie parti. Poi puntiamo verso Patim e da li ci dirigiamo verso la cima del vulcano. La strada non è male, ma abbastanza carente di manutenzione. Costeggiamo una specie di pineta fino al bordo del cratere che è immenso. La strada lo attraversa in pieno. Siamo a Cha das Caldeiras. Caldeiras significa caldaia, quindi vi lascio immaginare. Per fortuna che abbiamo caricato acqua e birra e qui sono veramente necessarie. Siamo a Pico de Fogo e il mio altimetro da polso segna 2830 metri. Fa un caldo pazzesco, mitigato in parte dal vento che qua e la alza mulinelli di polvere. Il paesaggio è lunare, ma ricchissimo di fascino.
Mi ricorda tanto quei film di fantascienza di fine anni 50. Io mi aspetto di veder comparire da un momento all’altro un omino verde con le antenne sulla testa e gli occhi luminescenti. E se poi invece arriva un tale tutto rosso, con due cornazze, la coda e un forcone? Ma dove siamo? In uno dei posti più selvaggi del pianeta, eppure dei più belli. Capisco che è difficile trovare turisti da queste parti. Bisogna esser pazzi e svitati come noi per decidere questo genere di cose. ma l’alternativa qual’è? La classica vacanza visitando musei e luoghi di cutura? Oppure in crociera con una supernave superlussuosa? Oppure sul genere villaggio vacanza? Oppure qualcosa di caraibico dove tutto è superorganizzato? Nossignori. Noi siamo rigorosamente turisti fai da te, e vi assicuro che niente è ahi ahi ahi! Per fortuna che il vulcano è tranquillo, nel senso che non capisco se è spento o è solo in stand by. L’omino ci dice che ogni tanto da qualche barte esce un po’ di  fumo, ma tutto finisce li. La strada scende verso la costa e attraversando un po di vegetazione (qualche albero che pare un pino diseredato) e finalmente arriviamo sul mare dove l’aria è molto più respirabile. Abbiamo incrociato qualche vecchia auto che da noi non la vorrebbero nemmeno per la rottamazione. Tutti si salutano e tutti si conoscono. Al ritorno in paese capiamo che la notizia di quattro uomini bianchi che sono arrivati dall’altra parte del mare con l’aereo ormai è di dominio pubblico. Il risultato è sempre lo stesso in ogni luogo ove siamo stati. Ci piace vedere la gente locale, stare con loro, parlare, capire ecc. e questo ha sempre fatto si che siamo stati trattati come di loro.
Il resto dei giorni passano come una fotocopia. L’isola è piccola e non ci vuole molto a conoscerla in ogni dettaglio. Gli abitanti si lamentano per il fatto che quest’isola viene trascurata dal potere centrale. Devono arrangiarsi in tutto e per tutto.
Guardandoci allo specchio, notiamo che ormai non c’è quasi più differenza tra noi e i nativi. Siamo talmente scuri e con la pelle quasi bruciata dal sole e dal mare, che penso se in questo momento ci vedesse qualcuno che non ci vede da molto, stenterebbe a riconoscerci. Arriva così il giorno della partenza. Bisogna ritornare a Boavista da dove riprenderemo l’aereo per Sal e poi per l’Italia. Io sempre con la mia grossa spada a tracolla e il borsone in mano, mi avvio insieme agli altri verso l’aereo che è venuto a
riprenderci. Onestamente parlando, è stato bello, ma non tornerei qui.
Meglio Boavista. Più allegra, più…non so come dire, più tutto, insomma. Eccoci a terra, e in attesa dell’aereo della Tacv, ci scoliamo le ultime birre che avevamo negli zaini quando si sente il rumore dell’aereo che si prepara all’atterragio. Arriva da Sal e li ritorna. Qui accade una scena comica che ci fa scompisciare dalle risate. Mentre l’aereo scende, sulla pista la Land Rover rossa del servizio antincendio a sirena spiegata corre su e giù per la pista insieme a molte persone armate di scope e bastoni. E sapete cosa fanno? Sgomberano la pista dalle capre che tranquillamente la occupavano. Il bello è che cacciavano le capre da una parte e loro andavano dall’altra.
Alla fine i “peones” del luogo hanno partita vinta, ma  credo più per il rumore dell’aereo,che per altro. Gli animali scappano lasciando libero il nastro d’asfalto.
Sbarcano un po’ di persone e poi tocca noi salire. Sempre con la mia fida spada a tracolla, (e chi la molla più?) mi accomodo. Il resto è senza storia. L’arrivo a Sal e dopo circa un’ora e mezza la partenza. Chissà come me la cavo all’arrivo in Italia per via della spada? Il volo di ritorno è nella normalità più assoluta, salvo ballare un po’ a un’oretta dall’arrivo a causa del maltempo. Atterraggio a Orio al serio alle 18 circa con una giornata grigia e fredda. Ahhhhh! Boavista come sei lontana. E come sono lontane le serate con musica e balli. Ci incamminiamo verso il posto di controllo e il poliziotto mi prende il passaporto e mi fa la rituale domanda: ha qualcosa da dichiarare? Chi? Iooooo? Noooo? solo qualche souvenir! Allora vada! E non si è nemmeno accorto del mio spadone che fuoriusciva in alto dalla spalla destra per una trentina di centimetri e in basso dal fianco sinistro fino quasi all’altezza del ginocchio!
Il resto è nella normalità più assoluta. Cioè il viaggio da Orio a Biella è stato di una tristezza e una mestizia unica. Il Neni stranamente taciturno, dopo un po’ ha cominciato a girare il coltello nella piaga. Ragazzi, ma vi ricordate ieri sera? E quel giorno che….. e la serata all’Esplanada dove si suonava e ballava….. e….. e io che gli dissi che se non la piantava, avrei potuto provare subito su di lui la mia spada. Ma non potevo, era nel bagagliaio sotto i borsoni, accidenti a lui. Credo che Walter avesse voglia
di piangere. Pini era indecifrabile. A casa lo aspattavano oltre la moglie, i nipotini ansiosi di vedere cosa aveva  portato loro. E io? Bhè lasciamo perdere. All’arrivo a Orio, una funzionaria del Ministero della sanità, ci aveva consegnato un foglio con tutte le istruzioni mediche per coloro che arrivano da paesi africani.
Se ti senti male entro 40 giorni devi fare questo e non quest’altro, poi riempire il questionario e mandarlo al servizio sanitario ecc. ecc. Io volevo solo mandare il questionario scrivendo che provavo delle fitte enormi in un posto dalle parti del cuore, ma non era il cuore. Avevo dei dolori atroci al cervello, ma non era emicrania. Avevo gli occhi umidi, ma non era congiuntivite. Pensate che avrebbero capito che si trattava di MAL D’AFRICA?

