Afghanistan 1973  ” C’era una volta… “

…………………….storia di un viaggio realmente vissuto.

dell’ amico Beppe Quarta ( http://www.beppequarta.it/  )



Avevo ancora negli occhi gli sfavillanti colori della Moschea di Mashad!
Pensavo con entusiasmo: mi trovo su di un’altro pianeta!
Dopo aver percorsa la “international highway” attraversando la Grecia, Turchia ed Iran , il vecchio Ford Transit allestito in un modo che oggi costituirebbe il sogno agognato di uno zingaro, trotterellava con qualche ansietà nelle buche
tanto tempo prima rivestite di asfalto. Giganteschi camion, gli annusavano impazienti ed irritati il paraurti posteriore!
Apparve lontano, nella luce bianca del deserto di rocce e sassi, un casotto, poco più di una capanna: la strada era interrotta da una sbarra, mentre ai lati non c’era alcuna delimitazione e si vedevano le carovane di nomadi che marciavano rassegnate e tranquille, sospinte dalla loro eterna ricerca.  Era il confine Afghano!

Fino a quel momento, la mia convinzione era quella di aver raggiunto il massimo delle emozioni!
Dalla partenza e ,prima ancora, dalla preparazione del viaggio, avevo continuato a cercare di immaginare come sarebbe stata la realtà di quei posti ed avevo cercato di trovare aiuto contattando amici ed amici di amici che potessero fornirmi informazioni.
Comprai il Ford Transit, un leggendario furgone d’occasione, dopo aver vendute la mia amata moto e l’automobile e ci lavorai sù per un paio di mesi per renderlo adatto allo scopo; naturalmente ciò avveniva nel tempo libero, poichè all’epoca ero studente all’università e non intendevo invecchiarci del tutto! Modificai il vano posteriore in modo da avere sul lato destro dei capienti “gavoni” per lo stivaggio di vestiario, provviste alimentari, medicinali e pronto soccorso,  pezzi di ricambio, una piccola officina meccanica ed un piccolo frigorifero a 12 volts che, ahimè, non funzionò mai in modo efficace! Sul lato sinistro, una capiente cuccetta che potevo ripiegare “a libro” sulla parete, in modo da occupare il minor spazio possibile nelle ore di non utilizzo: il pianale, di compensato marino, era diviso in due parti, una delle quali estraibile a scivolo, con la possibilità di montarci un “piede”, in modo da poter disporre di un pratico tavolino.
Un giorno finalmente, tutto fu pronto od almeno così speravo che fosse, quindi corsi in agenzia ad acquistare il biglietto per il traghetto da Brindisi ad Igoumenitsa per me e per il mio “amico Ford”.
La notte prima dell’imbarco non chiusi occhio, passai tutto il tempo a verificare, a controllare, a provare: mia Madre, povera donna, ogni dieci minuti mi gridava dalla finestra di rientrare in casa per dormire qualche ora e poi non convinta dal mio “vengo, vengo” rientrava borbottando : “ma da dove gli è venuto in mente questo viaggio, Afagnistan, Cachemire, India, con tanti bei posti che abbiamo nell’Italia nostra!”
Lei non poteva comprendere, anche se non fece nulla per impedirmi di partire!
Stanco, mi distesi sulla cuccetta, con le portiere posteriori spalancate e guardai sù nel cielo: pensai, fissando le stelle “sembra impossibile che laggiù, dove voglio arrivare, si svolga la vita di uomini e donne così tanto culturalmente diversi” e cercai di immaginare un predone, una donna, un nomade, un pastore, un bambino, che nello stesso momento guardassero lo stesso cielo con me, riflettendo sugli stessi pensieri.
Fui risvegliato dai rumori del traffico: beh se non altro avevo accertato che si poteva dormire bene anche nel Transit e questo in futuro sarebbe stato molto importante!

Era l’8 di agosto del 1973: l’imbarco fu lento e difficoltoso. Centinaia di turisti si recavano in Grecia per le vacanze!
Attraversai la Grecia in fretta: solo il tempo di rivedere Atene, di avere un attimo di emozione alle Termopili, davanti al monumento di Leonida morente (quanta fantasia sprigionata nel passato, si concretizzava posando i piedi su quella terra!), ed attraversando Kavala, la città natale del grande Ataturk.
La Turchia , che ancora non conoscevo, mi spalancò le porte sulla grande cultura del Continente Asiatico: Istambul, magnifica città, piena di storia e di mistero!
Dedicai a questa perla d’oriente, alcuni giorni.
Visitai le Moschee, sbalordì davanti a Santa Sofia, alla Moschea Blu, a Solimano, il Gran Saray, il ponte di Galata, il Topkapi, le luci del Bosforo, le “fumerie”e cominciai a perdere la sicurezza e la presunzione di noi popoli latini convinti come siamo di avere l’esclusiva dell’arte e della cultura universale. Naturalmente, andai al “Pudding shop”!
Era, anzi è, poichè esiste ancora anche se completamente svuotato dell’anima che aveva a quel tempo, il posto di ritrovo dei grandi viaggiatori, scalpitanti verso l’Oriente.
Si poteva mangiare di tutto per poche lire turche, cucina tipica naturalmente, e la sera si riempiva, fino a traboccare sul marciapiede antistante la Moschea blu e la Cisterna di Giustiniano, di “personaggi” provenienti da tutto il mondo!
Solo a passare a piedi nei paraggi, si restava estasiati ed intossicati forzatamente, dai “fumi” di ogni genere (compresi quelli “umani”) che avvolgevano i miei colleghi “figli dei fiori”.
Per la verità, mi piaceva molto il travestimento, ma veramente “figlio dei fiori” non lo sono mai stato: forse ero troppo razionale , eppoi non avevo il bisogno di cercare realtà molto spesso fasulle, specialmente in quei posti ed a maggior ragione in quelli che avrei vissuti in seguito.!
Il Pudding Shop si rivelò una preziosissima fonte di informazioni relative al mio progetto di viaggio: molti viaggiatori infatti, di ritorno dall’India, dal Pakistan, Afghanistan, Iran e così via, costituivano una fonte fresca ed attendibile della situazione!
( Esisteva il dubbio molto concreto, di non poter attraversare l’Afghanistan a causa del colpo di stato militare che aveva rovesciata la monarchia approfittando dell’assenza dell’allora Re Zahir, che era in vacanza a…Roma, per istituire un regime di Repubblica).
Non capivo però il perchè, tutte le volte che domandavo: “ma insomma, com’è oltre il confine afghano?”, loro si guardavano di sfuggita  con un sorrisetto furbino, che in verità mi seccava molto, rispondendomi : “beh…vedrai…è come un’altro pianeta…qualunque descrizione non ti potrà aiutare a capire”.
Cominciò a bruciarmi il terreno sotto ai piedi!
Dalle informazioni raccolte, avevo due percorsi da scegliere per raggiungere il confine Iraniano: dopo Ankara, uno passava da sud toccando Kayseri e Malatya il secondo passava da nord toccando Samsun e Trabzon costeggiando il mar nero. Decisi di percorrere il secondo.

La strada era molto mal ridotta, per cui il mio amico “Ford”, che sentiva , nonostante non volesse farlo vedere, i suoi annetti, cominciò a dare segni di fiacca ed una notte la manifestò platealmente con un totale “black out” elettrico!
Ero ad una ventina di chilometri da Trabzon ed all’improvviso: puzza di bruciato e si spense tutto!
Non vi dico la gioia! Lungo quell’arteria sclerotica ero in compagnia di quei famosi camion giganteschi, alcuni dei quali preistorici, che facevano cose …turche!
In Turchia non esiste alcun rispetto per i colori dei segnali luminosi di bordo, sicchè si incontrano durante la notte , veri e propri “alberi di natale” erranti, che sbucano a velocità pazzesca da dietro le curve e spesso costringono a chiedersi : “ma che c…o è quello!”.
L’ “albero di natale”, mi agganciò al traino con una fune di tre metri e si lanciò nella notte senza più prendere in considerazione il fatto, che aveva attaccato dietro un poveraccio con i due occhioni fuori dalla testa ed i capelli istricezzanti!
Fortuna volle, che a pochi chilometri ci fosse un villaggio addormentato!
Una volta certo che eravamo veramente fermi, mi lanciai fuori da Ford imprecando con gusto nel mio dialetto di origine, mentre il “babbo natale turco”, divertito, cercava di dirmi che, se volevo, visto che lì tutti dormivano, poteva trainarmi fino al villaggio seguente: declinai l’invito pur apprezzandone la gentilezza!
La mattina seguente, dopo aver sognato per tutta la notte carne trita e contorno di burroni, mi svegliò un ragazzino di nove/dieci anni: era il meccanico!
Con garbo tentai di chiedergli dove fosse il suo Papà , ma intanto lui aveva ispezionato rapidamente Ford, che faceva lo gnorri, ed era sparito in un antro ben ingrassato ed affumicato, dal cui interno provenivano rumori danteschi!
Ne uscì poco dopo ancora vivo, con nelle mani un pezzo di filo elettrico e cominciò a fare ponte su tutti i settori del Transit: “gugulù” esclamò, “gugulù”! Capì che aveva fatta una diagnosi!
Smontò il coperchio del clackson e mi indicò un filo completamente bruciato all’interno: per tutto il resto del viaggio, non lo suonai mai più!
Ford si riprese d’animo e giungemmo finalmente alla frontiera di Erzurum.
Dopo 6 ore di fila, per il controllo dei documenti di proprietà dei veicoli, riuscì a ripartire: ero in Iran, nel regno del Pavone!
Tabriz era la prima grande città appena dopo il confine. Una città industriale abbastanza insignificante con moltissime attività artigianali tessili: numerosissime le “carpets factories”.

 Circondata da un paesaggio collinoso ricco di verde, dopo averci passata la notte ed aver fatta colazione con lo yoghurt eccezionale che solo da quelle parti si trova ed un bicchiere di “chay” il buonissimo the’, me la lasciai rapidamente alle spalle dirigendomi verso Teheran. All’epoca l’Iran era ancora sotto il governo della dinastia Pahlevi.
La strada internazionale era ricoperta da un eccellente asfalto, ma questo, paradossalmente, costituiva un pericolo gravissimo, a causa delle improvvise enormi buche quadrate, nelle quali ci si poteva comodamente distendere un uomo. Più di una volta ho rischiato di lasciarci dentro l’avantreno di Ford!
Tutti i villaggi, possedevano la caratteristica di avere all’ingresso ed all’uscita una aiuola verde e fiorita con il busto dello Scià, il quale si era preoccupato di offrire al viandante superficiale, una immagine di cura e benessere delle periferie; guai però ad imboccare una qualsiasi laterale: niente asfalto, fogne a cielo aperto, povertà e miseria ornata dai soliti stracci e dal solito sudiciume! Percepì subito una notevole diversità di temperamento tra i Turchi e gli Iraniani: i primi erano il più delle volte , come d’altronde è logico che fossero, curiosi: attorniavano spesso Ford sbirciandoci dentro cercando di capire che razza di animale fossi o che razza di mercanzie potessi offrire.
(Barattai con uno di loro i paraurti cromati del Transit ed ebbi in cambio quelli del suo, che erano verniciati e quindi meno “pregiati”, e l’equivalente di 25.000 lire che all’epoca erano una sommetta!)
Gli Iraniani avevano un approccio identico, ma subito dopo cominciavano a chiedere e poi pretendere il “bakscish”, l’elemosina, con forte insistenza quasi rabbiosa. In un momento dal nulla, mi trovavo circondato da diecine di persone che aumentavano velocemente di numero fino a diventare una piccola folla di postulanti. Talvolta me la sono vista brutta!
La polizia era molto dura e temuta: lo Scià, a seguito di numerose aggressioni mortali ai danni di altri viaggiatori come me, aveva istituita la pena capitale per arginare il fenomeno.
La cultura Islamica, che avevo cominciata a percepire in Turchia, qui si faceva pesante: la gente spesso mi guardava con una certa ostilità e mi resi conto che un qualunque pretesto, avrebbe potuto rappresentare un potenziale pericolo.
Smisi per precauzione di accamparmi dove capitava, e cercai di evitare gli spostamenti di notte, anche perchè i famosi camion enormi, in questo paese, non avevano inspiegabilmente i fari anabbaglianti, per cui la notte la gara era tra chi teneva accesi gli abbaglianti fino all’ultimo e chi li abbassava cedendo ed oscurandosi completamente, con l’enorme rischio di andarsi a tuffare in una delle improvvise enormi buche quadrate o di spalmare sull’asfalto un asino od un dromedario abituali passeggiatori notturni, o peggio ancora, qualche “stagionatore” di tappeti!
Era pratica comune lungo la strada, che venissero distesi sull’asfalto durante la notte, diecine a volte di tappeti nuovi ricoperti di paglia, sicchè dopo una notte di traffico pesante, gli stessi andavano nei bazaar per essere venduti a prezzo adeguato come tappeti antichissimi ai turisti Americani!
Man mano che procedevo verso Teheran, il paesaggio diventava sempre più arido: il clima estivo torrido, era caratterizzato dalla quasi totale assenza di umidità, con una traspirazione cutanea velocissima.
Non sudavo mai, all’improvviso però mi sentivo la lingua ruvida come carta vetrata e dovevo bere!
Lungo la strada, ad un certo punto, incontrai un rarissimo fiumiciattolo: un bagno! Si, subito il bagno!
Accostai in un luogo che sembrava appartato, mi “scollai” di dosso gli indumenti dopo aver scrutato intorno per essere sicuro che non ci fosse nessuno e mi tuffai con voluttà nell’acqua fresca e cristallina: Che godimento! Avevo con me il detersivo, quindi mentre sguazzavo come un bambino, feci il bucato: Ford da qualche giorno, dava segni di irrequetezza per l’odore!
Disposi al sole sui sassi circostanti il bucato ed ebbi la sensazione di sentirmi osservato, mi voltai: alle mie spalle si erano materializzati dal deserto una trentina di spettatori, alcuni con tanto di barba e turbante, altri con il tipico copricapo a papalina, alcuni in piedi con le mani dietro la schiena, altri accovacciati ed un intero gregge di capre!
Nudo come un bambino, subito ebbi la tentazione di tenere un comizio di benvenuto, poi invece con molta naturalezza raccolsi il bucato che in pochi minuti si era asciugato e diventato rigido come legno, mi infilai gli shorts e, senza applausi sgusciai dentro il furgone dandomi rapidamente alla macchia!
Erano rimasti talmente allibiti, che nessuno di loro emise il minimo suono, nemmeno le capre!
Quella che diventava sempre di più la mia preoccupazione, era la mancanza di notizie relative all’Afghanistan!

L’obiettivo finale del mio viaggio era l’India del nord, il Kashmir: se il confine Afghano fosse stato chiuso, avrei dovuto decidere di fare il giro da sud-est, attraverso il deserto del Baluchistan iraniano, per entrare direttamente in Pakistan e risalire fino a Lahore. Certamente ciò avrebbe complicato non poco il programma!
Raggiunsi Teheran, dopo un viaggio estenuante e cercai subito l’Ambasciata Italiana per chiedere se avessero notizie per me, da parte dei miei (avevamo stabilito prima della partenza, che ogni qual volta mi sarebbe stato possibile, avrei inviato loro un telegramma con l’indicazione della successiva tappa, in modo che potessero sapere dove mi trovavo ed
eventualmente comunicarmi notizie presso le ambasciate successive).
Purtroppo le notizie sull’Afghanistan non erano buone!
Mario, l’addetto all’Ambasciata Italiana, dopo avermi apostrofato in ogni modo possibile in un impeccabile napoletano di Mergellina, mi riferì che la frontiera Afghana era chiusa a tempo indeterminato e che quindi non mi restava altro che interrompere il programma!
Lui escludeva assolutamente l’ipotesi di attraversare il Baluchistan: strade fatiscenti spesso da grossi offroad, bande di predoni sconfinati dall’Afghanistan che aggredivano, depredavano ed uccidevano i malcapitati in cui si imbattevano (mi disse che erano dati per dispersi quattro francesi con un camper, da una settimana) e quindi mi fece cadere il cuore negli slip!
Nel dubbio, decisi di prendere tempo, che era l’unica cosa di cui potevo non fare economia e mi diressi verso sud: Teheran mi aveva deluso, una versione surreale a metà tra Milano e New York, nel mezzo del deserto ed attorniata da una periferia enorme di casupole di fango e miseria; un grande bluff di regime!
Mi fermai a Qom, cittadina molto bella anch’essa nel deserto, dove visitai (sempre dall’esterno naturalmente) la bella moschea. A Qom, incontrai un gruppo di tecnici petroliferi spagnoli, gente simpatica, i quali trovandosi laggiù da alcuni mesi, avevano una certa familiarità con i luoghi e mi fecero visitare alcune artigiane che tessevano i famosi tappeti in seta e li annodavano a mano in modo tradizionale.
Le ragazze più giovani, aiutate dalle bambine che seguivano le tinture vegetali delle fibre, tramavano ed annodavano il tappeto, (per alcuni dei quali erano necessari anche sei sette anni di lavoro), dietro progettazione e direzione del “maestro annodatore” , mentre in un’altra stanza le donne più anziane (40-50 anni) ormai quasi cieche per gli sforzi ai quali avevano sottoposti gli occhi in anni di annodatura, in locali chiusi e quasi completamente bui, si occupavano della rifinitura dei bordi; fuori gli uomini li lavavano e rasavano. Proseguì per Isfahan.
Bella città, dal clima caldissimo ma ventilato la notte, nella quale andai a vedere la meravigliosa Moschea blu: uno dei monumenti religiosi tra i più belli e sfarzosi che abbia mai visti.
Ad Isfahan mi concessi un regalo: andai a dormire in un Albergo dove potei lavarmi e dormire in un letto quasi normale.
Era un Albergo molto modesto, molto al di sotto delle pensioncine da coppiette delle nostre grandi città, tuttavia l’assuefazione progressiva ad i luoghi lo trasformò ai miei occhi in una stanza dello Sheraton!
Dovevo prendere una decisione! Era trascorsa quasi una settimana da quando avevo lasciata Teheran e dovevo decidere se proseguire verso sud-est per tentare di attraversare il Baluchistan, oppure tornare a Teheran nella speranza che vi fossero buone notizie dal confine Afghano: stò c…o di Mario mi aveva messo seriamente in crisi!
Fui colto da un attacco di buonsenso, che per un certo periodo di tempo mi fece sentire un pò codardo e quindi decisi di rientrare a Teheran!

Purtroppo non c’erano novità sulla frontiera Afghana, tutto era bloccato, le poche notizie parlavano di grande confusione; nel Camping dove mi ero fermato, alcuni ragazzi tedeschi che erano riusciti ad uscire dal paese fortunosamente, mi raccontarono di bande di “guerrieri” più propriamente predoni a cavallo, che imperversavano, armati fino ai denti con le loro scorribande, approfittando della situazione: loro stessi erano stati “fermati” nei pressi di Kandahar da alcuni soldati, malmenati e derubati di tutto! Francamente, le mie speranze si affievolivano e tra le altre cose, Ford mi preoccupava un pò: durante il ritorno a Teheran percorrendo un tratto in salita, si era messo a singhiozzare e si era fermato proprio in una lunga galleria buia  trafficatissima ed un gigantesco “Mack” mi aveva fatto vedere il bulldog che aveva sul tappo del radiatore, talmente da vicino che mi sembrò che ghignasse! Fortunatamente dopo poco, evidentemente raffreddatosi, riprese a marciare portandomi fuori. E’ stata, quella volta, veramente la più vicina alla tragedia!
Ford era costato poco poichè era un modello inglese, aveva infatti la guida a destra, cosa che pensavo mi avrebbe fatto comodo sulle strade indiane, ma era sostanzialmente del tutto differente nella meccanica dal modello tedesco, del quale invece ne circolavano moltissimi esemplari!
Aveva la pompa della benzina posta in basso, dietro al radiatore dell’acqua ed il coperchio della pompa era di materiale trasparente, evidentemente allo scopo di poter controllare il flusso del carburante. Quando si fermò di nuovo, questa volta all’aperto, ma sempre sotto sforzo in salita, mi accorsi che la pompa era vuota ed il carburante gorgogliava vaporizzandosi: la
temperatura ambientale era elevatissima!
Avevo notato che tutti i camions avevano il cofano semiaperto per aumentare il raffreddamento, alcuni lo avevano addirittura sostituito con uno fatto a rete, in ferro battuto.
Mi procurai due pezzi di legno uguali, e li inserì tra la scanalatura ed il cofano legandolo alla griglia della mascherina, rialzandolo così di circa 10 centimetri, feci una specie di imbuto piatto sacrificando una tanichetta di
plastica, che fissai tra il cofano ed il vano motore, gli applicai un pezzo di grosso tubo che avevo tra i ricambi e fissai con del fil di ferro l’altra estremità del pezzo di tubo, in corrispondenza della pompa della benzina:
avevo inventato un sistema di raffreddamento forzato! Decisi che al ritorno avrei ceduto il brevetto alla British Ford!
Il mio unico amico, gradì molto l’intervento di plastica funzionale e per lungo tempo non avanzò altre richieste!
Ripartì da Teheran, dopo essere passato a fare il pieno dei nuovi improperi da bufalo campano dell’amico Mario “chez” l’Ambasciata Italiana e diressi il muso ristilizzato di Ford verso nord: obiettivo Gorgan sul Mar Caspio!
Man mano che mi dirigevo verso nord, la temperatura esterna diventava sempre più umida ed afosa, fino a diventare fastidiosamente di tipo tropicale!
L’ambiente era ricco di vegetazione rigogliosa e verde, completamente diverso da quello polveroso ed arso che avevo lasciato alle mie spalle. Gorgan, una ridente cittadina situata in una baia sul Mar Caspio, vicinissima al confine con il Turkmenistan Sovietico era famosa per essere la spiaggia degli Iraniani “bene”: volevo vedere come facevano il bagno con tutte le loro “mandrappe” le Iraniane “bene”!
Oltretutto tale percorso non mi portava fuori strada, poichè il prosieguo di tale arteria, si ricollegava a nord-est alla international highway per Mashad.
Il mio amico Mario era sicuro di avermi finalmente persuaso a mollare: ma si sbagliava!
Le donne iraniane si immergevano completamente vestite e frequentavano spiagge riservate, per cui la loro tintarella, peraltro superflua, visto il colore olivastro naturale della loro pelle, si limitava alle mani ed ai piedi!

Ero molto deluso, poichè il desiderio di “carne umana” era nel frattempo diventato pressante, quasi imperioso! Non che sperassi di avere un flirt con la prozia di Khomeini, ma speravo almeno di incontrare una compagna di
percorso…!
Purtroppo non ero sulla riviera romagnola!
Feci anch’io qualche bagno nelle acque scure del Caspio, sia per il calore insopportabile, sia per aggiungere alla mia collezione, una bagnata alle p..le anche in quelle acque.
Molto positiva fu la conoscenza di Alì, un iraniano simpaticissimo e sicuramente straricco (era vestito e pettinato alla “Little Tony” compresi occhiali da sole e macchinone convertibile americano) il quale certamente non poteva soddisfare le mie esigenze corporali per incompatibilità assoluta sull’argomento, però mi condusse in un localetto proprio sul mare dove feci una tale scorpacciata di caviale nero, da peggiorare gravemente le mie necessità e da viaggiare per due giorni su percorsi costellati da toilettes, nonostante il caro bimixin!
Egli mi raccontò a lungo, ammiccando in continuazione, delle sue avventure erotiche iraniane, lasciandomi intendere che se fossi rimasto più a lungo…. La sua naturale simpatia verso gli Italiani era dovuta al fatto che aveva frequentato per alcuni mesi, un college di Firenze, presso il quale aveva affinato il suo eccellente….inglese!?!
Avevo altro per la mente, che rischiare di finire con qualche “amato bene” amputato, per colpa di un galletto probabilmente conta-balle! Mi lasciai alle spalle Gorgan, le sue mollezze, le sue delusioni ed una per fortuna breve traccia di dissenteria e giunsi al bivio: a destra Teheran, a sinistra Mashad ed il confine afghano! Che avreste fatto al mio posto?
Le montagne degli altopiani Iraniani, sembrano piccole piccole in fondo alle spianate desertiche, mentre in realtà sono altissime, solo che distano diecine e diecine di chilometri! Esse si estendono fino alla catena dell’Hindukush che attraversato l’Afghanistan, si alza fino in cielo con la catena dell’Himalaya.
Asini e dromedari, pascolavano liberi tra gli sterpi, mentre qualche pastore dormiva disteso sul terreno avvolto in pieno sole dal suo mantello nero di pura lana!
Ogni tanto una carovana di dromedari, con i basti talmente grandi per il carico, da essere scambiati per gigantesche fascine con le zampe! Di gran lunga peggiore la professione di somaro: i poveri animali, vittime mondiali della mancanza di un loro sindacato, erano sovraccaricati in modo tremendo tanto da lasciare stupiti per la loro resistenza allo sforzo.
A perdita d’occhio, deserto, delimitato sullo sfondo dalle montagnette, e movimentato da improvvisi piccoli tornados che nascevano e si spegnevano in poche centinaia di metri.
Spesso apparivano le illusioni ottiche tipo miraggio, con le false immagini di laghi o di mare.
Sole, caldo, caldo e poi ancora sole per chilometri e chilometri: ogni tanto un villaggio di fango e sassi che avrebbe reso felice un architetto ambientalista per la sua quasi totale invisibilità, tanto era incastonato nell’ambiente circostante, attorniato dalle mura di protezione che delimitavano i caravanserrai!
Le carovane dei nomadi, erano quelle che più di ogni altra cosa mi riempivano di curiosità: il loro errare perenne, senza una meta definita e sempre alla ricerca di un luogo che, per tradizione millenaria, non devono trovare mai!
Ogni tanto uno dei loro accampamenti, costituiti da tende marrone scurissimo con gli animali che pascolavano liberi all’intorno!
Il loro fascino mi colpiva enormemente, come le leggende che si raccontavano e si raccontano su di loro, tanto che ad un certo punto, con enorme disappunto di Ford, il terreno mi sembrò abbastanza favorevole e mi esibì in un improvvisato fuori pista, dirigendomi verso l’accampamento che distava qualche centinaio di metri dalla strada!
Fermai Ford, per precauzione, ad una cinquantina di passi di distanza: non sapevo che genere di accoglienza avrei ricevuta e volevo avere il tempo di poter trovare una via di scampo, se si fosse messa male!

Nessun movimento! attorno alle due tende, pascolavano tranquille alcune capre con i capretti belanti: un dromedario con il solito sguardo da maggiordomo inglese, mi squadrò per un attimo e poi riprese a pascolare indifferente.
Mi sembrò di scorgere qualche movimento all’interno di una delle tende e quindi decisi di scendere: feci appena in tempo a mettere i piedi sul terreno polveroso, che una specie di orso bianco con lo sguardo da “duro” sbucò da dietro la tenda e mi corse incontro abbaiando in tono deciso e minaccioso! Risalì come il vento su Ford senza fare complimenti!
Era un animale splendido! Di taglia molto grande, più o meno come un Sanbernardo, ma completamente bianco, pelo raso, orecchie tagliate alla base e coda tagliata per i due terzi.
Si fermò di scatto come un toro nell’arena sollevando una nuvola di polvere: gonfiò il collo poderoso, protese in avanti il muso  pieno di segni di vecchie ferite di battaglia e si piantò saldo sulle forti zampe in atteggiamento di sfida e di avvertimento !
Non riuscivo ad avere paura di quella specie di macchina da guerra, tuttavia non pensai neanche per un momento di sfidarlo scendendo: lui non scherzava!
Quello era il suo lavoro e si vedeva subito che era un eccellente lavoratore!
Trascorsero in tutto tre o quattro minuti , stavo per andarmene, quando dalla tenda uscì un uomo: richiamò a sè il cane con un verso deciso ma senza gridare. Il fedelissimo, gli corse volentieri incontro e si accucciò mugolando vicino a lui ma in modo tale da restare sempre frapposto tra me e lui. Ansimava per il forte calore lasciando intravedere i suoi canini bianchi e poderosi.
L’uomo fece un cenno con la mano, che, tradotto in Italiano, poteva significare o “che c…o vuoi?” o “ma che stai facendo lì!”.
Tradussi nel secondo modo!
Brandendo una tanica vuota che avevo preparata come alibi in precedenza, smontai senza distogliere lo sguardo dal cane, che sembrava non accorgersi più di me, e gli feci segno con l’indice ed il pollice verso la bocca che volevo soltanto un pò d’acqua: da quando l’uomo esiste sulla faccia della terra, nessuno ha mai negato a nessun’altro un pò d’acqua, perfino in un bar di Milano centro! Quindi, sicuro della mia premessa, accennai a muovermi verso di lui.
Era un ometto nerboruto, magrissimo, con un bel volto pieno di rughe nelle quali vidi per un attimo il sole ed il vento dei deserti; aveva  baffoni folti e ben curati separati da una barba riccioluta molto lunga sul mento.
Era vestito con una lunga camiciona grigia sui pantaloni scuri, ed un gilet scuro. Sul capo torreggiava un magnifico turbante bianco, di un bianco unico al mondo!
Mi guardava attraverso le due fessure strettissime che gli tagliavano gli occhi: aveva un atteggiamento fiero ma non ostile, calmo e mi sembrò disponibile.
A pochi passi da lui, mi portai la mano destra sul cuore con un leggero inchino e gli dissi “Allah Ismahal a deh” (suonava così, ma non credo che l’ortografia sia corretta), era il dolce rituale con il quale tutti da quelle parti si
salutavano incontrandosi: Che Allah ti protegga!
La mia iniziativa ebbe un effetto magico: egli mi si fece incontro superando il leone che continuava ad ansimare del tutto indifferente, mi venne davanti e ripetè il mio cerimoniale aggiungendo una serie di parole citate in tono
caldo ed accogliente, che non sò cosa avrei dato per poterle capire!
Probabilmente anche lui, intuendo le mie intenzioni pacifiche e rassicurato dalle parole “casalinghe” che gli avevo rivolte, era risollevato e tranquillizzato.
Mi fece cenno di entrare nella sua tenda ed io lo feci, però prima mi tolsi le scarpe in segno di rispetto: forse sarebbe stato più rispettoso se le avessi tenute ai piedi, visti i vapori che annunciarono il mio ingresso!
La mia preoccupazione fu subito tranquillizzata dal fortissimo odore di stalla che impregnava il tendone ed il tappeto che ricopriva una parte del terreno.
L’interno della tenda era spoglio e disadorno, assolutamente diverso da quello che si vede nei films a tema, con tappeti preziosi, vasi di ottone, vassoi di frutta, lucidi capretti arrostiti ed odalische ammiccanti dietro ai veli. L’odore di stalla era soffocante, avrei voluto portarci dentro Ford perchè la smettesse di lamentarsi : l’unico beneficio era l’ombra poichè il calore era quasi insopportabile. Intorno poche povere cose ed in un angolo un giaciglio che sicuramente fungeva da alcova durante le lunghe notti. Omar, così si chiamava, si accovacciò sui talloni al centro del ruvido tappeto con aria ingenuamente ufficiale, ma con dignità e mi fece cenno di sedermi a mia volta. Nessun altro cenno di vita, al di fuori di qualche ondeggiamento silenzioso e furtivo del telo che mi fece supporre che qualcuno ci stesse spiando.

Guardandomi negli occhi con fermezza, disse ad alta voce alcune parole chiaramente non rivolte a me, quindi cercò di farmi capire qualcosa che non potei comprendere.
Dopo qualche minuto un pò imbarazzante durante il quale ad i miei sorrisi lui rispondeva muovendo piano il capo in segno di assenso, un’ombra furtiva, un fantasma, completamente ricoperto da un abito scuro lunghissimo, entrò quasi strisciando, trattenendo con i denti davanti al viso un lembo del velo che le ricopriva il capo: vidi per un attimo due occhi neri carbone senza età, mi sfiorarono senza toccarmi, vi colsi un lampo di triste ed antica sottomissione; depose rapidamente una theierina di rame , due bicchierini dietro ed un piattino con delle scaglie di zucchero non raffinato davanti a noi per terra sul tappeto e scomparve frusciando silenziosa!
Omar mi versò il chay bollente, ne versò per se, si mise in bocca un pezzetto di zucchero duro come il marmo e cominciò a sorseggiare il the invitandomi con un breve cenno a fare altrettanto.
Era thè nero, molto forte con un profumo di affumicato: scoprì il “trucco” del pezzo di zucchero in bocca , infatti la saliva assieme alle sorsate di thè bollente ne scioglieva ogni volta quel tanto che serviva ad addolcirne il gusto.
Mentre “parlavamo” a gesti, fuori dalla tenda si udì un certo trambusto, mi spostai su di un lato per controllare che qualcuno non stesse molestando Ford e vidi due ragazzini che avevano afferrato per una zampa un capretto e mentre uno lo tratteneva, l’altro lo sgozzava con una rapidità e naturalezza che mi lasciarono sorprendentemente indifferente alla violenza dell’azione!
Dopo un’oretta, la solita ombra di prima ricomparve: aveva un grande piatto di metallo sulle mani, nel quale sopra un letto di riso ( se non conoscete il gusto del riso Iraniano non conoscete il gusto del buon riso) giacevano i pezzi del fu capretto bollito. Omar prese un’altro piatto, vi mise con le mani una parte del riso ed alcuni pezzi di carne, li porse alla donna che sparì per sempre come in un incubo!
Mangiammo in silenzio, Omar raccoglieva con la punta delle dita il riso verso il bordo del piatto, con il pollice lo comprimeva contro le altre dita e lo portava alla bocca con gesti abituali per niente volgari.  Feci altrettanto stando attento a ripetere esattamente i suoi movimenti: è un attimo in un paese tanto diverso, fare qualcosa che per noi è usuale mentre per loro è magari offensivo.
Finito il pranzo, bevemmo il chay rimasto e con un certo imbarazzo riuscì a fargli comprendere che dovevo riprendere il mio cammino: Omar si alzò per primo e quando mi alzai anch’io, si portò nuovamente la mano sul cuore e mi augurò
di fare un buon viaggio sotto la protezione di Allah, od almeno così credo. Vicino a Ford trovai la tanica piena d’acqua, il leone era sparito, probabilmente era in giro per procurarsi a sua volta un pasto decente.
Partì! Omar era davanti alla tenda , dietro di lui erano comparsi quattro o cinque bambini, il fantasma e due fantasmine più giovani, due adolescenti: alzai il braccio in segno di saluto e contravvenni alla promessa fattami in Turchia di non suonare mai più il clackson! Mi risposero tutti agitando piano le braccia, mi si strinse il cuore per un momento: ero felice! Non tanto per quello che avrei potuto raccontare agli amici al ritorno, quanto per la serenità che avevo ricevuta da quei poveri gesti di amore ed ospitalità senza interessi! Serrai  fra le mani il volante di Ford, mi asciugai gli occhi e ripresi la strada per Mashad: l’indicazione successiva mi avvertiva che ormai mancavano 38 chilometri!
A Mashad tirava un’aria diversa!

Mashad è una delle città sante dell’Islam, meta di pellegrini  Sciiti provenienti da tutto il mondo islamico: per le strade affollatissime, percepivo un’atmosfera di tesa concentrazione da parte della gente ed avevo la netta sensazione di essere un intruso! La diversità dalla loro media della mia statura decisamente alta, la corporatura robusta, la pelle e gli occhi chiari, i capelli castani, mi mettevano in risalto come un negro nudo sulla neve e quel che è peggio ero scambiato per un Americano: proprio il fenotipo che a loro stava maggiormente sul gozzo! Cercando di apparire il più possibile innocuo e disinvolto, mi aggiravo curioso per le strade del centro: volevo comprare dei turchesi che, mi avevano detto, a Mashad sono i più pregiati del mondo e costano pochissimo, così al ritorno avrei potuto rivenderne una parte e recuperare un pò delle spese di viaggio,
ma principalmente desideravo vedere la grande Moschea che, dalle foto che avevo esaminate prima della partenza, sembrava bellissima! Mi fermai in una “Turquoise factory”di Stato: mi aveva consigliato un ragazzotto che faceva il custode al campeggio, dove mi ero fermato, di non fidarmi dei negozi sparsi a diecine per la strada e di cercare quelli ufficiali. Nonostante questa garanzia, mi aveva insegnato un trucchetto per riconoscere i puri e distinguerli dai sintetici, di plastica dura per intenderci!
Mi accolse sorridente uno dei commessi: il negozio era in tono con l’atmosfera “mittel-asiatica” dell’insieme, arredato con i colori sgargianti tipici del gusto orientale, era tuttavia abbastanza curato ed elegante o perlomeno così mi apparve dopo giorni e giorni di polvere, pressapochismo e generalizzata strafottenza formale.
Parlava un inglese molto approssimativo ma efficace: gli spiegai cosa cercavo ed egli, con professionalità, senza perdere il tempo a mostrarmi le pietre già montate, tornò con alcune scatole contenenti svariate grandezze di turchesi a suo dire purissimi tagliati a “cabouchon”, ancora incollati al bastoncino di legno che era servito come impugnatura durante la loro molatura e levigatura. Scelsi un centinaio di quelli più adatti alle mie risorse che costavano 1 dollaro l’uno (all’epoca il dollaro quotava 550 lire!!!). Il commesso cercò frettolosamente di metterli in una scatola più piccola per me, ma il suo modo di fare diventato sbrigativo non mi convinse, quindi gli dissi che preferivo staccarli dai bastoncini di legno per tenerli nella tasca dei pantaloni in un sacchetto di plastica: sarebbe stato più sicuro e meno ingombrante!
Così dicendo, cominciai a staccare le pietre ed a guardarne il retro una ad una: la vena di turchese è attraversata da molte impurità costituite da minerali di nessun valore.  I commercianti, comperano i blocchi di turchese alle miniere,
poi li fanno tagliare e lavorare. Naturalmente buona parte dei blocchi nel loro interno, spesso contengono tali impurità, quindi gli esperti lavoranti, tagliano il minerale di nessun valore lasciando sulla sua superficie uno strato sottile di turchese, quindi lo molano e lucidano talchè visto dal davanti appaia come una pietra pura invece in realtà è di nessun valore!
Il commesso preso alla sprovvista trasalì e con aria confidenzialmente amichevole mi disse a bassa voce avvicinandosi: “aspetti un momento, ho visto che lei ne capisce di turchesi, allo stesso prezzo gliene dò di migliori!”, raccolse in fretta i bastoncini e ritornò con un’altra scatola.
Gli domandai affabilmente:” è vero che per vedere se il turchese è puro bisogna bruciarlo con una fiamma?” ed intanto avevo tirato fuori l’accendino: gli si spense il sorriso sulla bocca e senza rispondermi ritornò con un’altra scatola ancora.
Uscì dalla factory con un sacchetto di purissime noccioline color turchese nella tasca!
Ero soddisfatto per il modo in cui avevo gestita la cosa, non è facile non farsi fregare da quelle parti: questa volta avevo vinto io!
Voltai l’angolo e si aprì d’avanti a me uno spettacolo: La Moschea D’oro!
Gli ingressi erano quattro, uno per ogni punto cardinale, nel simbolico atteggiamento di accogliere i pellegrini da qualunque direzione essi provenissero.
Ognuno degli ingressi aveva una gigantesca “porta” sormontata da un arco e tempestata di piccole pietre di turchese, il colore favorito di Allah, tra le quali erano incastonati a mosaico motivi floreali e rappresentazioni di scene del corano color oro, bianco e blu scuro. Attraversandola si accedeva ad un vastissimo cortile circondato ai lati da muri altissimi con sullo sfondo l’ingresso vero e proprio della Moschea, il tutto rivestito dagli stessi colori e dagli stessi motivi: il pavimento avrei dovuto inventarmelo poichè il cortile era gremito da migliaia di pellegrini.
Sormontavano la Moschea cinque cupole, quattro più piccole che corrispondevano ai quattro ingressi ed una enorme centrale: le cupole erano interamente color oro con fregi bianchi alle basi e qualcuno diceva che fossero veramente ricoperte da foglie d’oro! La mia “voitglander” era rovente ed io tentavo di trovare le inquadrature migliori per poter fissare sulla pellicola le immagini nel modo il più possibile rispondente alla realtà! Già la presenza di un turista fotografaro dall’aspetto, suo malgrado, americaneggiante suscitava una certa irritazione, quando poi senza volerlo, poichè sapevo che l’ingresso nella Moschea era rigorosamente interdetto ai non musulmani, e sospinto dalla folla ne varcai la soglia della porta esterna accadde il pandemonio!
Alcuni scalmanati alle mie spalle, che evidentemente mi stavano tenendo d’occhio da un pezzo, cominciarono a gridare additandomi: in un attimo si creò un cerchio strettissimo attorno a me e con una fulminea reazione a catena tutti coloro che mi circondavano cominciarono a spintonarmi gridando con gli occhi fuori dalle orbite per l’indignazione! Era inutile evidentemente che tentassi di spiegarmi, quindi proteggendomi alla meglio con le braccia sulla testa, sulla quale era nel frattempo arrivato qualche bel cazzottone, ipocritamente ricordai che anch’io avevo il mio Dio con lo stuolo dei Santi e molto tra me e me, mi misi a pregare: evidentemente qualcuno mi ascoltò, poichè fortuna volle che nelle vicinanze ci fossero alcuni poliziotti i quali attirati dal tumulto, si fecero strada in mezzo alla folla e continuando a picchiarmi e spintonarmi a loro volta, per ottenere l’approvazione dei circostanti che li lasciarono fare, mi trascinarono via come un pericoloso terrorista!
Fuori dalla calca, i poliziotti mi chiesero di esibire il passaporto, cosa che puntualmente feci: uno di loro che era, poveretto, anche il più sfortunato a causa di una grossa voglia violacea e bitorsoluta che gli deturpava un occhio, parte del naso ed il labbro, mi si piantò davanti a gambe larghe e mentre gli altri cercavano di capire di che marca fossi, continuava a parlarmi in tono minaccioso agitando lo sfollagente; credo che mi stesse enunciando il menù offerto dalla casa!
Improvvisamente gli altri si riavvicinarono bruscamente con il passaporto aperto in mano ed istintivamente mi riparai nuovamente la testa con le braccia , invece non arrivò nessun colpo: “are you Italian?” mi chiese uno di loro, “Italian?” gli fece eco l’altro: “yes, yes, I am Italian!” mi affrettai a rispondere, ma non sapevo se la mia risposta era quella giusta!
“Where is your car?” fecero, indicando il visto doganale d’ingresso di Ford stampigliato sul passaporto “is at the Camping” risposi, infatti avevo chiesto ad alcuni ragazzi Francesi che sostavano accanto a me nel campeggio, un passaggio per il centro, per evitare di lasciare incustodito Ford e quindi la mia casa, per la strada.
Si guardarono tra loro delusi, si dissero qualcosa di incomprensibile in Pharsi, poi il “vogliato” mi fece cenno di andarmene facendomi schioccare il passaporto sul palmo della mano. Non dissi loro “Allah Ismahal a deh” poichè
nutrivo seri dubbi sull’opportunità di farlo, dissi solo “Teshekur”, grazie, e mi allontanai cigolando come una vecchia serratura arrugginita.
Mi tastai la tasca: le noccioline turchese c’erano ancora ed anche la “voitglander” che avevo istintivamente infilata nei pantaloni!
Feci in tempo per ritrovare i Francesi che mi aspettavano all’appuntamento: appena mi videro, senza notare che avevo la maglietta sbrindellata ed il labbro sanguinante, gridarono verso di me in anglo-francaise, “hey, tomorròw, the bordér is opén!”
Mi dispiacque molto per Omar, ma pensai fra me e me: via, via via, subito e di corsa! Per un attimo avevo assaporato in prima persona l’innesco di un linciaggio pubblico, e non lo avrei mai più dimenticato per la vita!
Al campeggio c’era aria di festa: la notizia che l’afghan border riapriva si era propagata immediatamente. Eravamo circa una trentina, io l’unico italiano. Oltre i francesi, ormai amici, Mark, Jean-Francoise, Michel e Claire la sua ragazza (molto carina e tenuta marcata strettissima!), c’erano altri francesi, alcuni tedeschi, tre spagnoli simpaticissimi ed un gruppetto di inglesi che faceva un pò parte a sè. Due ragazzi francesi, erano arrivati fin lì con una 2cv, alla quale avevano modificato il portellone posteriore prolungandolo con una scatola di metallo di una cinquantina di centimetri, per poterci stare distesi (!?): la 2cv però, esausta,aveva deciso di morire a Mashad, e loro, nel vano tentativo di rianimarla, avevano smontato cambio e motore che giacevano sotto forma di insalata meccanica in una scatola di cartone bisunta dietro alla povera vegliarda esanime!