Ecco, tutto qui. Devo dire che nello scrivere, le fitte all’anima e alla mente sono ricomparse e fanno male, tanto che verrebbe la voglia di prendere il primo aereo e ……..
Posso solo dire che dopo pochi giorni, visto che i sintomi erano molto comuni a tutti e quattro, abbiamo iniziato la cura. Abbiamo cominciato a parlare del viaggio successivo,che si sarebbe poi concretizzato nel febbraio  2000 con il giro della Micronesia. Come dire che chiodo scaccia chiodo, però fa sempre tanto male, quindi ora stiamo parlando del prossimo. Le idee sono alcune. C’è sempre lo Yemen che ci aspetta e poi il mar delle Andamane e ancora per la prossima primavera del 2002 un altro mega viaggio in
Melanesia. Quello non ce lo leva nessuno.

Ora vi lascio con la speranza di avervi allietato un po’ o di avervi trasmesso qualche emozione. Spero di non aver contagiato nessuno con la mia malattia, o sopra tutto non aver annoiato.
Ora dopo tutto questo mega racconto, lascio a voi trarre le conclusioni sul tutto. Se vorreste andarci giudicate voi stessi. E attenzione a una cosa.
Non dico che oggi non ci possano essere rischi per qualche malattia, ma se nel caso fosse così, non create inutili e falsi allarmismi così come spesso è accaduto sul NG parlando di Cabo Verde.
Sono rimaste le dia, i dischi che non mi stanco mai di ascoltare. Quando sono triste, mi basta ascoltare Boy Mende con la sua Terra Cretcheu o Cesaria Evora con Partida e altri pezzi e mi ritorna il sorriso. E’ come farsi una flebo, ma di musica che contiene sensazioni, ricordi ed emozioni portate dal vento fresco/tiepido/caldo che ti fa sognare.

Se qualcuno volesse altre notizie, informazioni o dettagli riguardo al
questo viaggio, scrivetemi pure.


      CARLO ROMANO ( [email protected] )