Ogni tanto qualcuno di noi andava a rendere omaggio ed a spendere qualche parola di conforto, ma loro, per nulla affranti, si stringevano nelle spalle e si accendevano un ennesimo “joint” di “black afghan” che risolveva tutto almeno per un pò!
Ci eravamo seduti in circolo tutti in uno spiazzo tra i vari pulmini ed auto; prima, per festeggiare, avevo preparato agli amici francesi un ricco piatto di spaghetti aglio e olio col peperoncino iraniano che ci anestetizzò le labbra fino a quando non uscì ruggendo il mattino dopo: loro ricambiarono mettendo “in tavola” due irreali scatolette di “pathè de foies” che mangiammo avidamente con il tipico pane asiatico fatto a pizza ; ebbi un grave attacco di nostalgia per un bicchiere di vino, magari bianco e ben freddo!
Fumammo tutti al “kalumet” della fratellanza hippie, religiosamente confezionato da uno degli “orfani” francesi, ai quali andava indiscutibilmente il primato di grandi esperti nell’arte di bruciacchiare-sbriciolare-mescolare-arrotolare, secondo un rituale che prevedeva grande serieta’ e concentrazione da parte dell’officiante!
L’hashish ed ogni altro tipo di droga, era severamente proibito in Iran, per gli accordi intergovernativi con gli USA, tuttavia, poiche’ l’uso locale aveva tradizioni antichissime e non era “viziato” da storture socio-culturali come nel mondo “evoluto”, ufficiosamente era tollerato per gli anziani e quindi alla fine era facilmente reperibile: guai pero’ ad essere “pescati” dalla polizia, si rischiava un processo sommario e la detenzione, cosa assolutamente da evitare!
Uno degli spagnoli, raccontava la storia del cugino di una sua conoscente, tossico perso, che era stato beccato proprio alla frontiera di Mashad mentre cercava di far passare della “roba”dall’Afghanistan, era finito nel carcere locale e gli altri detenuti, dopo averlo sodomizzato a turno e fin qui nulla di nuovo, lo avevano sgozzato e mutilato, dopo averlo affogato nella latrina. Era un infedele, un “impuro”! Non aveva scampo!
La serata trascorse in allegria, tra gli scoppi di risate fragorose dilatate dagli effetti del “kalumet”:
lasciai libera la mia fantasia rilassato ed entrai  nell’atmosfera affascinante di quel mondo cosi’ lontano dal nostro, respirando intensamente il caldo profumo della notte d’oriente impregnato del fumo dei focolari e dalle piante di gelsomino che adornavano le mura esterne di molte case.
Il cielo era come solo laggiu’, pieno di stelle: si potevano senza difficolta’ ricostruire tutte le costellazioni astronomiche.
Pensai alla splendida Moschea di Mashad ed a quello che era accaduto, un bell’ematoma stava fiorendo sul braccio sinistro sul quale si era abbattuta qualche manganellata: mi era andata anche troppo bene, ma la rabbia era passata e con essa lo spavento!
D’altronde, a sbagliare ero stato io: avevo, anche se assolutamente in buona fede, commessa una infrazione grave delle loro regole antiche e, che piaccia o no, ciascuno a casa sua ha il diritto sacrosanto di scegliersi il modo di vivere, di pensare e di stabilire le regole che desidera vengano rispettate!
Mi addormentai profondamente mentre dal mangianastri di Ford i “Canned Heat” eseguivano il mio brano preferito:”On the road again”!
Il Consolato Afghano era situato in uno stabile recente, costruito un pò alla occidentale: sul davanti aveva un piccolo giardino con alte piante da ombra, che ne rendevano accogliente l’ingresso.
C’era una fila interminabile di gente, dovuta sicuramente al lungo periodo di chiusura delle frontiere, viaggiatori,camionisti, pellegrini: ci vollero circa tre ore di attesa.
Inaspettatamente, il Console Afghano era un distinto ed elegante signore sui 45 anni, vestito all’europea, indossava una camicia blu chiaro, che ne metteva gradevolmente in risalto la carnagione olivastra ed i denti bianchissimi, alto, magro, capelli neri ben curati: l’aspetto fresco e riposato, rivelava chiaramente che era in “ferie” forzate da un bel pò. Ci spiegò, che il confine era riaperto per favorire la ripresa del traffico commerciale, ma che lo sarebbe stato solo per due forse tre giorni alla settimana almeno per il momento e quindi di tenerlo ben presente in previsione del ritorno.
Espletate le solite formalità, uscimmo col visto di accesso per l’Afghanistan: era fatta finalmente!
Facemmo tutti scorta di carburante, presi alcune bottiglie di acqua minerale, comperai da un vecchietto accucciato per la strada tre o quattro pezzi del loro buonissimo pane quindi partimmo con grande eccitazione.
Si formò una lunga colonna, della quale entrarono a farne parte anche alcuni autobus zeppi di pellegrini ed alcuni grossi camion e ci dirigemmo verso la strada che conducava al confine di Stato, distante circa duecento chilometri.
Il paesaggio continuò a cambiare gradualmente , diventando sempre più sassoso e desertico, le carovane di dromedari ai lati della strada erano sempre più numerose e per un lungo tragitto non incrociammo alcun automezzo proveniente dalla direzione opposta. Finalmente cominciammo ad incontrare alcuni camion ed un pulmino di tedeschi i quali quando ci videro cominciarono a strombazzare e ad agitare le braccia fuori dai finestrini, sarebbe stato interessante sentire le loro notizie, ma nessuno di noi si potè fermare: cominciava a calare il sole e volevamo attraversare il confine con ancora la luce del giorno!
Per non perdere tempo in soste inutili, I tedeschi che avevo davanti avevano inventato il sistema per far pipì senza fermarsi, costituito da un imbuto ed un pezzo di tubo: quando vidi che lo facevano spenzolare dallo sportello socchiuso, rallentai per evitare l’onta a Ford, sollevai lo sguardo e vidi davanti a noi in lontananza un casotto con una sbarra che bloccava il transito; ai lati null’altro ed infatti le carovane in lontananza andavano e venivano indisturbate e tranquillamente da ambedue i lati, ignorando ogni controllo: era il confine Afghano!
La luce era bianchissima e radente, per cui le asperità del deserto ed in lontananza le montagne offrivano uno spettacolare gioco di ombre nette e lunghe, che mi fecero comprendere,  perchè quello era soprannominato: “il Paese del silenzio”!
Il primo segnale che quei ragazzi del “Pudding shop” di Istambul avevano ragione, arrivò quando il Soldato con la divisa blu scolorito, tipo meccanico di trent’anni fa, ci fece segno di dirigerci nel settore dei controlli: un altro ancora più sbiadito ci fece segno , imbracciando un mitra, di scendere dai nostri automezzi indicandoci l’ufficio del controllo documenti: “passport, passport” gridava con eccessiva minacciosità per darsi importanza e con la canna del kalashnikov ci indicava il percorso.

Obbedienti entrammo con ordine e formammo la terza fila di quella giornata.
La costruzione era al centro di un vasto piazzale delimitato da una fila di sassi, vi sventolava la bandiera dell’Afghanistan a fasce orizzontali, verde, bianca e nera: tutt’attorno il deserto e sullo sfondo le solite montagnette aguzze come quelle che si fanno con la sabbia bagnata sulla spiaggia. Da prima dell’arrivo al confine, il “vento dei cento giorni” teso e caldo, proveniente da nord-est di tramontana, aveva cominciato a soffiare a raffiche riempiendo tutto di polvere impalpabile, tanto che ero stato costretto a chiudere i finestrini. Sul piazzale si formavano mulinelli di sabbia ed i soldati dovevano trattenere il berretto con la mano perchè il vento non se lo portasse via.
I ragazzi del campeggio che avevano i capelli molto lunghi, avevano dovuto raccoglierli a coda di cavallo nascondendoli con un cappello: il Governo Afghano non dava il pass a chi esibiva capelli troppo lunghi!
In più, era necessario dimostrare di possedere almeno 8 dollari a testa per ogni giorno di permanenza richiesto, quindi alcuni si facevano prestare affannosamente da chi aveva già superato il controllo i dollari necessari per poter”comprare” qualche giorno in più di permanenza!
Se poi si era proprietari di un mezzo di trasporto la cifra saliva a 15 dollari. Claire e le altre ragazze, avevano indossati abiti molto accollati, lunghi e larghi e si erano coperto il capo con dei foulards annodati: il Governo Afghano non dava il pass alle donne vestite in modo ,secondo loro, non decente! (badate bene che i Talebani all’epoca erano attaccati ancora al biberon…).
Dalla porta d’ingresso si accedeva in uno stanzone scarsamente illuminato da piccole finestre alte con le inferriate, la volta “a botte”, stretto, lungo e scalcinato: in fondo c’era la porta dell’Ufficio Immigrazione.
La fila si stendeva lungo la parete fino all’esterno e due “sbiaditi” armati di moschetto sorvegliavano sospettosi che qualcuno non facesse il furbo.
L’ufficio era piccolo e sulla sinistra entrando c’era una scrivania con tre funzionari, due con abiti locali e piedi scalzi ed al centro il capo, in camicia bianca bisunta, pantaloni e baffetti da conquistatore, anche lui scalzo. In un inglese maccheronico, rivolgeva, stando seduto, le domande di rito, “do you have with you drugs, narcotics, are you supposed of making illegal activities in Afghanistan?”controllava la disponibilità dei dollari ed autorizzava il transito: questo per gli uomini.
Per le donne, si alzava in piedi sfoderando il suo miglior sorriso, con tono permissivo seguiva la prassi ed alla fine pretendeva di baciarle sulle guance una per una guardando i suoi vice orgoglioso e ridendo soddisfatto, quindi consegnava il permesso: a tutti diceva solenne”wellcome in the Republic of Afghanistan”.
Subito dopo la dogana, la international highway per Herat si riduceva alla larghezza di una delle nostre strade secondarie di campagna: due camion, incrociandosi, dovevano mettere le ruote di destra fuori strada per poter passare contemporaneamente.
Prima di imboccarla, subito all’uscita dello spiazzo, c’erano alcuni venditori di “prodotti tipici” Afghani, certi di incontrare i gusti di molti turisti in transito: un vecchio con una barba bianca candida lunghissima, turbante bianco e gilet nero, era accovacciato dietro il suo “banco” sul quale erano disposti cinque o sei pani grossi come un mattone, di hashish nero come il catrame che emanava fortissimo il suo caratteristico odore somigliante al rosmarino, prezzo: 5 dollari l’uno.  In Afghanistan, la “legge” proibiva la vendita di sostanze stupefacenti ma solo in pubblico, per cui, l’astuto, raggirava l’ostacolo …ricoprendoli con un velo di garza! Il suo vicino, più giovane, era molto più ammodernato e sotto il velo di garza, proponeva dosi di eroina purissima con tanto di cucchiaino e siringa di vetro immersa in un secchiello colmo di alcool sempre per 5 dollari: un’affare, per gli intenditori un vero affare! Dal produttore al consumatore rispettando la concorrenza sui prezzi!
Alcuni dei componenti della carovana, ne approfittarono per fare subito “uno spuntino”!
Purtroppo, molti di coloro che in quel tempo si spingevano fin là, lo facevano proprio e soltanto per questo: molti non ritornavano mai più o uccisi dalla droga o dagli stessi Afghani!
Quando i primi visitatori occidentali cominciarono a raggiungere l’Afghanistan dopo uno stage di “know how” alla “J. Keruack University”, mi raccontò in seguito Mohammed Omar, uno studente di Kabul con il quale instaurai un rapporto di buona amicizia, la semplice popolazione Afghana li accolse come extra – terrestri!
Tutti pensavano con rispetto e riverenza, che quella gente dalla pelle chiara, moderna, vestita in modo così diverso, dall’aria di grande superiorità e con molto più denaro di loro, appartenesse ad una razza eletta dalla quale imparare molte cose. Eppoi quegli stranieri avevano percorso per arrivare fino a loro, un viaggio lunghissimo, attraversando tantissimi paesi lontani e questo per gli Afghani che hanno il nomadismo nel sangue attaccato alle cellule staminali ed alla storia del loro Paese era di per se un grande motivo di onore e di rispetto!
Per i nostri audaci ed illustri predecessori, che in larga maggioranza si “facevano” di ogni tipo di droga dalla mattina alla sera, nessun problema almeno fino al giorno in cui i soldi si esaurirono e con loro anche la loro superficiale apparenza innovativa: cominciarono ben presto, secondo la “migliore” cultura occidentale della quale avevano creduto di potersi liberare troppo facilmente, prima a vendersi l’orologio poi a rubarsi denaro ed oggetti l’un l’altro, quindi le ragazze a prostituirsi agli altri viaggiatori per trovare di che mantenersi, risse, violenze, degrado, squallore e così via!
La solita storia insomma che si ripete tutti i giorni a Londra, New York, Milano e Parigi ecc. !
Tutto o quasi tutto si può fare ad un Afghano, fuorchè fargli fare la figura dello stupido! Per un popolo così fiero, orgoglioso e da sempre abituato a cavarsela con i propri poveri mezzi, fu una grave delusione, tanto che rapidamente la stima e l’ammirazione si tramutarono in disprezzo ed il senso iniziale di inferiorità in odio ed insofferenza!
Si sentì di aggressioni per le strade delle città, di delitti, di sparizioni ad opera di gruppi di Afghani ai danni di alcuni stranieri!
L’ incantesimo si era rotto e da quel momento il turista, rappresentò “il male”,”il vizio”,”l’intrusione” e sfido chiunque a dar loro torto!
Adattarsi, significa adeguare le proprie abitudini, necessità e risorse fisiche ed intellettuali alle situazioni ed ai luoghi che si incontrano, ogni qual volta essi mutano stabilmente: ogni adattamento è preceduto da un momento di percezione del nuovo, di critica e di stupore conseguente, quindi ci si adatta più o meno rapidamente a seconda delle predisposizioni individuali, del livello di cultura, della disponibilità di ciascuno di noi nei confronti di situazioni, luoghi e genti profondamente differenti rispetto a quelle che si incontrano abitualmente.

Da quando mi ero lasciate le coste italiane dietro le spalle, il mio spirito di adattamento era stato continuamente in evoluzione. La Grecia : la sua atmosfera da paese un pò di provincia con l’aria che sà di vecchi libri di storia , il “feta” e la cipolla dappertutto, i pomodori più buoni del mondo, poi la Turchia, un coerente gradino  più giù, soluzione di compromesso tra Occidente, Oriente e Paesi dell’allora URSS; primi segnali attenuati e frenati dalla rivoluzione di Ataturk di una cultura che vira verso l’Islamismo, le Moschee, i Bazaar, i turbanti diluiti qua e là nel formicaio di gente che va, che viene ininterrottamente con carichi enormi sulle spalle, il commercio di tutto dappertutto, lo sfarzo, la miseria, lo yoghurt, le spezie, il chay. L’Iran: serioso , scorbutico, nervoso, intransigente, essenziale, grandioso, deludente, per i malcopiati richiami d’occidente, questa volta diluiti nel disordine, nell’approssimazione, nelle etnie francamente asiatiche, in una cultura decisamente diversa, il pane, il riso, il profumo di legna bruciata, il deserto, i dromedari, i nomadi.
Credevo a quel punto di essere arrivato in fondo a quella sorta di “scivolo socio-culturale” , ritenevo di essere giunto stabilmente in piano e che le successive variazioni, seppur con sbavature diverse, avrebbero ormai seguita quella direzione: invece sbagliavo, non era affatto così!
L’ingresso in Afghanistan, rappresentò una clamorosa smentita alle idee che, nel tentativo di anticipare gli eventi e quindi predispormi al loro adattamento, mi ero precostituite! D’un balzo, dietro la curva, lo “scivolo” divenne un precipizio nel tempo e fui sbalzato indietro di almeno trecento anni : fu come aprire gli occhi e  ritrovarsi al centro della favola di “Alì Babà ed i quaranta ladroni” ; ebbi la sensazione di essere stato improvvisamente sbalzato fuori da una macchina del tempo!
E’ opportuno inserire, a questo punto del mio lungo racconto, un brevissimo “excursus” storico-sociale su questo paese, sulla sua storia, sui suoi usi e costumi piu’ diffusi, in relazione alle conoscenze acquisite tramite esperienze dirette ed indirette all’epoca in cui risale il mio viaggio. Non credo che siano mutate nel frattempo di molto : faccio questo, in primo luogo per aiutarvi a capire meglio il soggetto attorno al quale e’ articolata la mia esperienza ed, in secondo in segno di assoluto rispetto

verso una cultura antica ma viva , molto diversa dalla nostra ed a prescindere assolutamente, dalla condivisibilita’ o meno dei criteri sociali che tale cultura difende e professa. Cio’ anche  allo scopo di meglio chiarire le effettive responsabilita’ attribuite, con una certa superficialita’ e mancanza di informazione sugli antefatti, esclusivamente all’avvento dei Talebani: gli studenti di Allah. L’odierno Afghanistan nel secondo secolo a.C., fu sede del regno greco di Battriana e nel primo di quello Indiano del Kushan.
Tra il VII ed il IX secolo dopo Cristo, fu invaso dagli Arabi e venne islamizzato. Le dinastie musulmane dei Ghaznavidi e dei Timuridi, diedero un periodo di grande splendore a questo paese di nomadi, guerrieri ed abili mercanti.
Gli Afghani che diedero il nome al paese, arrivarono solo nel XVI secolo: La figura del leggendario condottiero Afghano, Babur, detto il conquistatore, fu di grande importanza storica per il paese. Attorno al 1526, egli guido’ l’invasione del sub-continente indiano dando origine a quello che sarebbe stato il nucleo del futuro impero Moghul destinato a durare per tre secoli e mezzo .
Nel 1747 l’Afghanistan divenne regno indipendente, staccandosi dalla oppressione persiana dopo anni di sanguinose lotte per la liberta’.
A seguito di due guerre, la prima dal 1834 al 1842 e la seconda dal 1878 al 1879, gli Inglesi riuscirono ad imporre all’Afghanistan un regime di semi-protettorato, fino al 1921, anno in cui dopo anni di inesauribile guerriglia,
L’Afghanistan ottenne dalla Gran Bretagna il riconoscimento della propria indipendenza, con la sottoscrizione del trattato di Kabul. All’inizio degli anni 20, nel 1926, fu proclamato primo re dell”Afghanistan il sovrano Amanullah, che tento’ di modernizzare il paese con una serie di riforme che incontrarono una strenua resistenza da parte delle tribu’ che costituivano
la maggioranza piu’ antica e tradizionalista della popolazione. Il paese fu insanguinato per anni da furibonde guerre tribali fino
all’avvento del re Mohammed Nadir ed in seguito di colui che fu l’ultimo re dell’Afghanistan Mohammed Zahir, i quali riuscirono a riappacificare fra loro i capi delle tribu’.
Tuttavia l’influenza politica dei religiosi (Mullah) e dei capi tribu’, sobillata e finanziata  anche da potenze straniere, aumento’ sempre di piu’, fino al 1973 anno in cui la monarchia fu deposta con un colpo di stato, re Zahir esiliato e proclamata una nuova Repubblica Presidenziale che duro’ pochissimo, fino al colpo di stato militare appoggiato dall’URSS che fece
nominare Presidente del nuovo governo il famigerato Najibullah.
In Afghanistan sono rappresentati cinque ceppi razziali predominanti: i Tagiki, gli Uzbeki, i Ghirghisi i Pharsi ed i Turkomanni. La popolazione e’ prevalentemente discendente da tradizioni nomadiche  per cui ci sono, sparse nel territorio, centinaia di tribu’ distinte tra loro, con regole da”mini-stato” , ciascuna con il suo capo che ha poteri indiscussi di vita o di morte sugli altri componenti della tribu’ stessa, secondo le leggi del Corano e delle specifiche tradizioni tribali. Le tribu’ hanno un solo punto in comune tra quasi tutte loro capace di unirle, seppur temporaneamente, contro qualunque nemico esterno: l’Islam!
In realta’, esisterebbero le leggi dello stato, ma gli Afghani non le praticano ne’ rispettano: sono osservanti solo delle ferree tradizioni tribali e religiose che costituiscono l’unica legge riconosciuta e rispettate da questo popolo. I capi delle tribu’, una volta all’anno, si riuniscono tutti in una regione del  nord -est, ai confini con Cina, Pakistan e regioni dell’ ex URSS: il Pamir.
La donna Afghana, ma anche la Pakistana e fino a qualche tempo fa l’Iraniana, e’ considerata come un essere inferiore, destinato alla trasmissione del ceppo maschile ed alla soddisfazione di tutte le esigenze dell’uomo e del resto della famiglia: essa viene acquistata dai parenti dello sposo, dopo contrattazioni lunghissime ed a prezzo tanto maggiore quanto piu’ giovane e’ l’eta’, sicche’ e’ regola che i vecchi mercanti, ricchissimi, abbiano mogli giovani e belle mentre gli uomini giovani
raramente possono sposarsi. Tutte le spese del matrimonio, compresi gli abiti da cerimonia per tutti i parenti della sposa, spettano alla famiglia dello sposo: dopo la puberta’, la donna non puo’ piu’ mostrare in pubblico alcuna parte del suo corpo, non ha alcun diritto da vantare, ne’ legge che la tuteli e solo il sospetto della sua infedelta’ e’ legittimamente punibile con la
pena di morte mediante pubblica lapidazione. (n.d.a.:ho assistito personalmente ad una di queste “esecuzioni). Presso alcune tribu’ se un’altro uomo la vede in volto, il marito offeso ha il diritto di uccidere sia lui che lei.
La prostituzione esiste, ma le donne che si prostituiscono, quasi sempre o malate di mente, o con gravi deficit fisici o costrette dalla fame, non hanno diritto di entrare nelle citta’ o nei villaggi ne’ di avere contatti con i parenti e vivono segregate per sempre in accampamenti fuori dai centri abitati, alla merce’ di ogni tipo di violenze, tra rifiuti e branchi di cani randagi, e
considerate alla loro stregua: per il Corano sono esseri impuri. (Alle porte di Kabul, esisteva uno di questi campi allucinanti)
L’omosessualita’, intesa secondo il nostro concetto, non esiste: tuttavia essa e’ normalmente e largamente praticata senza remore alcune, dagli adolescenti e dai giovani, che in tal modo si “aiutano” scambievolmente a sopperire all’assoluta impossibilita’ di avere contatti fisici benche’ minimi con l’altro sesso.( n.d.a.: d’estate gli Afghani, trascinano sul
bordo della strada le loro stuoie e dormono per terra all’aperto: camminando per la strada di notte, ho visti moltissimi ragazzi che si sodomizzavano a vicenda senza particolare pudore) L’Afghano, che sta’ al centro del suo mondo dopo Allah, e’ in perenne competizione fisica e mentale con i componenti delle altre tribu’: il suo “sport” preferito e’ infatti la lotta.
Lotta significa per lui combattimento tra tutti gli esseri viventi in grado di farlo: dromedari, cani, asini, cavalli,capre, galli, pernici e naturalmente uomini. Soltanto per gli uomini non e’ previsto l’ultimo sangue!
Sono specialisti abilissimi e con tradizioni antichissime, nel dressaggio, nell’allevamento e nell’addestramento al combattimento di tutti coloro, siano essi uomini od animali, che partecipano ai combattimenti.
Durante le lotte, che sono sempre tra avversari che rappresentano tribu’ diverse, le tribu’ si riuniscono al completo in un grande spiazzo e gli spettatori scommettono con accanimento sul vincente o sul perdente, quindi e’ facile immaginare come molto spesso l’atmosfera si surriscaldi e qualcuno o piu’ di qualcuno rimanga sul terreno ucciso da una coltellata.
Talvolta si innescano vere e proprie faide fra tribu’ con sanguinosi combattimenti che si protraggono per intere generazioni.
L’altro “sport” prediletto dagli Afghani e’ il “butzkaci”, una competizione a cavallo dalla quale, si dice, gli Inglesi abbiano derivato il “polo”. La gara consiste in due squadre di cavalieri appartenenti a tribu’ diverse che si contendono sul campo una capra o di una pelle di capra: vince la squadra che riesce, contro l’altra e dopo lotte a volte di ore e senza esclusione di colpi, a trascinare quanto rimane della povera bestia oltre un traguardo prestabilito.
La interpretazione della metafora contenuta in questo gioco, e’ quella della sottrazione di un bene importante per loro, come una capra, da parte di una tribu’ ai danni dell’altra, con la dimostrazione di maggior abilita’, coraggio e destrezza rispetto agli avversari. Gli Afgani hanno il culto del cavallo : i loro sono animali splendidi, discendenti dai cavalli arabi, essi li conservano con orgoglio, come si dice in gergo ippico “interi” cioe’ stalloni, e quindi essi sono estremamente focosi spesso molto pericolosi e difficilissimi da montare.
Ogni Afghano che si rispetti, deve essere in grado di domare ed addestrare il proprio cavallo che sara’ il suo distintivo sociale ed il suo mezzo di spostamento: talvolta ai bordi di un “butzkaci”, e’ possibile assistere ai virtuosismi estemporanei di singoli cavalieri con i loro cavalli, con l’esecuzione di esercizi semplicemente incredibili.
Loro dicono che quanto piu’ un cavallo e’ cattivo, focoso, difficile e ribelle, tanto piu’ e’ intelligente ed e’ bello ed onorevole addestrarlo per poterlo cavalcare! Per concludere, l’ Afghano e’ un uomo che crede fermamente nelle sue convinzioni e che le difende strenuamente, che non ha timore e rispetto di alcuna imposizione che non derivi direttamente dai suoi dettami religiosi o
tribali, che con la sua forza, fierezza e coraggio sfida qualsiasi avversario e difficolta’ senza paura della morte e principalmente che persegue tenacemente i suoi obiettivi fino al raggiungimento degli stessi o fino a morirne!
Herat era la terza “città” dell’Afghanistan (n.d.r.: d’ora in avanti, metterò tra virgolette, tutte le parole che nel nostro linguaggio tradizionale aprono nella mente un collegamento con concetti standardizzati sul nostro modo di vivere e che invece laggiù avrebbero la necessità di riferimenti standard completamente diversi) prevalentemente costituita da costruzioni basse ed irregolari di terra e mattoni, di color grigio-ocra.

Città antichissima, di grande importanza per il commercio ed i traffici pluri-etnici che dall’Oriente estremo si dirigevano ad Occidente passando per la “via della seta”, risentiva ancora fortemente dell’influsso del vicino Iran.
 Le strade si intersecavano a caso senza rispettare alcun criterio di razionalità: quasi tutte le “case” sul prospetto avevano infissi nella muratura dei pali di legno che sostenevano fatiscenti teli di tessuto bianco più o meno sbrindellati dal vento, che avevano la funzione di riparare dal sole durante il giorno.
Giravamo per le strade prevalentemente dissestate ed in terra battuta, senza avere la benchè minima idea di dove stessimo andando: una moltitudine di carretti trainati dalla gente, dagli asini, dai dromedari, stracarichi di ciarpame di ogni tipo, una marea di barbe bianche e nere sotto l’ondeggiare di una moltitudine di turbanti bianchi e neri, capre, asini, cani, galli, galline, dromedari, e quant’altro!
Guardavo strabiliato ed affascinato quel mondo così antico e lontano,  continuando a girare come ipnotizzato senza permettere ad altri stimoli di disturbare quei momenti di assoluto trasporto: tutto quello che avevo immaginato prima di quel momento, era insufficiente, inadeguato e fuori dalla realtà!
Ormai era buio ed alcune delle strade erano scarsamente illuminate da rare luci fioche: era l’ora di trovare un posto sicuro dove parcheggiare Ford, c’era tutto il tempo per assaporare in seguito con calma tutte quelle sensazioni, una alla volta.
Lo “Shahazada Hotel” era situato in una delle strade nei pressi della zona centrale: nell’insieme mi ricordò sia per lo stile della costruzione, sia per lo stato di conservazione, una di quelle “masserie” semiabbandonate che sovente si vedono nelle campagne al sud d’Italia.
Sul fronte, delimitato da un alto muro, si accedeva attraverso un largo “portone” di legno, in un cortile recintato dalla continuazione dell’alto muro, sconnesso, in terra battuta e sassi dove erano parcheggiati altri pulmini e gli altri mezzi dei viaggiatori: sulla sinistra entrando c’era il corpo dell'”hotel”, costituito da una costruzione bassa, al piano stradale, con una serie di porte che corrispondevano ad altrettante “camere”, sei o sette in tutto.
La “hall” era costituita da uno stanzino dal quale si accedeva all’unico “servizio igienico” dell'”hotel” costituito da un “vater” fatto di mattoni e posto a caduta libera sopra un pozzetto di raccolta: una delizia durante le calde ore del giorno…!
Davanti, una “doccia” consistente in  una scatola di latta traforata e stagnata al tubo che scendeva dal soffitto.
Nasser, un Afghano con baffetti “alla D’Alema” magrissimo ed alto, di circa trent’anni, ci accolse con sussiego: ci disse che il parcheggio del pulmino costava 20 afghani (la moneta locale) che tradotti in lire corrispondevano a circa 30 (dico proprio 30!!!) lire al giorno con diritto all’uso della “toilette” e lo stesso prezzo era per la camera però per persona.
Vista l’ora tarda, nessuno do noi se la sentì di …contrattare, e decidemmo di restare!
Sistemammo i pulmini in fila lungo il muraglione affrescato a calce di fronte all’ingresso, che era la parte dell’ampio cortile più pianeggiante. C’erano già parcheggiati un WW con targa inglese, che guardai con grande invidia all’insaputa di Ford, poichè aveva montato sul tetto un grosso scambiatore dell’aria condizionata a quei tempi un sogno quasi irrealizzabile ed un’altro, un Fiat 238 targato Napoli, grigio chiaro: ahhh! finalmente avrei potuto rimettere in movimento un pò di Italiano!

All’altro lato, c’era una lunga tavola con lunghe panche sui due lati, dove gli Inglesi stavano mangiando qualcosa, erano in due: Paul, di una cinquantina d’anni e la sua …nipotina Mag , una “peperina” molto carina sulla trentina bionda oro con un culetto nervoso ed i capelli raccolti sulla testa e divisi in due codini ai lati e due occhioni blu che sembravano dire “coraggio ragazzi, la vostra astinenza d’ora in avanti sarà solo un mio problema”!
Dei napoletani invece, nessuna traccia: mi disse Nasser che erano in tre, due ragazzi ed una ragazza e che avevano presa una stanza invece di dormire nel pulmino.
Erano all’incirca le 22 ed avevo fame: l’adrenalina mi aveva bruciati numerosi dei lotti di zucchero che avevo di riserva.
Mi sedetti al tavolone e poco dopo un ragazzo vestito con una lunga casacca grigio-azzurra, scalzo naturalmente, mi mise davanti una ciotola di terracotta contenente una zuppa rossastra fumante, un piatto con del riso in bianco e due o tre pezzi di pane: “goulash” mi disse.
La ispezionai rimestandola con il cucchiaio (il servizio era inappuntabile) scorgendovi dei pezzetti di carne presumibilmente di capra: il gusto era eccellente, piccante e saporito; vi immersi man mano i pezzi di pane sminuzzati ed il riso ed alla fine, poco elegantemente, rifinì  il tutto con una accurata “scarpetta”.
Bevvi avidamente il chay, affinchè spegnesse il gradevole tormento del peperoncino e mi stavo per accendere una sigaretta, quando il ragazzotto ritornò con un piattino nel quale c’erano alcuni pezzetti di “black afghan”: cacchio che servizio! pensai: vuoi vedere che così per pura fortuna, sono incappato in un tre stelle Michelin afghano della ristorazione? perfino il “digestivo” ti offrono e sicuramente sarà di buona annata!
All’improvviso l’unica lampadina che illuminava il piazzale si spense ed al suo posto restarono le candele che qualche minuto prima avevano disposte sul tavolo ed all’ingresso delle “camere”, erano le 23: Nasser con aria elegante e professionale, ci informò che in Afghanistan l’erogazione dell’ elettricità avveniva dalle 18 alle 23, il tempo minimo necessario alle”ice factories” per fare il ghiaccio, mentre quella dell’acqua dalle 5 alle 8 del mattino e dalle 20 alle 23 della sera!
Era un “ordine del giorno” preciso se mai qualcuno avesse voluto fare una doccia o leggere un libro!
La luce tremula e rossastra delle candele, immediatamente liberò quell’aria magica che avvolse tutto di fantastico ed irreale: la fiaba si tramutò in sogno ad occhi aperti anche per me che mi ero astenuto dal gustare il”digestivo”
della casa, poichè nonostante tutto volevo restare lucido e con i riflessi pronti in caso di necessità, non si poteva mai sapere come andava a finire la serata. Uno dei numerosi ragazzi dello “staff”, in un angolo al buio, cominciò a suonare il “tambour” uno strumento a corde tra la mandola ed il sitar, intonando una nenia afghana con le dissonanze tipiche della musica orientale
e le consonanti aspre e rugose del “Pashtun”: si unì presto a lui Nasser con il “tablar”, un tamburo di terracotta con una pelle di capra tesa sul lato più largo. La musica ci entrò rapidamente in circolo con effetto dirompente: il viaggio della fantasia, mi portò in alto, al di sopra delle montagne dell’Hindukush, e giù in basso nelle povere case di quella gente, mi vennero nella mente immagini di bimbi addormentati con la luce di un fuoco che lambiva loro il volto, quegli occhi neri e senza età con quell’espressione di rassegnata sofferenza della sposa di Omar, le lente e tranquille carovane di “Kuci” i nomadi, che avanzavano sollevando una leggera nuvoletta di polvere nella luce diafana dell’alba nel deserto.
Era una sensazione che mi dava un pò di disagio, eppure, stranamente mi sentivo bene come se fossi a casa mia!
Chissà, se la “metempsicosi” e la “reincarnazione” avessero avuto un fondamento, forse avrei avuta una risposta.
Gli altri ragazzi che avevano già bissato e trissato il “digestivo”, accortisi che nel mio piattino ne restava la porzione intatta, mi chiesero increduli: ” perchè non lo usi? non ti senti bene?” ed al mio invito acchèlo prendessero pure, senza indugio ne approfittarono, aggiungendo ulteriore sballo agli strati già precedentemente accumulati.
Potevo capire, ma solo capire, chi, svegliandosi ed addormentandosi tutti i giorni nel grigio eterno della periferia-alveare di una grande città, sentiva il bisogno di forzare la sua mente per trovare qualche ora di colore e di suoni artificialmente inventati dal fumo e dalle pasticche, mentre l’idea che, laggiù, fuori dal mondo e dalla realtà, qualcuno sentisse ancora forte il bisogno di evadere artificialmente, mi dette fastidio: percepivo in quella gente il “vizio” di masturbarsi il cervello, e quindi decisi che da parte mia l’avventura “in condominio” terminava lì, ad Herat. Dopo quella sosta, avrei proseguito da solo con il mio fidato amico: l’indomito Ford!
L’ allegra brigata, manifestava i primi sintomi di cedimento: gli eccessi di “fumo” uniti al “tracollo” nervoso per la giornata intensissima, raccoglievano il frutto.

I Francesi ed i Tedeschi, per primi, si ritirarono nei loro pulmini, mentre gli Spagnoli avevano preferito prendersi una camera: i musici, vista la carenza di ascolto, si erano ritirati, dopo aver fatto il giro per raccogliere tra noi qualche spicciolo. Mag, dopo un inizio di serata scoppiettante, si era un po’ tenuta in disparte: per il resto della serata ci eravamo reciprocamente sorpresi spesso mentre l’uno fissava l’altra: era bella, lineamenti regolari, una splendida fila di denti, difficili da vedere su di una inglese, indossava un paio di jeans molto attillati ed una t-shirt giallo-pallido tre taglie piu’ abbondante della sua che ne metteva in risalto l’abbronzatura ed i capelli biondo oro. Credo che Paul si fosse accorto delle richieste di mutuo soccorso che le inviavo in silenzio, ma mi parve che non desse grande importanza alla cosa: da buon inglese, aveva con se una generosa scorta di wisky che beveva in continuazione e di nascosto dagli Afghani da un thermos; anche lui aveva abbondantemente fumato il “black afghan”, quindi si era cotto a puntino. Ad un certo punto Mag, lo accompagno’ barcollante al loro pulmino da dove, poco dopo, giunsero selvaggi ruggiti da leone!
Nasser aveva chiuso il portone del cortile ed a ridosso vi avevano sistemato di traverso un letto, il tipico letto Afghano, simile in verita’ a quelli diffusi in gran parte dell’Asia: un telaio rettangolare di legno con quattro piedi fatti a “boccia” allungata, e tre o quattro sottili scanalature orizzontali colorate; la “rete”era costituita da una tramatura di raffia intrecciata.
Vi si sedette uno degli addetti dell'”hotel”, con una faccia molto poco rassicurante ed armato di fucile a moschetto, che mi tolse gli ultimi dubbi sul dove ci trovassimo esattamente.
Anch’io mi accingevo ad andare a dormire, era piu’ della mezzanotte,  quando si udirono battere dei colpi ed una voce dietro al portone: il nostro custode, scatto’ in piedi e si defilo’ rapido con sorprendente professionalita’ dalla luce del portone sollevando la canna del fucile, mentre Nasser con malcelata agitazione, correva in fondo al muro per osservare attraverso una feritoia chi ci fosse dietro al portone. Mi si raggelo’ per un attimo il sangue nelle vene , ebbi come un presentimento e rapidamente corsi in un angolo, mi sfilai la cintura salvadenaro che avevo sotto i pantaloni nella quale conservavo anche il passaporto ed accertato che nessuno si curasse di me, la nascosi piegata dietro i folti rami di un gelsomino che si arrampicava sulla parete. Mag era l’unica che si era accorta del movimento, venne vicino a me da dietro il suo pulmino sussurrando con aria preoccupata: “whats new?”, ” I don’t know” le risposi e le feci cenno di mettersi dietro di me nascosta nell’angolo!
La voce si fece udire piu’ forte e si ripeterono i colpi contro il portone: era buio pesto, solo la luce delle candele rimaste, tuttavia Nasser con aria finalmente risollevata e liberatoria, grido’ in pashtun ai ragazzi Afghani, che si erano intanto raggruppati con in mano coltelli e bastoni ai lati dell’ingresso, di aprire!
Cautamente, scostato il letto, socchiusero il portone dopo aver rimosso il pesante chiavistello, il custode puntava la canna del moschetto dritto verso l’apertura con il dito sul grilletto: comparve dapprima la ruota anteriore di una bicicletta e dietro di essa fece capolino un faccione con un’espressione tra lo stupito ed il preoccupato seguita dal resto del veicolo.
“Hello” esclamo’ con titubanza guardandosi intorno come se fosse incerto se restare o scappare: era un europeo sui cinquant’anni,corporatura atletica, capelli brizzolati cortissimi, giacca e pantaloni di taglio europeo color
crema, camicia bianca bisunta e scarpe leggere da ginnastica. Sembrava uscito da un sacco di farina! “I am Willibald Non-so-cche-cacchien” aggiunse” please do you still have rooms availables?”
ed intanto si sfilava lo zaino che aveva dietro le spalle: Nasser,i ragazzi dell'”hotel”, Mag ed io eravamo rimasti senza parole e guardavamo il nuovo arrivo come avremmo guardata l’apparizione della Madonna di Lourdes!
Nasser riprese il suo applombe e rispose affettato: “yes sir, of course: whould you like to have something to eat?” il Tedesco annui’ senza fronzoli e mentre tutti uscivamo dallo stato catatonico, i ragazzi portarono lo zaino e la bicicletta dentro una delle camere. Meg ed io ci sedemmo di fronte a lui: non avremmo potuto resistere fino al giorno successivo per saperne di piu’ di quello sconcertante personaggio; gli chiesi da dove venisse, lui rispose che veniva da un piccolo villaggio poco dopo il confine distante una cinquantina di chilometri, dove aveva trascorsa la notte precedente. Era di Hannover, ma insegnava alla facolta’ di Etnologia dell’Universita’ di Monaco di Baviera, era specializzato in cultura islamica.
Era partito sei mesi prima da Monaco, in bicicletta ed andava nel Kafiristan Pakistano per condurre degli studi su quella etnia, che aveva la caratteristica di essere di religione buddhista , di avere occhi chiari, capelli biondi ed usi e costumi assolutamente a se’ stanti rispetto a tutte le popolazioni limitrofe.
Mentre lui parlava, mangiando avidamente il suo “goulash” riscaldato, noi lo ascoltavamo estasiati ed allibiti: fini’ il pasto e senza mezzi termini si alzo’, ci saluto’ rapidamente e scomparve nella sua camera. Mag mi guardo’ con un sorriso incredulo, era sempre piu’ bella e la stanchezza che i suoi occhi tradivano, le dava un’aria languida: mamma mia, che voglia di saltarle addosso! Lei lo capi’ e non fu necessario: senza parlare, ci avviammo verso il mio caro Ford, mentre dagli altri pulmini i nostri eroi rispondevano con accanimento ai richiami roboanti che lanciava loro Paul. “I have a terrible headake, do you have something for me?” mi disse, sali’ con me su Ford e ci “curammo” vicendevolmente i nostri mali, con ogni medicina possibile!
Verso le cinque del mattino, sentimmo provenire dal pulmino di Paul la sua voce ancora impastata che diceva:” hey Maggie, where are you?” lei sguscio’ rapidamente da Ford, e rientro’ nel suo pulmino: “what’s about?” senti’ che le diceva, “pipi’ darling, just a big pipi’ ” gli rispose lei piano con la sua vocina rassicurante, “too much tea!” concluse lui. Andai a recuperare dal nascondiglio la mia cintura e mi addormentai come non facevo da tempo.
L’acqua fredda, mi tolse di dosso anche l’ultimo ricordo corporale dei due giorni precedenti: sul tetto del “bagno”, il ragazzino che con un secchio era l’addetto al riempimento del serbatoio, decise che era sufficiente così e scese giù !

Poichè la pressione dell’acqua non era sufficiente per raggiungere il serbatoio, lui, coadiuvato da un “socio”, era il responsabile dell’approvvigionamento idrico.
Gli altri erano già svegli da un pezzo e stavano completando la colazione seduti al tavolone; di nuovo in forma, mi misi addosso una cambiata pulita e li raggiunsi. Michel e Claire, avevano fatta “la spesa” appena fuori dall’ “hotel”: dell’uva dagli acini piccoli color oro ed un melone dalla scorza verde limone venata di giallo a forma di palla da rugby molto affusolata, lungo una sessantina di centimetri, il tutto, mi dissero, per 6 afghani meno di 10 lire!
L’uva era dolcissima come lo zibibbo siciliano ed il melone, dalla polpa bianca e sugosa, aveva un profumo di gelsomino ed un sapore inebriante: mi vennero alla mente le parole di Marco Polo, che nel “Milione” descriveva l’eccezionale bontà de “li poponi” di quelle zone! Mag mi rivolse un sorriso gattone, mentre Paul, grugnante, era ancora in modo evidente alle prese con i postumi della serata precedente: apprezzai invece il recupero di tutti gli altri, un pò ammaccati, ma ben resettati. Willibald era ripartito all’alba: preferiva pedalare nelle ore meno calde! Decidemmo tutti d’accordo di visitare la città.
Teatro di molteplici episodi legati alla storia del paese, Herat si dice che avesse dati i natali al grande Zarathustra, filosofo fondatore della religione “Zoroastriana” che divideva il mondo in due parti: una dominata dal “bene” ed una dal “male”e che lanciò la crociata eterna della lotta contro “il male”, concetto fondamentale della successiva religione Islamica.
A testimonianza, svettavano alte alla periferia della città, due “torri” affiancate, di una ventina di metri ciascuna costruite con fango e mattoni, simili nell’aspetto a due ciminiere industriali, che rappresentavano il dualismo della sua filosofia proteso verso il cielo. Le torri erano state realizzate per volere del grande Tamerlano, il leggendario condottiero, che diede origine alla stirpe dei “Timuridi”. Al centro invece, le mura della fortezza eretta da Alessandro il Grande, all’epoca dell’invasione del non ancora Afghanistan da parte dell’Impero Persiano.
Tutt’intorno tanto Afghanistan, con il suo accomodante e rassegnato essenzialismo, la sua vana e futile laboriosità, la baraonda assoluta che rendeva impossibile una distinzione tra categorie di insegnanti ed allievi, ricchi e poveri, gente colta ed ignorante.
Dappertutto caos e disordine, costruzioni fatiscenti crollate per le intemperie con accanto nuove costruzioni iniziate ed abbandonate o tirate sù in qualche modo come se fossero tane di animali che volta per volta si creano un riparo temporaneo.
Dappertutto, via vai di gente, per lo più a piedi, molti in bicicletta, molti sui carri: pochissime le auto, quasi tutte “Uaz” sovietiche di color piombo e qualche “zigulì”, la Fiat 124 costruita in URSS, rare “giapponesi” e qualche vecchissimo camion “Ford” americano dal musone enorme.
I trasporti pubblici erano forniti da specie di “riksho” a tre ruote e due posti, come quelli cinesi ed indiani, trainati dal “tassinaro” di turno: esistevano anche gli “autobus” di linea, bellissimi, simili a giganteschi carri siciliani! Dietro alla cabina di guida, il cassone con tanti finestrini strettissimi ed alti, era completamente decorato a colori sgargianti, da scene della vita del proprietario, oppure da panorami del paesaggio, da animali, con scritte “pashto” e “dari” inneggianti ad Allah e Maometto, sulla targa in alto le destinazioni. Sul tetto dei “bus” un grande portapacchi, sul quale oltre alle merci di ogni tipo (una volta ci ho visto un somaro legato per le zampe!), appollaiati, i passeggeri che non avevano trovato posto all’interno del cassone, sempre stipato fino all’inverosimile: naturalmente pagavano un biglietto ridotto!
Osservavamo la vita della città, stando a nostra volta appollaiati sulla “vettura” che Nasser l’ “ineffabile” ci aveva messa a disposizione: un carro agricolo trainato da un dromedario e “guidato” dal custode della notte prima. Quando vidi che era lui il “driver”, mi venne in mente l’episodio ed un leggero brivido mi corse lungo la schiena!
La parte centrale della città era un gigantesco mercato: ad ogni angolo, in ogni casa, mercanzie di tutti i tipi. Tutto buttato per terra, talvolta su di un letto di stracci, talvolta su nemmeno quello.

Camminavo lentamente fra i mercanti affascinato dalla disinvoltura con la quale proponevano ad esempio, interi sacchi colmi di pezzi di pane vecchio ormai ricoperto da muffe verdastre, oppure intere ceste di thè usato: i mercati di tutto il mondo, come i luoghi di culto, mi hanno sempre attratto per il messaggio culturale che trasmettono.
Mi è sempre piaciuto, rovistare, contrattare, comprare ogetti anche inutili per il gusto di “partecipare” ai rituali locali del mercanteggio. Un Afghano vendeva dei bellissimi pugnali fatti a mano, probabilmente da lui stesso: mi inginocchiai davanti a lui per vederli meglio e gli feci segno se potevo toccarli: annuì con indifferenza ma controllando i miei gesti. Ne estrassi alcuni dal fodero di cuoio di dromedario lavorato a mano e vidi che le lame, in ferro, erano state incise con motivi semplici ma bellissimi: gli chiesi quanto volesse e lui sempre con indifferenza mi fece capire che quello che avevo scelto non era in vendita. Mi fece però segno di sedermi e subito il ragazzino con un turbante troppo grande per lui, che gli era accanto, si alzò senza proferire parola e sembrò correre via; mi sedetti e lui in modo affabile, mi si rivolse indicando se stesso con la mano: “Afghan, Herat”, poi toccando me in modo interrogativo, aspettò una risposta: “Italian” gli dissi, “I t a l i an o” scandì, “Italiano?” rispose con aria interrogativa, “ohhh, yes, Italiano, Italistan, Italistan!” continuò annuendo. Intanto il ragazzino era tornato, ed aveva un vassoietto rotondo di rame con un manico a cavaliere ed un occhiello sul manico, sul quale portava, tenendolo sospeso ad un dito, due bicchierini di chay bollente ed il solito zucchero non raffinato: mi offrì il thè con garbo e fu molto sorpreso e divertito, quando vide che usavo lo zucchero nel modo giusto. Bevvi il thè e capì troppo tardi l’importanza della sua mossa: io a quel punto avrei voluto andarmene, ciò che mi interessava non era in vendita ed avevo tante altre cose da vedere, ma non potevo farlo perchè lui mi aveva offerto il chay e così facendo mi aveva messo in una situazione di “debito” nei suoi confronti! Che figlio di……! A quel punto non mi restava altro che affrontarlo sul terreno che lui aveva scelto, ma questa volta cambiai tattica, smisi di interessarmi al pugnale e gli chiesi quanto volesse per la borchia in ottone lavorato che loro usavano per adornare i finimenti di dromedari e cavalli : vidi un lampo di soddisfazione e di sfida nel suo sguardo che mi studiò ancora per un attimo: la trattativa era aperta ed aveva capito che ero capace di trattare!
Mi chiese 35 afghani, qualcosa come 50 lire ed io fingendomi strabiliato gli feci segno di no :”too much!” gli dissi scuotendo il capo, e feci per alzarmi; “how much you!” rilanciò lui sorprendendomi, “5 afghani”, “you crazy!” mi rispose con l’indice sulla tempia, “how much you” incalzò, “5 afghani” insistetti, “5 afghani?” ribattè fingendosi furibondo afferrando la borchia con la mano e voltandosi disgustato dall’altra parte, come per dirmi che la trattativa era conclusa. Mi alzai , lo salutai con la mano sul cuore e mi allontanai di qualche metro; il ragazzino mi corse dietro “mister, mister”e mi fece segno di ritornare, lui era imbronciato, ma vedendomi tornare riprese le buone maniere: “how much you, last price” disse, “5 afghani” ribattei inesorabile, incominciò, credo, a bestemmiare contro tutti i miei parenti, gli amici ed i parenti degli amici, battendo le mani per terra disperato poi, fingendosi sopraffatto, tacque all’improvviso porgendomi la borchia!
“Teshekur” gli dissi prendendo la borchia e porgendogli i 5 afghani, “e questo? This?” gli dissi indicandogli il pugnale, mentre lui intascava il denaro: ” this hundred afghani!”, rispose rabbioso, l’aveva rimesso in vendita il vecchio marpione, “hundred afghani? you crazy!” gli risposi, e di nuovo lui “how much you”……
Alla fine, mi riunì agli altri ostentando il mio splendido pugnale infilato nei pantaloni che avevo pagato 25 afghani ed un accendino mezzo scarico!
“25 afghani!!!” disse Nasser allo Shahazada al rientro, ” he has stolen your money”, “ti ha rubato il denaro” esclamò: quel c…o di Nasser da quel momento cominciò a starmi sui cosidetti!
Durante il percorso di ritorno verso l’ “Hotel”, Mag , curiosa come una scimmia, aveva in piu’ riprese tentato di estorcere qualche suono dalla bocca del nostro pretoriano/cocchiere, il quale, ogni qual volta lei gli si rivolgeva, fingeva di non capire o di non sentire, tradendo un certo imbarazzo. Per accontentarla, Paul, fece un tentativo ed a lui rispose: aveva 32 anni, era di ceppo uzbeko e si chiamava Terim o quacosa che suonava cosi’. Terim era emigrato ad Herat, citta’ di confine, qualche anno prima provenendo da Mazaar-i-Shariff, citta’ del nord, in cerca di un po’ di fortuna: era un bellissimo uomo, alto, asciutto, con la tipica espressione seria ed accigliata degli Afghani, i quali non ricordo di averli mai visti sorridere  se non tra loro. Aveva capelli lisci e sottili, occhi neri profondi e freddi, denti bianchissimi e bei lineamenti del volto, induriti dalla storia della sua vita, dal sole e dal vento del deserto.

Arrivati allo “Shahzada”, arresto’ il carro davanti all’ingresso e ci fece scendere: si sposto’ piu’ avanti di qualche metro, rasente al grande muro bianco ed azzurro, stacco’ il dromedario, lo condusse in uno spiazzo poco distante dove c’era qualche ciuffo polveroso d’erba, gli lego’ una zampa posteriore con una fune attaccata ad un paletto e scomparve attraverso la porta di una catapecchia. Mag era soddisfatta del suo “contatto” Afghano, e punzecchiava Paul sottolineando con sguardi allusivi, l’ elogio di Terim: Paul, dal canto suo, era distrutto dall’arsura e pensava a sorseggiare il suo “the” di puro malto, dal thermos che era corso a prendere dal pulmino.
Non avevo alcuna voglia di perdere un pomeriggio, come si stava prospettando, a bighellonare nell’ “Hotel”, depositai i miei acquisti e mi avvicinai al tavolone dove gli altri erano seduti: c’era un nuovo personaggio!
Mi erano completamente usciti dalla mente, i tre Italiani che Nasser mi aveva detto di ospitare, all’arrivo, la sera prima: Gianni, di Napoli, anche lui studente,  presso la facolta’ di Medicina Partenopea; un ragazzo simpatico, non molto alto di statura, capelli scuri riccioluti, un viso aperto ed intelligente.
Quando gli rivolsi la parola in italiano, fu subito sorpreso, ma subito dopo mi sembro’ vagamente impacciato: viaggiava con suo fratello, Alberto e la ragazza di lui, Laura, i quali, lo avrei capito in seguito, costituivano la ragione del suo imbarazzo! Dopo un po’, infatti, vedemmo uscire dalla “camera”, due immagini fatiscenti, ambedue di un pallore lunare, con gli occhi sottolineati di blu: si sedettero appena fuori, per terra, stando volutamente lontani da noi, sembrava che ne avessero ancora per poco.
Io, che mi aspettavo una “tarantellata” di gioia con tanto di tamburello e puttipu’, capi’ subito che per loro, la “napoletanita’ ” , non era piu’ nemmeno un lontano ricordo se mai lo era stata! Gianni, ando’ da loro, si sussurrarono qualcosa e torno’ indietro dopo qualche istante: mentre veniva verso di me, soffio’ fuori con forza l’aria dalla bocca, guardando amareggiato e preoccupato verso il terreno sconnesso. “E’ nnu’ casino!” disse “nnu’ casin’e mmerda!”, “che c’e’?” gli chiesi fornendogli una chance fingendo di non aver capito, “problemi?”. Mi racconto’ che i due, erano da tempo eroinomani assuefatti ed irreversibili, che, pur provenendo da una famiglia agiata, avevano cominciato, lui a rubare e scippare, lei a prostituirsi dopo aver svenduto tutto quello che era riuscita a rubare a familiari ed amici: una storia comune, purtroppo! Avevano tentato di tutto,
comunita’, psicoterapie, ma tutto era stato inutile! Gianni sapeva che ormai era solo una questione di giorni,  ritrovarli uccisi dall’edema polmonare, con un ago infilato nella vena ed aveva deciso di vendere tutto, di acquistare il pulmino e di portarli in Afghanistan, dove, alcuni veterani del buco, gli avevano detto che la vita costava niente, la “roba” era ottima e senza “paranoie” di sorta. Almeno, avrebbero concluso il grigio squallore delle loro esistenze, senza nuocere ad altri, e senza ulteriormente marcire nella cella di un carcere!
Mi corse un brivido lungo la schiena mentre lui, nuovamente calmo, mi raccontava la terribile storia: ebbi un profondo senso di stima per il coraggio e la determinazione con cui Gianni aveva decisa questa forma di eutanasia per il fratello e per Laura, aveva studiato il modo per concedere loro una fine, nonostante tutto, “dignitosa”: un ultimo, grande, gesto d’amore!
Mi resi conto, che stavo iniziando a commettere l’errore piu’ banale e diffuso da molti “cavalieri erranti” per il mondo: mi stavo fossilizzando sulle persone con le quali avevo fatto inconsapevolmente gruppo e, cio’ mi teneva lontano dallo spirito puro della gente del luogo: stavo tradendo tutto cio’ che dava senso e calore al mio viaggio! Il “richiamo” della nostra civilta’ era forte, specialmente dopo le esperienze intense degli ultimi giorni, e la necessita’ di non sentirmi solo contro tutto aveva fatto il resto: dovevo reagire! Guardai Ford, che stava all’ormeggio grasso e pigro: “caro mio, domani ce la battiamo alla chetichella” pensai, ma lui fece finta di non capire! Credo che ci stesse provando con il pulmino di Paul: povero Paul, anche il pulmino…

Usci’ dal cortile dello Shahazada, mi corsero dietro Mark e Mag: “dove vai?” mi disse lei “veniamo con te!”. Di quei due, non mi piaceva l’atteggiamento che avevano assunto in quel momento: avevano fumato ed erano molto euforici, eppoi mi rompeva le balle il non poter restare da solo per un po’! “Paul?” le chiesi, “gone” mi rispose lei con uno sguardo da strappamutande: Mark era nella fase dello stupore, si fermava  davanti ad ogni cosa e la fissava a bocca aperta assorto. Era il nipote di Maurice Chevalier lui, e lo ripeteva in ogni circostanza: un bel ragazzo, anche simpatico, ma un po’ viziatello e con qualche atteggiamento snob di troppo. Indossava un paio di jeans scoloriti ed una polo blu, e sul capo si era fatto fare il turbante dai ragazzi divertiti dell’ “Hotel”, Mag invece si era infilato un camicione larghissimo e lungo di cotone ruvido color marrone che aveva acquistato al mercato: agli Afghani non piaceva affatto questa specie di mascherata da parte dei turisti. A loro sembrava cosi’ grottesco, che si sentivano presi in giro! Lo dissi ai due rimbambiti di turno, ma loro non vollero sentire ragioni e non ci fu verso di togliermeli di torno. Avevo sentito parlare dei famosi lapislazuli afghani, provenienti dalle miniere del Panshir, famosi nel mondo: nella reggia di Kabul, c’erano due vasi di lapislazulo giganteschi ai lati dell’ingresso, il cui valore avrebbe sicuramente sfamata l’intera popolazione per anni. Nasser mi aveva detto che a circa cinquecento metri da li’, c’era la bottega di un mercante, che vendeva lapislazuli: volevo andarci! Mag si dichiaro’ entusiasta del programma, quindi ci incamminammo, tra gli sguardi interlocutori della gente che guardavano quella strana “accozzaglia” di oriente ed occidente ed erano a loro volta riguardati da uno sballatissimo Mark, che dovevo distogliere tirandolo per il braccio: “moment, moment “, ripeteva “rincoglionik” !.
Finalmente trovai il posto ed entrammo: un “negozietto” piccolo, molto essenziale, buio, con i muri scrostati.
Il mercante era un omone alto come me, grosso, di una quarantina d’anni, era vestito di nero, con un turbante bianco ed una barba riccia e lunga nerissima. Ci accolse con gentilezza, ma conservando nello sguardo quella luce fredda tipica dei suoi connazionali:”what can I do for you Sir?” chiese e gli risposi che volevo vedere dei lapislazuli; Mag mi si strofinava contro il braccio, ansiosa di vedere le pietre. Tiro’ fuori da un cassetto sotto il bancone, un involto nel cui interno erano contenuti alcuni lapis: avevano il caratteristico colore blu, venato di nero con tante piccole inclusioni d’oro, alcuni erano grezzi, solo lucidati, altri erano sagomati e pronti per essere incastonati. Mark, faceva commenti a voce eccessivamente alta, parlava da solo ed ogni tanto sorrideva a quella parte del suo cervello che non rispondeva più al senso critico.
“How much for this?” chiese mostrando una delle pietre all’Orco: “Six hundred afghani” rispose gentile con voce ovattata “sua enormita’. Sto’ cretino di Mark, memore forse del mio racconto sulla contrattazione al mercato, scoppio’ a ridergli in faccia dicendo “six hundred afghani” e contemporaneamente gli fece il nostro famoso “tie'”  battendo il palmo della mano sinistra nella piega del gomito del braccio destro con la mano chiusa a pugno: stava per scappare da ridere anche a me, quando l’omone assunse uno sguardo terrificante e si gonfio’ all’improvviso, era  furibondo!
La voce gli tremava, cosi’ come gli  tremavano le mani e le labbra: capi’ che stava per succedere qualcosa di grave, anche perche’ un’altro giovane Afghano “senza sorriso” che era rimasto sulla porta, entro’ nel negozio e si mise alle nostre spalle per impedirci di uscire.
Mag era impietrita e lessi nel suo sguardo il terrore puro! “Mister” gli dissi in inglese conservando la calma, ” lui, sta’ scherzando!”, “e’ solo un po’ di hashish in piu'”, “non voleva offenderla”, “nel nostro paese il gesto che ha fatto, e’ solo un gesto ridicolo”, mentì,”le chiedo scusa per lui, se questo l’ha offesa!”
E questa volta mi portai la mano sul cuore: vidi che la fatica per dominarsi che lui faceva, era sincera; “Signore” , mi rispose quasi balbettando, “in Afghanistan quel gesto, costituisce una offesa gravissima, poiche’ e’ indirizzato contro Allah”, “un Afghano potrebbe uccidere per questo!” , vedevo gia’ mia madre disperata che ripeteva, “lo dicevo io, lo dicevo io, che non ci doveva andare la’, in capo al mondo”. Per un attimo non trovai le parole, poi con un guizzo, gli dissi: “senta, io sono qui nel suo negozio per acquistare delle pietre, le chiedo ancora scusa, ma vorrei comprare per poter tornare presto all’Hotel, OK?”.  La mia brusca sterzata, dette l’effetto sperato: l’uomo pian piano si riprese e con le mani tremanti continuo’ a mostrare le pietre, mentre Mark stava impietrito al centro della stanza e Meg stava per scoppiare in lagrime dalla paura.
Il “salame” francese di Mark mi costo’ 150 dollari americani , senza contrattazione ovviamente, una cifra da capogiro per l’Afghanistan, in compenso pero’ acquistai una diecina di pietre grezze stupende  che al ritorno in Italia mi resero molto di piu’ e così mi ricomprai anche il seguito della mia vita che in quel momento aveva subito un clamoroso crollo di quotazione!
“Rimani ancora, fino a quando non ci muoviamo anche noi” mi disse languidamente Mag, prima di tornare ancora una volta nel suo WW “ci rivedremo a Kabul” fra sei o sette giorni”, le risposi, “devo partire domani, assolutamente”!
Quella notte non dormii, come la precedente: mi giravano per la mente le parole del “solito” Nasser che diceva, “you were lucky, Sir, absolutely lucky”!
Ford, avanzava saltellando di buca in buca lungo la “International highway” che ci avrebbe portati a Kabul ed in un secondo tempo al Kyber-pass, unica via di transito per il Pakistan attraverso l’Hindukush: lungo il percorso avremmo incontrata Kandahar, la seconda citta’ dell’Afghanistan.

Da Herat, c’era una strada alternativa da percorrere, che conduceva direttamente a Kabul tagliando attraverso le catene montuose dell’interno e passando per i laghi di Band-i-Amir e la valle dei Buddha di Bamyan, che corrispondeva alla vera antichissima”via della seta”: il tragitto mi attraeva moltissimo, anche perche’, dalla descrizione che mi avevano fatta Nasser e Terim, doveva essere, laghi e Buddha a parte, una pista straordinariamente bella ed interessante per la remota posizione dei villaggi disseminati lungo il percorso, ricchi di tracce legate al transito millenario delle carovane che dalla Cina raggiungevano il Mediterraneo. Tuttavia, mi raccomandarono di non avventurarmici da solo con Ford, innanzitutto poiche’ la pista era durissima per i mezzi meccanici non specializzati al fuoristrada “duro” laddove c’erano tratti da superare guadando corsi d’acqua e di fango (l’Afghanistan e’ un paese freddissimo durante la stagione invernale, per cui le montagne sono ammantate dalla neve fino a primavera inoltrata) e poi perche’ battuto da bande di cavalieri armati fino ai denti, appartenenti a tribu’ ostili ed aggressive da generazioni, che depredavano le carovane ed i veicoli in transito e spesso “non facevano prigionieri” !
Decisi quindi di fare il percorso piu’ lungo che scendeva a sud-sud/est aggirando le catene montuose, per poi risalire verso nord passando appunto per Kandahar e che era bene o male asfaltato e battuto da molti altri veicoli. La strada era pianeggiante ed attraversava la piana desertica dalla luce bianca abbagliante.
Pensavo alla notte prima, nel pulmino potevo percepire il “patchuli” , l’olio profumato usato da Mag: quello non era un viaggio da donne, vuoi per la sfortunata posizione sociale alla quale il sesso debole era relegato, sia per il rischio concreto e continuo di aggressioni da parte di chiunque si volesse improvvisare predone. Mi ritorno’ in mente uno dei tanti episodi demotivanti, il piu’ recente, che mi aveva raccontato, lui si con tanta “verve” partenopea, Mario all’Ambasciata di Teheran: un pulmino di viaggiatori stranieri era stato aggredito ad un falso posto di blocco, (i posti di blocco, ne superai qualcuno con una certa trepidazione, erano costituiti solitamente da due carcasse d’auto o di camion, di quelle che si incontravano numerose ai lati della strada devastate da incidenti spaventosi, poste di traverso sul percorso nel mezzo del deserto e sfalsate fra loro in modo tale da costringere i guidatori ad effettuare un passaggio a “zig zag” molto angusto. Erano presidiati da cinque o sei soldati armati, che nella migliore delle ipotesi controllavano solo i documenti, ed i quali quando “smontavano” dal servizio, abbandonavano sulla strada ogni cosa nella posizione in cui l’avevano disposta.)
i quattro, due uomini e due donne, erano stati derubati di ogni cosa, gli uomini violentati e poi uccisi tutti! Avevano ritrovata la carcassa completamente spoglia del loro pulmino ed i quattro cadaveri in fondo ad un burrone poco distante: si diceva che era stata una banda di predoni, ma secondo Mario, con ogni probabilita’ erano stati gli stessi soldati; comunque fossero andati i fatti nessuno mai avrebbe potuta conoscere la verita’ !
Fino a quando mi diressi verso sud, il “vento dei cento giorni” lo ebbi a favore: Ford marciava tranquillo ed il vecchio cuore dell’indomito pulsava a meraviglia; viaggiavo mediamente ad una velocita’ di 60/70 Km/ora, era molto rischioso per le sospensioni, tenere andature superiori. La temperatura era torrida, l’asfalto fumava e dava l’effetto bagnato tipico del gran caldo: da un certo punto in poi, virando in direzione nord/nord-est, il vento inizio’ a soffiarmi contro, la strada era in leggera pendenza in salita e notai che l’indicatore della temperatura del raffreddamento si era un po’ innalzata. Non attribui’ alla cosa una grande importanza, da quando avevo modificato il raffreddamento della pompa della benzina non avevo piu’ avuto problemi, il consumo dell’olio era regolare quindi non avevo reali motivi di preoccupazione relativi ad eventuali problemi meccanici, comunque misi il rilevamento in zona d’attenzione. Ridussi ulteriormente l’andatura, ma il vento soffiava teso e costante e la pendenza continuava a salire seppur dolcemente: percorsi ancora una cinquantina di chilometri, la sabbia picchiettava violentemente sul parabrezza ed ero obbligato a tenere ermeticamente chiuso per evitare che si infilasse dappertutto, il calore nel furgone era insopportabile!

Era una sabbia mista, composta da granelli piu’ grossi, dispersi in una sorta di talco impalpabile, che si attaccava sulla pelle umida per il sudore, infilandosi tenacemente nei pori: la temperatura dell’acqua era ulteriormente aumentata e cominciai a temere che la polvere avesse intasato il “nido d’api” del radiatore.
Di li’ a poco, l’indicatore passo’ sul rosso: spensi il motore senza fermarmi , per cercare di farlo raffreddare sfruttando per qualche metro “l’abbrivio” ma il vento ed il pendio arrestarono la corsa quasi subito. Mi guardai intorno, non c’era l’ombra di un’anima! “Ca..o!” dissi a denti stretti,”questa non ci voleva proprio! “, piu’ o meno avevo calcolato di trovarmi ad  un centinaio di chilometri da Kandahar, in condizioni normali in poco meno di tre ore ci sarei arrivato, era mezzogiorno, il vento e la sabbia mi innervosivano ancora di piu’.
Apri’ il cofano del tutto, togliendo la corda ed i legnetti che lo tenevano socchiuso, ed udi’ nettamente il rumore dell’ebollizione dell’acqua nel radiatore, il manicotto scottava: mi misi in attesa, non potevo fare altro!
Tirai fuori dalle scorte una scatoletta di carne e mangiai un boccone trangugiando piu’ sabbia che cibo, quando, come per incanto, si ripete’ il “fenomeno” della materializzazione: da dietro ad un leggero rialzo del terreno, apparvero dal nulla, tre Afghani a cavallo. Venivano nella mia direzione senza fretta, uno, il piu’ anziano, era vestito completamente di bianco, aveva una folta e lunga barba bianca, un grande turbante bianco e montava uno splendido stallone sempre bianco, gli altri due che gli stavano un paio di metri piu’ indietro, gli facevano da cornice, indossando i consueti gile’ scuri, sulle casacche lunghe grigie ed i larghi pantaloni che si stringevano alle caviglie: erano armati! A tracolla tenevano appesi dei lunghi fucili, sicuramente molto antichi, avevano a bandoliera una cartucciera colma di munizioni ed alla vita gli splendidi pugnali dei quali avevo acquistato un parente ad Herat.
Ero letteralmente terrorizzato, piu’ per lo scherzo che mi stava giocando la fantasia che per i reali motivi legati al  comportamento dei tre cavalieri!
Si avvicinarono fino ad una diecina di metri da dove mi ero fermato: a giudicare dal loro comportamento, avrei potuto credere di essere diventato invisibile, poiche’ non avevano, in apparenza, rivolto nemmeno una volta i loro sguardi su di me.
Trattenevano i loro cavalli che scalpitavano nervosamente, costringendoli al passo lento con il morso tirato che gli teneva la bocca piena di bava semiaperta: “aggiustavano” la direzione con colpetti di tallone, dando una impressione di grande sicurezza, maestria ed eleganza. Potevo scorgere nitidamente i loro lineamenti: il “vecchio” , sicuramente un Capo, aveva un aspetto straordinariamente nobile e fiero, stava perfettamente eretto sulla sella di cuoio scuro ed emanava un senso di autorevolezza; gli altri due avevano l’aria dei “duri assoluti”, senza la benche’ minima espressione che modificasse la impenetrabilita’ del loro sguardo e del loro volto; mi fecero tornare alla mente per un attimo l’enorme cane “kuci” dell’accampamento nomade di Omar, in Iran: avevano in comune la stessa aria di grande professionalita’ nel proteggere e difendere il loro padrone a qualunque costo!
L’ettolitro di adrenalina che mi era entrato in circolo, faceva sentire il suo effetto! Mi tremavano gambe e mani e battevo leggermente i denti: ero assolutamente vulnerabile in loro balia, se mi avessero aggredito, niente e nessuno mi avrebbe potuto aiutare! Ma non si fermarono!
Attraversarono la strada facendo schioccare nervosamente gli zoccoli dei cavalli sull’asfalto e si allontanarono, sempre senza degnarmi di uno sguardo! Quando li vidi dileguarsi nella nuvola di sabbia e nel vento dietro i falsi piani del deserto, mi venne da vomitare! Mi accesi una sigaretta che duro’ un secondo: tremavo ancora! Riusci’ a svitare il tappo del radiatore aiutandomi con uno straccio, misi in moto al minimo e lo riempi’ d’acqua: era quasi completamente vuoto!
Guardai sotto Ford e vidi che pioveva sull’asfalto un rivoletto d’acqua ruginosa: rimisi tutto rapidamente a posto e riparti’.
L’indicatore era tornato entro il livello normale, ma mi faceva male lo stomaco ed avevo tutti i muscoli indolenziti come se avessi fatto uno sforzo enorme! Pian piano riusci’ a riacquistare una certa padronanza: di certo si era lesionato uno dei condotti di raffreddamento o la pompa dell’acqua ma per fortuna tutto il resto non sembrava che avesse riportati danni, il motore girava normalmente! Continuai fermandomi subito non appena notavo che la temperatura ricominciava a salire, rabboccavo l’acqua a motore acceso e ripartivo cercando di sfruttare le poche discese per tenere il “folle” e ridurre al minimo la rotazione del motore, ma il vento non era calato di nulla e quindi la difficolta’ in cui mi trovavo non subi’ alcun miglioramento significativo.
Mi fermavo tutte le volte che incontravo dei villaggi lungo la strada e riempivo d’acqua tutte le taniche che potevo.
Finalmente, quando ormai con un pieno d’acqua riuscivo a percorrere circa un quarto d’ora di strada, vidi in lontananza la sagoma delle prime case di Kandahar: erano quasi le sette di sera!
I raggi del sole, radenti per l’incipiente tramonto, illuminavano le case di mattoni e fango conferendogli una colorazione rossa, che si stagliava nettamente contro il blu intenso del cielo limpido. Le ombre lunghissime, rompevano la monotonia del paesaggio circostante bianco e piatto con le loro pennellate decise di nero: tirai un sospiro di sollievo, potevo finalmente cercare qualcuno che risolvesse i problemi miei e di Ford! Riempi’ ancora una volta il radiatore e mi diressi a casaccio verso l’interno.

Poco distante, trovai una stazione di rifornimento: un ragazzino, appena sostai, tolse la pistola di erogazione dalla colonnina e si avvicino’ credendo che dovessi rifornire di carburante. Gli chiesi, “meccanico, mechanic” e gli indicai il motore facendogli dei segni per fargli capire che c’era qualcosa di rotto: lui mi guardava a bocca socchiusa come se guardasse un extraterrestre; decisamente, a parte l’insolito incontro che rappresentavo per lui, il mio aspetto non doveva essere dei piu’ gradevoli, sia per il colore verdastro della pelle che le ore di stress mi avevano conferito, sia perche’ al mio profuso sudore, si era attaccata una pellicola marmorea di sabbia che chiazzava il mio volto e le parti scoperte dagli indumenti, conferendomi un poco attraente aspetto da zombie.
Mi indico’ gesticolando e parlando in pashto, la direzione verso cui dirigermi: riparti’ subito salutandolo, stava facendosi scuro, lo guardai nel retrovisore ed era ancora li’ con la pistola in mano e l’espressione adenoidea del suo volto.
Trovai il posto: era una grande corte recintata da un grande muro di sassi e fango, al cui interno, sui lati e sul fondo, si affacciavano una diecina di botteghe artigiane tra le quali riconobbi, dalla catasta di ferraglie , vecchi relitti d’auto e pezzi buttati alla rinfusa qua e la’, quella del “meccanico”. Mi fermai nello spiazzo antistante che era completamente nero e lucido intriso dell’olio dei motori: lui smircio’ sospettoso dall’interno dell’ “officina” che era situata dentro un grande portone di assi sgangherate e traboccava letteralmente di pezzi ed attrezzi rudimentali. All’interno c’era in riparazione quello che definire “un camioncino” sarebbe stata una esagerazione clamorosa.
Cercai di fargli capire il problema, indicandogli il radiatore e l’indicatore della temperatura e facendogli notare il rivolo d’acqua rossastra che scorreva sotto il vano motore: lui annui’ serio piegando il capo da un lato, era piccolo, anche lui magrissimo, con le guance incavate ed i famosi baffetti alla”baffino” nerissimi. Ritorno’ con una lampada ad acetilene ed alcune chiavi, seguito da un suo collaboratore che avra’ avuti, ad occhio e croce, 200 anni tanto appariva curvo, decrepito ed oppresso dal turbante bianco unto di grasso. Alla luce azzurrognola della lampada, parlando concitatamente fra loro, smontarono il radiatore, non senza provocarmi attimi di vero panico a causa delle loro “tecniche” operative, quindi la pompa dell’acqua: “fanculina” mi disse porgendomi trionfante la pompa “fanculina” ripete’ indicandomi una crepa nella fusione dell’alluminio, e dopo che ebbi razionalizzato il termine da lui usato ed esclusa ogni possibilita’ che potesse significare quello che avrebbe significato da noi, “Fanculo davvero!” pensai e chiusi il ragionamento!
Mi indico’ il cielo stellato e disse qualcosa facendomi capire che, per l’ora tarda, bisognava rimandare tutto al mattino dopo: gli chiesi indicandogli il marchio “Ford” sulla griglia :”Ford, here, Kandahar? Ford?” ,”Ford, yes, yes, Ford, Kandahar” assenti’ indicando la direzione del centro della citta’.
Non potevo certo abbandonare tutto cio’ che avevo di concreto in quel momento e che costituiva il mio unico ancoraggio ai luoghi di provenienza, parcheggiato la’ senza custodia, quindi dopo un rapidissimo ragionamento, decisi di rimanere a dormire la’ per quella notte, pur sapendo che probabilmente sarebbe stata una notte lunghissima! Lui capi’ le mie intenzioni e non ebbe nulla da obiettare. Mentre “L’equipe tecnica” era sparita nell’officina, cercai la luce a gas da campeggio all’interno di Ford, la accesi e cominciai ad organizzarmi “la serata”: tirai fuori il fornello e vi misi a bollire dell’acqua, della quale una parte mi serviva per farci il the’, una per riempire una bottiglia da bere quando si fosse raffreddata, ed il resto per scioglierci una delle buste di minestra liofilizzata della scorta. Sistemai la sedia pieghevole tra le portiere posteriori di Ford dopo aver fatto scivolare dal pianale sotto la brandina il piano di compensato che mi serviva da tavolino e mi sedetti sfinito: percepi’ un movimento nel buio ed aguzzai lo sguardo stringendo gli occhi per capire di cosa si trattasse, ma non ero preoccupato, l’atmosfera era tranquilla e mi sentivo al sicuro! Intravidi nel buio, quattro o cinque piccole sagome che mi scrutavano immobili dall’oscurita’: erano dei bambini. Gli feci cenno di avvicinarsi e due o tre di loro fuggirono immediatamente via emettendo gridolini di sorpresa, mentre gli altri, dopo qualche momento di titubanza, avanzarono di qualche passo fino ad essere illuminati dal raggio di luce della lampada: erano tre maschietti ed una femminuccia, avranno avuti dai cinque agli otto anni, bellissimi, le gote olivastre paffutelle ed occhioni neri, seri seri, imbarazzati. Restavano la’ storcendosi le dita tra le mani, con una vecchia candela appesa al naso, guardando alternativamente un po’ me ed un po’ il pavimento di terra battuta: erano scalzi ma non era facile capirlo, tanto i piedini erano imbiancati dalla polvere e sporchi.
In un primo momento pensai che si fossero avvicinati sospinti solo dalla curiosita’, poi, avvertendo dietro di me il profumo che emanava la minestra, capi’ il vero motivo: avevano fame!
Lentamente, per non spaventarli, mi alzai e tirai fuori dal pulmino tre o quattro scatolette di tonno, delle quali avevo una scorta abbondante e praticamente intatta visto che fino a quel momento avevo attinto alla mia dispensa solo poche volte, preferendo consumare i cibi locali in mezzo alla gente del posto: il pranzo o la cena, sono momenti importantissimi ed altamente significativi nell’ approccio dell’avvicinamento culturale agli usi e costumi di un popolo!
Porgendo verso di loro le scatolette, feci qualche passo lento e rassicurante e mi fermai: il piu’ coraggioso del gruppetto si fece avanti, le prese tenendole a malapena tra le manine unte e con gli occhi bassi si volto’ ritornando lentamente a piccoli passi oltre la luce. Feci in tempo soltanto ad accarezzargli la testolina ruvida, rapata a zero per prevenire le infestazione degli ahime’ endemicissimi pidocchi, che era sparito! Udi’ nel buio le vocine concitate seguite da grida di esultanza, che emettono i bimbi in tutte le parti del mondo, quando manifestano la loro felicita’: pian piano si spensero lontano nell’oscurita’.
Quella notte, in alcune di quelle catapecchie, ci sarebbero stati poveri e rari momenti di gioia per tutti! Pensai: “speriamo almeno che il gusto del tonno gli piaccia!
La giornata afghana, ricomincia all’alba: all’unisono, centinaia di uomini, donne, carretti, capre, asini, dromedari, biciclette, riprendono il giro frenetico ed inutile interrotto la sera prima al calar delle tenebre.

Dopo essere riuscito a lavarmi in qualche modo con l’aiuto della canna dell’acqua del mio ospite, chiusi Ford e salì sul carretto biposto trainato da un vigoroso asinello e ci dirigemmo verso il ricambista alla ricerca della “fanculina”!
Il “negozio” era situato appena fuori il bazaar, ed aveva un grande cartello “FORD” sull’ingresso, che strideva fortemente con il contesto scenografico in cui era collocato. Il “commesso” come tutti inturbantato, esaminò autorevolmente il pezzo da sostituire, mentre il meccanico taceva in atteggiamento reverenziale: scosse il capo e disse rivolto a me con tono grave , “no possible”, “this british Ford”, “Afghanistan Ford , german Ford only”! La presi come una sentenza di condanna capitale per l’amico Ford! Quello era uno dei particolari imponderabili che non avevo potuto prevedere quando avevo scelto un “transit” per quel viaggio, proprio in virtù della sua grande diffusione!
Il meccanico ringraziò con i soliti salamelecchi ed uscimmo: prima che potessi confidargli la mia disperazione, mi scaricò addosso un ragionamento gesticolato in pashto del quale non capi niente e mi fece cenno di risalire sul carretto.
Entrammo nella zona del bazaar, dove centinaia di persone andavano e venivano, da e per dove chi lo sà, tra cataste di indumenti, frutta, pane attrezzi, capre, gabbiette di polli , kebab ecc.; giravoltando nelle strette viuzze in terra battuta
giungemmo in una corte, dove numerosi artigiani lavoravano, accovacciati per lo più sul pavimento appena dietro la porta, chi il cuoio, chi il rame e l’ottone, chi costruiva sandali con la suola ricavata dai battistrada consumati degli automezzi, gli analoghi delle Timberland per l’Afghanistan!
Uno di questi faceva il fabbro: all’interno della grande stanza, al centro, un forno in mattoni, tutt’attorno per terra alla rinfusa, oggetti appena smodellati dai calchi in “terra persa”; l’ambiente era ricoperto dalla fuliggine e vi aleggiava l’odore del carbone e del metallo surriscaldato, lungo le pareti sempre di mattoni, pendevano pezzi “pronti” dopo che alcuni ragazzi li avevano ripuliti a mano dalle sbavature ed imperfezioni di fusione.
Legati in uno spiazzo interno tre o quattro cavalli in attesa di “risuolatura”. L’uomo nero, esaminò il pezzo, ne percorse con la punta del dito la lesione ruginosa, lo rivoltò e concluse assentendo che si poteva fare! Si riaccese un barlume di speranza!
Smontò la pompa togliendo i dadi di bloccaggio, e ne separò le due metà che costituivano all’interno “la chiocciola” dentro cui circola velocemente l’acqua del raffreddamento: la parte lesionata era quella in cui il rilievo che costituiva la chiocciola era più marcato; senza perdere tempo, pose il pezzo in una cassetta colma di terra refrattaria ricavandone uno stampo e lo passò in fusione! Di lì a qualche ora, dopo aver tornita una nuova chiocciola quasi perfettamente identica all’originale, con un vecchissimo tornio mosso da un motore a scoppio, uscimmo con la metà pompa nuova di zecca, dopo aver pagato l’equivalente di 7 dollari americani (all’epoca circa 4000 lire)!
Quando dopo circa un anno, rivendetti Ford, lui aveva sempre quella pompa che gli raffreddava… le parti intime!
Lasciai Kandahar il giorno dopo: la città mi aveva suscitata, per quel poco che ne avevo visto, una impressione molto più estrema di quanto non lo avesse fatto Herat! D’altronde, la sua localizzazione piuttosto isolata nel cuore del paese e la sua reputazione di città “dura” dovuta all’alto consumo di hashish da parte di praticamente tutti gli abitanti e quindi dall’altissimo numero di fatti delittuosi connessi, la rendevano estremamente “a rischio”. Oltretutto, a parte una sosta “conoscitiva” e per di più forzata, i miei obiettivi erano altri . Uscendo dalla città, mi fermai a fare rifornimento questa volta, alla “stazione di servizio” dell’arrivo; il ragazzino “adenoideo” era là e questa volta ebbe successo con la pistola di erogazione: a causa della mancanza di elettricità, il funzionamento della pompa era manuale. Lui una volta inserito l’erogatore nell’imboccatura del serbatoio, ritornava alla colonnina e pompava il carburante.
L’indicatore era del tipo a lancette, come quelli scomparsi da tempo remoto dai nostri distributori: avevo ancora alcuni litri di benzina, la spia della riserva era spenta: gli feci segno di fare il pieno e lui cominciò a pompare carburante, stando appoggiato con l’altra mano alla colonnina. 20, 30, 40, 50, 60, 7….ma se il pieno era di 55 litri! Mi avvicinai e lui sorridente tentò di anticiparmi venendomi incontro e segnalandomi che aveva completato il pieno! Girai superandolo dietro la colonnina e vidi che il vetro da quel lato era stato rimosso: mentre “serviva” il carburante, lui con l’altra mano faceva correre le lancette spingendole, arricchendo sostanziosamentemente il conto!
Mi sorrise senza imbarazzo, gli pagai 50 litri soltanto senza alcuna discussione e ripartì: lui ci aveva provato da buon Afghano, purtroppo gli era andata buca ma,”niente di grave” avrà pensato rimettendosi a sonnecchiare sdraiato per terra sotto l’albero spoglio che gli faceva una misera ombra, aspettando il prossimo “cliente” !
Conoscevo a memoria ogni brano delle cassette che avevo portate con me: mi piaceva ancora ascoltare i “Canned Heat” ed i “Led Zepelin” ed ogni tanto mi riscoprivo a cantare a squarsciagola tamburellando con le dita sul volante seguendo il ritmo!

Guardai il contamiglia sul cruscotto di Ford e calcolai di aver percorsi circa 8000 chilometri! Il mio fondo schiena era tutt’uno con il sedile con il quale oramai  viveva in abituale simbiosi.
La “cura” di Kandahar, aveva nuovamente rinvigorito il mio fedele amico: dopo i primi momenti di tensione ed apprensione, mi convinsi che il fabbro aveva fatto un ottimo lavoro e mi pentì di averne dubitato, anche se avevo tutti i motivi per farlo.
Ancora non avevo afferrata una delle maggiori capacità degli Afghani, consistente nella straordinaria abilità nel “replicare” copiandola esattamente, qualunque cosa!
Sostai in un villaggio di tre case, lungo la strada: tradotto in “occidentalese”, sarebbe stato un “autogrill” ma laggiù era più consono chiamarlo “dromedariogrill” o “caravangrill”; c’era un venditore di frutta ed approfittai per comprare uno di quegli eccezionali meloni dal profumo di gelsomino.
 Mi resi conto che anch’io camminavo con l’andatura da dromedario a causa dell’intorpidimento del sedere e cominciai a temere di assumerne anche l’espressione vista la deformazione che stavo subendo influenzato dall’ambiente circostante:  cercavo un angolo riservato dove “scaricare” il thè bevuto prima di partire, e guardandomi intorno, notai che alcuni degli uomini, sparivano dietro ad un muretto con fare furtivo.
Prudentemente, seguì il percorso e trovai “la toilette”: dietro al muro, alcuni, facevano “pipì”, solo che lo facevano accovacciati sulle caviglie e non “zampillando” in piedi come classicamente avviene da noi!
“Cacchio” pensai, “mi toccherà fare come loro”, “se la faccio alla occidentale, magari qualcuno si incazza” e provai a fare altrettanto, senza considerare il tafferuglio che in quella posizione avrebbe provocato la mia “zip” da  cui al contrario gli Afghani erano esenti: nessuno si incazzò, solo qualche “str..zo” sapendo che non avrei reagito, si scompisciò dal
ridere ammiccando al vicino nella mia direzione. ” Ma ti sei visto?” pensai trattenendo la rabbia e massaggiandomi le gambe per il fastidioso pizzicore, ” pisci come una capra e ti diverti a guardarmi?”.
Ostentandogli  aria di compatimento, ritornai sui miei passi giusto in tempo per trovare un gruppo di una dozzina di soldati, giunto nel frattempo su di un camion “Uaz”, che attorniava Ford vociando e spiando nell’interno mentre uno di loro cercava di aprire la portiera:  con una certa apprensione mi avvicinai sventolando le chiavi! “Hey, Hey” gridai loro, ” I’m here!”: mi circondarono e quello che stava tentando di forzare la portiera, che doveva essere il comandante del gruppo, si fece largo e con fare imperioso mi fece cenno di aprire il furgone.
Sforzandomi di mantenere il controllo, lo assecondai: egli salì al posto del passeggero e cominciò ad aprire il vano porta-oggetti, tirando fuori tutto ed a rovistare sotto i sedili dove non trovò niente di interessante; “what are you looking for?” gli chiesi prudente, ma egli non dette segno di volermi udire, scese dalla cabina e mi fece segno di aprire dietro.
Salì con i “vibram” sul materassino della  branda e cominciò a rovistare come un orso in una pattumiera, nelle casse di provviste e di ricambi che avevo imbullonate al pianale: trovò fra i miei abiti, il pugnale che avevo acquistato dal mercante di Herat!
“What this” mi chiese protendendolo verso di me e compresi che aveva trovato un pretesto per agire in modo per lui “legale”contro di me: “souvenir” risposi preoccupato ma sorridendo per minimizzare, “afghan souvenir” insistetti; “what souvenir” incalzò ” this, no good!”, “look, look!” mi ordinò facendo segno con l’indice  dal suo occhio  al marsupio che avevo alla vita; lo aprì, avevo dentro i documenti miei e di Ford, qualche biglietto da cinque dollari ed un migliaio di afghani: Guardò i documenti e disse: “Italian?”, “Italian” confermai, “where dollars for afghan visa”, “stolen” gli risposi prontamente, “in Kandahar, stolen” e feci il classico gesto di avvitare la mano per farmi capire, “dollars for me, at Italian Embassy of Kabul”, ” Italian Embassy, my friends” continuai mentendo “they are waiting for me, just for tonight!”.
“You, embassy, friend?” indagò, “yes, very good friend”, ” tonight, waiting for me” , “you ask”, dissi facendo finta di non sapere che non aveva alcun modo per farlo: “Ok!” sdrammatizzò, “you go!” soggiunse porgendomi il pugnale ed i documenti. Riprese a circolarmi il sangue nelle vene e sempre sforzandomi di sorridere ostentando tranquillità, feci per richiudere gli sportelli posteriori con naturalezza, “moment” disse, infilò la mano dentro e la ritirò stringendo un pacco di spaghetti, “what this?”: un lampo di vendetta mi passò per la mente, “this Italian food”, “good, good” gli risposi facendogli segno calorosamente che volevo che li tenesse “tipical Italian food”, “take them”, “good”.
Accennò ad un sorriso, era tentato! “how good?” mi chiese accettando l’omaggio e facendomi il segno di mangiare, voleva la ricetta: “water, cold water, put spaghetti into cold water than boil  them for one hour” gli spiegai esultando nell’intimo, “than eat them, very good”. La mia mimica era stata molto esplicativa, tutti ridevano divertiti ed il loro potenziale, estremamente pericoloso ed imprevedibile era ormai distratto: mi ripetè la procedura di cottura e vidi che aveva capito perfettamente, tirai fuori altri due pacchetti e li detti agli altri, facendo loro segno di partecipare al banchetto “all’Italiana” tutti insieme; accettarono entusiasti schiamazzando in pashto con eccitazione! Intanto risalì su Ford  con calma e sempre sorridendo, dissi mostrando l’orologio “Italian Embassy, Kabul, tonight!” “Okay, you go”, misi in moto e partì!
Immettendomi sulla strada, guardai nel retrovisore il gruppo festante: “Buon Appetito!” pensai ” spaghetti all’afghana stasera” e mi diressi verso Kabul!
I caratteristici autobus variopinti stipati fino all’inverosimile anche sul tetto mescolati ad alcuni più moderni, i camions sgangherati, le più rare automobili, progressivamente aumentavano di numero: anche le abitazioni ai bordi della international road, si infittivano sempre di più sì da farmi capire che Kabul non era oramai molto distante.

La capitale dell’Afghanistan, all’epoca circa mezzo milione di abitanti, è situata in parte sulla piana desertica ed in parte sui versanti delle prime colline che la circondano sul   lato a nord-ovest che a loro volta si estendendono fino al monte Paropomizad che staglia in lontananza nel cielo azzurro intenso, la cima alta silenziosa ed innevata con maestosa rassegnazione: la attraversa tagliandola in due il fiume Kabul, che ritengo possa essere uno dei motivi della antica costituzione del suo insediamento, dividendola in due metà.
Le tipiche casette di mattoni grigio-giallastri, per lo più rozzamente squadrate ed allineate su file parallele ed incastonate sul pendio delle colline, davano l’impressione di trovarsi davanti ad un collage o ad un grande presepe dai colori degradanti dal nero delle ombre nette, giù giù fino al grigio-biancastro delle strutture murarie passando attraverso toni di marrone e di beige.
Guidavo Ford con molta accortezza e concentrazione a causa di quel traffico inusuale e caotico al quale avevo persa l’abitudine, che via via andava inspessendosi sullo stretto e malandato nastro di asfalto: le carovane di dromedari dall’andatura “alla Blues Brothers”, con gli enormi basti carichi di fascine, paglia e quant’altro, si mescolavano al traffico meccanico snobbando i proletari somarelli dalla vita dura e faticosa che per restare in pari con il passo danzante dei primi, erano costretti a percorrerne una mezza dozzina dei loro trotterellando veloci sulle zampe corte, facendo ballonzolare goffamente i loro turbantati fantini: le greggi di capre, che avevo soprannominate “con le mutande” a causa della grossa protuberanza adiposa che avevano subito sotto il codino, seguivano a loro volta la direzione degli altri, governate dai pastori nomadi “Kuci” e dai loro giganteschi e temibilissimi “kuci sak”, i cani, tutti diretti al mercato per vendere, comprare o barattare alcuni dei loro capi, allo scopo di introdurre nuove correnti di sangue nell’allevamento o per guadagnare un pò di afghani con i quali acquistare thè, sale riso e zucchero.
Nei campi polverosi ai lati, qualcuno, ogni tanto, zappava caparbiamente ed invano quella terra arida e ribelle, nel tentativo davvero disperato, di strapparle qualcosa di cui nutrire se stesso e la sua famiglia.
Ad un certo punto, la mia attenzione fu attratta da un anomalo accampamento di tende, fra rottami e rifiuti di ogni genere, attorno al quale giravano come fantasmi una diecina di cani scheletriti, piagati dalla rogna: tutti gli autisti, transitando all’altezza delle tende fatte di stracci e di tutto ciò che poteva costituire in qualche maniera un riparo, suonavano i clacksons gridandosi tra loro frasi incomprensibili in tono di feroce scherno ed alcuni lanciavano oggetti dal finestrino roteando minacciosamente il pugno, cui rispondevano soltanto i cani abbaiando. Notai tre o quattro donne, alcune storpie in modo evidente, sedute immobili davanti alle tende, con il capo ed il volto coperto nonostante tutto dal “burqa” che però tenevano tirato sù fino ai fianchi in modo da scoprire una specie di luridi mutandoni, simili ai “pantaloni” indossati dagli uomini, strette alle caviglie: era il postribolo della città!
Il luogo dava più l’impressione di un girone dell’inferno dantesco che di un posto di piacere: nessuno di coloro che mi precedevano si fermò, probabilmente qualcuno sarebbe tornato furtivamente al calar della notte per non far sapere ad altri della propria debolezza della carne.
Il triste quadro di squallore e desolazione, scorse come al “ralenti” fuori dai finestrini di Ford ed il flusso grottesco dei viaggiatori proseguì nel suo disordine, lasciando agli altri sopraggiungenti il divertimento del “sexy show” alle porte della città: “che lusso e che fortuna” pensai uscendo dallo sconcerto e senza essere incuriosito nemmeno per un momento dal pensiero sul “chissà come lo faranno” laggiù, ” per una donna, nascere puttana a Milano a Pioltello od a New York e “battere” anche i denti dal freddo sui marciapiedi delle strade nebbiose”!
La città si allargò sempre di più ai lati della strada fino a diramare il traffico nelle arterie laterali, con grande complicazione nel movimento; l’assoluta mancanza di ogni tipo di regola ne costituiva una sola che era la basilare: ai crocevia, i mezzi più grossi e gli autisti più decisi, imponevano la loro “precedenza”,spingendo il muso dei loro automezzi con inesorabile progressione a coloro che tentavano annaspando, a loro volta di transitare , per cui, il capitare incolonnati dietro ad uno degli indecisi, significava spesso rischiare di trascorrere il santo Natale a Kabul senza “jngle bells”, per i timpani resi inutilizzabili dallo strombazzamento perenne. I nomadi e le capre, avevano sempre ed inesorabilmente la precedenza, poichè e semplicemente, loro non si ponevano nemmeno lontanamente il problema di concepire che per attraversare, talvolta, è necessario aspettare un pò per non rischiare di rimetterci capre, cavoli ed esistenza!
Anche se in modo completamente diverso dal nostro, comunque, c’era aria da “Capitale”: su alcune strade si affacciavano palazzi importanti che lasciavano intendere grandi risorse finanziarie; i negozi e le botteghe artigiane erano più “cittadine” e spesso vi si scorgevano al loro interno tentativi di rifinitura che, a non tornare più indietro nel mondo occidentale, avrebbero potute essere definite “eleganti e raffinate” .
Il “tradimento” di tale immagine lo effettuavano le greggi di capre, i venditori di polli e di pernici da combattimento con le gabbiette di legno accatastate ai lati delle strade, i venditori di cuccioli di “kuci sak” con gli imponenti e minacciosi genitori esposti a garanzia di qualità, anche loro impiegati nei combattimenti e gli improvvisati mercanti “tuttologi” che speravano con rassegnata calma di trovare qualche cliente interessato a qualche scatoletta di carne vuota od a qualche paio di sandali usati che fosse un pò meno usato dei suoi.
Passai davanti al bel palazzo reale tutto bianco, in stile vagamente coloniale, circondato da una altissima cancellata all’interno della quale giravano liberamente alcuni levrieri afghani ( “proprietà dello Stato” la cui esportazione all’estero era severamente vietata, se non autorizzata da uno speciale permesso ministeriale) i quali al contrario del loro aspetto effeminato, sono molto aggressivi e venivano impiegati nella caccia a cavallo al “gorgh”, il lupo ed al cervo nelle sterminate vallate del nord.
Incrociai “Chicken street” e mi venne in mente che alcuni dei viaggiatori incontrati nel Camping di Teheran l’avevano descritta come la strada più interessante del centro di Kabul: voltai a fatica tra il brulicare di turbanti e di barbe bianche e nere e mi fermai davanti all’insegna del “Paropomizad Hotel”.
Uscì dal grande portone di legno nero un ragazzo afghano sui vent’anni vestito con blue-jeans e maglietta che mi chiese in inglese se avevo bisogno di una stanza: mi disse che era possibile parcheggiare Ford nel cortile interno, ma che non era permesso dormirci dentro per evidenti ragioni di “business”, il costo della stanza ammontava a 50 afgani per notte, circa 75 lire; al lato dell’ ingresso c’era per terra un catino di latta nel quale, ricoperte da pezzi di ghiaccio, giacevano irresistibilmente invitanti alcune bottigliette di Pepsi Cola (avrei in seguito scoperto che l’importazione della omnipresente Coca cola era proibita, poichè i proprietari erano giudei! ) di Canada Dry, l’aranciata, e di una “gassosa” locale contenuta in bottigliette sigillate da una sferetta di vetro, per stappare le quali si doveva pressarla con forza con il pollice per permettere all’anidride carbonica di fuoriuscire. Ciò bastò a togliermi ogni ulteriore esitazione ed entrai!
Il mio nuovo ospite, che parlava un buon inglese, si chiamava Mohammed Omar ( dal calcolo attuale dei suoi anni, non può essere l’ultra ottantenne omonimo “Mullah” capo spirituale dei Talebani), era alto magro, vestito all’Occidentale, capelli crespi neri corti, carnagione scura, un bel sorriso bianco e leale ed una finezza ed eleganza naturali.

Mi aiutò a parcheggiare Ford, quindi mi indicò la camera: l’Hotel si sviluppava all’interno solo sul pian terreno, attorno ad un vasto cortile rettangolare con alcuni alberi ed un pò di tappeto erboso che lo rendevano, pur nella tipica approssimazione, gradevole ed accogliente; in fondo al cortile, sotto un grande albero, nascosto in parte da cespugli, un casotto dov’era situato l’unico servizio igienico dell’hotel.
Chiesi a Mohammed se era possibile mangiare qualcosa, ma egli mi rispose che il “Paropomizad” non aveva servizio di cucina, ma non molto distante c’era il “Sygghy’s”,  un locale frequentato da forestieri, dov’era possibile mangiare qualcosa fino a tardi: ero molto stanco per il viaggio, per cui prelevai da Ford una scatoletta ed un pezzo di melone avanzato, mi sedetti ad una delle lunghe panche in muratura al centro del cortile, che era illuminato da una unica potente lampadina, mangiai e mi ritirai nella camera non prima di aver bevuta con voluttà una di quelle “Pepsi” ghiacciate del catino all’ingresso.
Il posto era gradevole ed incredibilmente isolato dal “can can” che si svolgeva fuori solo a pochi metri sulla Chicken street: dava una sensazione di riparo sicuro e, guardandosi intorno, si potevano scorgere le facciate posteriori delle case circostanti che con gli oggetti più semplici che vi erano riposti davano l’impressione di entrare nell’intimità di chi vi abitava, così come accade in ogni altra parte del mondo.
La stanza era arredata solo dal letto tipico, il pavimento in cemento era cosparso di una sabbiolina sottile e le pareti imbiancate di recente a calce: mi distesi sul letto e fu un sonno unico e profondo fino al mattino successivo.
Il brulichio in Chicken street era già a pieno ritmo nonostante fossero solo le sette del mattino, l’aria era fresca e frizzante e la luce limpida e chiara: notai che ai bordi della strada c’erano alcuni dei letti e dei giacigli per terra, da poco abbandonati da coloro che durante la afosa calura estiva, dormivano fuori per la strada per catturare un refolino più fresco e per tenere a bada le mercanzie all’ingresso del proprio negozio.
Mi inoltrai a piedi verso il centro, seguendo le indicazioni di Mohammed, alla ricerca dell’ufficio del telegrafo: dovevo inviare un messaggio rasserenante di “tutto ok” ai miei.
Mentre ero in attesa di attraversare ad un incrocio trafficatissimo, scorsi al di là della strada un Europeo, vestito con pantaloni corti chiari, maglietta, gilè e scarpe da ginnastica che attendeva a sua volta di attraversare: dai capelli lunghi biondastri ma abbondantemente stempiati e dai baffoni alla “Gengis Kahn”, riconobbi in lui, non senza prima sobbalzare strofinandomi gli occhi, Alfredo, un amico di Milano che avevo conosciuto presso alcuni amici l’inverno precedente! “ALFREDOO, ALFREDOO” gli gridai agitando la mano affinchè mi notasse; lui fu attratto dai miei gesti e mi riconobbe, sorrise ed attese che avessi attraversato l’incrocio: “Ciao” mi disse con calma, “che ci fai a Kabul?” proseguì con accento  milanese marcato, con la calma dell'”abituè” che incontra un amico al bar sottocasa mentre prende il cappuccino! “Che ci fai tu, ca..o!” gli replicai “eppoi me lo chiedi come se incontrare un amico nel pieno del caos di Kabul e per di più alle sette del mattino, fosse una cosa per te consueta!”, “perchè?” mi rispose meravigliato. “Alfredo, sei strafatto o cosa?”, “bah!” continuò un pò scocciato, “piuttosto dai, racconta, da dove arrivi?” ed in quattro parole ostentando a mia volta abituale indifferenza, gli descrissi per sommi capi il mio viaggio: “e tu invece da dove arrivi?”, “mah..niente… volevo visitare Rangoon (la Birmania all’epoca era isolata per la via terrestre e vi si poteva accedere solo per via aerea e visitare sotto scorta solo in alcuni posti con un visto di transito di massimo 5 giorni) “ma stì stronzi, dopo cinque giorni, mi hanno sbattuto fuori”, sicchè mi sono girate un pò (!) Tailandia e Cambogia e dato che mi avanzava tempo, ho deciso di ritornare a Milano via terra, con i mezzi locali!” (era in viaggio da due mesi!), “tutto bene fino al Kyber pass, dove sono stato bloccato per quasi una settimana perchè era chiuso, ca..o!”, “ma che culo incontrarti! me lo dai un passaggio sul tuo furgone fino a Milano?” .
Allibito ed un pò frustrato al contempo, gli spiegai il mio programma e lui senza batter ciglio, “bello!” disse, “dai, andiamo!”, “piuttosto, dove dormi tu, ci sono i pidocchi? Stanotte non ho chiuso occhio per il prurito”, “no” gli risposi travolto sentendomi come il ragazzo di buona famiglia che incontra l’amico randagione, “bene!”, “allora mi trasferisco là”, “a proposito, quanto costa la camera?” chiese grattandosi la testa, “50 afghani” risposi, “ca..o! Caruccio eh? ma va bene lo stesso!”.
Chiacchierando incessantemente, tanto che molti degli Afghani ci guardavano, incuriositi dalla nostra vivace naturalezza , giungemmo all’ufficio postale, dove compilai ed inoltrai il telegramma per i miei all’incredibile costo di tremila lire, cifra veramente elevata se rapportata agli altri costi comuni: ” e se te li ciulano?” disse tranquillo Alfredo uscendo, “ciulano che!” gli chiesi, “i soldi del telegramma, no?” insistette, “ma vaa”, “ho una ricevuta no!?”, “bah,sarà!” aggiunse.
In seguito, avrei notato che alcuni negozi vendevano delle cartoline già affrancate con grosse cancellature sul retro: in conclusione i miei non ricevettero mai quel telegramma!
“Lo sai che c’è una “steak house”poco distante da qui?”

disse “‘o turmiento” Alfredo, “pensa che prima, quando c’era il Re, dicono che vi  si trovasse anche del vino italiano: pare che il produttore ne facesse omaggio di nascosto a Sua Maesta’ ed egli, “per gratitudine”, gli aveva concesso di importarlo! “. Cacchio: Bistecca! Forse Vino! “andiamoci subito!” gli dissi, anche perchè il riferimento di Alfredo, aveva una base gastrico-freudiana, poichè tre una cosa e l’altra si era fatto mezzogiorno ed avevamo un’arretrato di fame notevole ambedue!
Bastò chiedere ad un paio di Afghani e di lì a pochi isolati, trovammo il posto: era al primo piano di una palazzina recente, vi entrammo quasi in preda alle convulsioni da privazione di cibo “normale” e trovammo posto ad un tavolino con il piano di formica azzurra.
Al cameriere, ordinammo le bistecche più grosse che avessero e per contorno una insalatona mista: per il vino, niente da fare, ma avevano dell'”Oranjeboom”, la birra olandese (1,50 dollari la lattina!) ed io ne ordinai subito una, dopo aver litigato animatamente con “‘o turmiento” che mi dava del capitalista sperperone, a causa di quell’acquisto spropositato!
Anche se erano interpetrate “all’afghana”, le “bistecche” che altro non erano che due “fettine” piuttosto rinsecchite, ci sembrarono le migliori mai mangiate fino ad allora e finita l’insalata, ripassammo il poco sughetto nel piatto con il pane!
Pagammo il conto da record e stavamo per andar via, quando qualcuno ci chiamò da un tavolo poco distante: “hei, siete Italiani?”, “venite, venite qua, che si dice in Italia?”, “mi hanno detto che la benzina è salita a 120 lire al litro, è vero?”. Il nostro interlocutore, era un uomo di una quarantina d’anni, corpulento, dall’aria tranquilla, Bergamasco: “lavoro qui da otto anni, facciamo sondaggi per cercare il petrolio” disse, “siamo una quarantina, ma io sono l’unico che resiste da tanto tempo, non è facile stare quaggiù!”, “prima di tutto è pericoloso, perchè basta un niente e ti puoi ritrovare con un coltello nella pancia, adesso poi co’ stì ca..o di hippi, devi temere anche loro!”,”poi, non c’è niente da fare: le donne, meglio lasciarle stare! Non c’è un cinema, niente di niente!”
“A proposito, attenti con le fotografie”, “chiedete sempre prima di scattarne”, “alcuni di loro pensano che la foto, gli “ruba l’anima” e può essere anche molto pericoloso!”
“L’unica cosa buona qui è che mi sono portati a casa, a Bergamo, diecine di oggetti antichi bellissimi, tappeti, ricami e molti lapislazzuli di grande valore: qui, adesso si sono smaliziati, con quei pochi turisti che arrivano, ma fino a qualche tempo fa’, i prezzi erano ridicoli (!), potevi trovare un tappeto antico  annodato a mano per 2000 lire! “.
“Dì, non è che avete mangiata l’insalata no?”, “sapete che c’è la “kabulite” no?”: ” Ciumbia! che cacchio è stè kabulite!” esclamò Alfredo, sgranando gli occhi un pò bovini, “certo che l’abbiamo mangiata, perchè?”, il Bergamasco scoppiò a ridere, ma smise subito, a fatica, preoccupato dallo sguardo sconcertante di Alfredo, che voltatosi verso di me, disse: “ma che ca..o ride stò coglione!”, “niente.. niente.. forse un pò di diarrea.. ma passa subito!”.
Ce ne andammo, ma vidi con la coda dell’occhio che il Bergamasco si scompisciava dal ridere!
Gironzolammo tutto il pomeriggio per il bellissimo bazaar di Kabul, con i mercanti di tappeti che esponevano centinaia di manufatti sulle spallette del fiume, ma la mia attenzione fu attratta da un assembramento di folla da cui provenivano grida ed urla: ci avvicinammo anche se alcuni cercarono di impedircelo! C’era un uomo che urlava, ed a pieno titolo: due soldati, che lo avevano sorpreso a rubare, gli avevano inchiodate le mani sulla porta del negozio in cui lo avevano sorpreso!
Molti, tutt’attorno, gli urlavano contro, mentre altri ridevano e fra loro facevano il verso del rubare! Uno di loro, un giovane di una ventina d’anni, ci notò e notò anche il nostro raccapriccio: mi venne incontro e con un sorriso feroce ed orgoglioso al contempo, mi fece cenno di seguirlo cercando di tranquillizzarmi con l’espressione del volto ed insistendo acchè lo seguissimo. Alfredo era letteralmente sconvolto ed anch’io, tuttavia lo spirito d’avventura ebbe il sopravvento e senza fiatare lo seguimmo con molta circospezione.
Svoltò camminando davanti a noi per un centinaio di metri di giravolte, fino ad uscire su di uno spiazzo fra le case, dove giaceva il corpo di una donna attorno al quale trafficavano per ricomporlo altre donne in assoluto silenzio, con il “burqa” intriso del suo sangue: intorno una caterva di pietre, alcune delle quali sporche di sangue!
La lapidazione doveva essere terminata da poco! Il giovane Afghano, si parò davanti al terribile spettacolo sorridendo con soddisfazione e disse stendendo la mano :”bakshish”, voleva la mancia!
Se da un lato, l’assistere in prima persona alle conferme dei “si dice che”, ci aveva stranamente esaltati, dall’altro ci aveva sconvolti e non solo il freschissimo ricordo di quelle esperienze terrificanti, ma anche la percezione di quanto fosse sottile e fragile il concetto di vita e di morte da quelle parti!

Sbigottiti, guardandoci intorno come se tutti ci osservassero minacciosi, a passo svelto, ci dirigemmo verso l’hotel di Alfredo per ritirare il suo zaino: Alfredo, tremando come se d’improvviso ci fossero 25 gradi sotto lo zero, continuava a ripetere, “CCa..o! CCa..o! che culo che gli hanno fatto! CCa..o!” e così fino all’albergo.
Capì subito perchè voleva cambiare, era  letteralmente una stamberga, dove affittavano in alcuni “tuguri” un letto ed in altre  il posto sacco a pelo per terra: in una c’erano due o tre ragazzi occidentali in assoluto degrado, che si facevano di eroina seduti per terra ed appoggiati contro al muro, c’era vomito dappertutto ed un tanfo insopportabile! Chiesi al mio parsimonioso amico, quanto gli costasse lì la camera e mi rispose che gli prendevano 5 afghani per notte (7.5 lire)!
Nel tornare verso il “Paropomizad”, cominciai ad avvertire dei leggeri dolori addominali che rapidamente divennero più frequenti e, contemporaneamente alcune grosse bolle di gas cominciarono a correre lungo il mio intestino come se fosse il gran premio di Monza! Pensai alla birra fredda ed allo stress dello “spettacolo” vissuto, ma comunque la situazione era seria e rischiavo di farmela addosso sul serio!
Fui risollevato quando intravidi l’ingresso dell’hotel: mi precipitai all’interno,trattenendo il fiato e senza proferire parola e mi lanciai a passettini e gambe serrate verso il gabinetto! L’odore era nauseabondo, visto che il cesso afghano è costituito da una camera con un sottopalco che raccoglie i liquami e superiormente sul pavimento un buco attraverso cui si eliminano gli stessi. Non feci in tempo a tirarmi giù i pantaloni ed a piegarmi che partì una terrificante bordata che inondò la parete retrostante e parte del pavimento!
Pensai alla barzelletta de “..La Cina sommersa dalla Merda!”
Sospiro di sollievo e senso di ritorno alla vita, mi voltai e vidi lo scempio: di acqua in giro neanche l’ombra ed avevo solo la carta igienica sempre presente in una delle tasche posteriori per “emergenze” come quella, che fare? decisi di dirlo a Mohammed! Uscì e mi recai verso l’ingresso dove trovai il ragazzo che comprese l’incidente e disse “that’s the “kabulite” sir”, “did you eat  unwashed vegetables or skinny fruits?”, “don’t worry!
it’s rather usual here!” e come un lampo mi ritornò alla mente il “Bergamascus ridens” della “steak house”!
Nel frattempo avevo perso di vista Alfredo, il quale aveva corso insieme a me per tutta la strada fino all’hotel travolto dalle emozioni, ma una volta giunti in albergo era stato accompagnato alla sua nuova camera mentre io riparavo sulla rotta del “gabinetto”: andai verso la mia e lo vidi comparire, con un asciugamano sul collo ed una andatura barcollante che tornava dalla direzione del cesso, il colorito del suo viso era di un bel verde acqua marina. “Ho vomitato tutto!” disse con aria stravolta, “è la
kabulite” stavo per dirgli, quando lui continuò, “un maiale ha cagato nel cesso dappertutto, fin su per i muri!”, “Ca..o! che schifo! è un quarto d’ora che vomito! Se lo becco gli faccio pulire tutto con la lingua!”: per evitare discussioni e volgarita’, tacqui!
Per due giorni, fui costretto ad aggirarmi entro un range massimo di 50 metri dal “Paropomizad hotel”! Ormai avevo familiarizzato con tutti i mercanti della Chicken Street, i quali per nulla sorpresi dall’evento occorsomi, restavano indifferenti se nel mezzo di una trattativa o discussione, mi vedevano alzarmi improvvisamente e fuggire, come Cenerentola allo scoccare della mezzanotte, verso il “cesso” della salvezza!

Una di queste volte mi ero allontanato un pò troppo, ma per fortuna trovai “sollievo” nel retrobottega di un mercante di pellami: sollevando lo sguardo implorante e grato al contempo verso il cielo dopo l’ennesima drammatica eiezione, lessi sulla porta chiusa scritto a pennarello, “all you need is…mexaform” parafrasi appropriata del famoso brano dei Beatles! Niente di più inesatto! “lottavo” contro il mostro fluido a colpi di antibiotici e disinfettanti intestinali, bevevo moltissima acqua o thè mangiavo solo riso in bianco sul quale spremevo succo di limone, che trovavo, pagandolo carissimo, sul banco di un venditore di frutta lì vicino: i risultati erano insignificanti!
Alfredo, che indagava pesantemente sul sospetto di un mio coinvolgimento nella “strage del cesso”, stufo di essere solidale, si dava alla macchia dal mattino alla sera, per cui gli unici interlocutori che avevo oltre i mercanti durante i vari “blitz”, erano Mohammed e Goran, l’uomo addetto alle pulizie nell’hotel.
Mohammed era uno studente e come molti studenti di ogni parte del mondo, aveva trovato un lavoro estivo nell’hotel, che apparteneva, mi disse, ad un ricco mercante di tessuti: aveva tre sorelle, una delle quali, sposata ad un tedesco, viveva in Germania; leggeva ogni cosa trovasse sull’Occidente ed amava l’abbigliamento occidentale. Ogni tanto, nel bazaar trovava qualcuno che vendeva jeans, camicie o T-shirt usate, probabile frutto di furti o baratti ed acquistava quello che le sue scarsissime risorse gli consentivano: la sua aspirazione più grande, era quella di potersi trasferire presso la sorella per poter studiare in Europa! Avevo con me numerose cambiate di vestiario, tuttavia, per l’esperienza maturata nel corso del viaggio, non usavo altro che pantaloni corti, sandali e magliette, per cui molti capi erano da considerarsi superflui. Per “scusarmi”  tangibilmente dello “scempio” prodotto, decisi di regalargli un paio di jeans ed una camicia a quadri: fu un’altro magico colpo di scena, simile a quello del “Allaha Ismahal a deh!” con Omar, il nomade iraniano! Mohammed, accettò sorpreso il dono prendendolo dalle mie mani con delicatezza: divenne serio e, piegando il capo, toccò gli indumenti spiegazzati con la fronte; poi guardandomi negli occhi, sempre serio, mi dedicò una lunga frase in afghano, al termine della quale si portò la mano destra sul cuore con un lieve inchino.
Questa volta ne avevo la possibilità e quindi, stringendogli a mia volta con simpatia la mano, gli chiesi il significato di quel cerimoniale: egli sorrise e mi spiegò che aveva ringraziato Allah per la fortuna che gli aveva concessa dandogli l’opportunità di incontrarmi, che aveva invocata la sua benedizione su di me anche se non appartenevo alla sua religione e sul dono che gli avevo fatto : da quel momento egli mi considerava un suo fratello!
Gli risposi che mi sentivo onorato dalle sue parole e che gli ricambiavo lo stesso sentimento.
Da quel momento, Mohammed si comportò veramente in modo straordinario: verso sera, ricomparve vestito perfettamente degli abiti nuovi che aveva già fatti adattare subito alla sua taglia di due o tre misure inferiore rispetto alla mia.
Era raggiante! Mi chiese come stavo con la “kabulite” e quando gli spiegai dell’insuccesso delle varie terapie, mi disse: “wait a minute, I’ll talk to Goran, perhaps he can help you!”
Goran?!?, che c’entra Goran il “factotum”! mi chiesi. Li vidi venire verso di me: Goran aveva in mano una tazza di terracotta contenente acqua bollente. Dalla borsina bisunta che un tempo doveva essere stata di pelle lavorata appesa al collo, tirò fuori una pallina di “black afghan”, la bruciacchiò sulla fiamma di una candela, la depose su di un piattino e la sbriciolò: versò la polvere ottenuta nell’acqua bollente e mi porse la tazza facendomi il segno di bere!
Mohammed si accorse della mia titubanza e mi disse, “you can trust him”, “he is very expert in his tribù about the traditional Afghan medicine!”;
“Cacchio!” pensai rioccidentalizzandomi e prendendo tra le mani la tazza bollente,” stai a vedere che questi, con la scusa della fratellanza, mi abioccano e mi fregano tutto!” ma oramai era troppo tardi per riflettere e
tracannai il liquido amarissimo e bollente, il cui vapore mi fece subito comprendere la potenza della terapia d’urto cui ero sottoposto dal “collega” Goran!
Dopo solo alcuni secondi, l’effetto del “Black” esplose dirompente: i suoni divennero ovattati , la luce della forte lampadina rischiarò il cortile a giorno e mi balzarono agli occhi tutti i colori presenti attorno e che il mio occhio in condizioni normali non aveva rilevati. Guardai Mohammed che sorrideva dietro ad un naso e labbra enormi, mi sembrò di un colorito livido, Goran invece era serio e mi fissava con i piccoli occhi scurissimi e pungenti che riflettevano una luce spiritata: mi fecero sdraiare  sul tappeto che era disteso per terra da un lato e Mohammed mi si accovaccio di fronte osservandomi con aria tranquillizzante.
Cominciai a lasciarmi andare ed a rilassarmi, chiusi gli occhi ma il mio cervello li costringeva a stare come aperti! Dall’oscurità apparvero i tre cavalieri che avevo incontrati prima di arrivare a Kandahar: galoppavano veloci nella luce bianca del deserto sollevando una enorme nuvola di polvere che si alzava lenta verso il cielo blu spostata verso sud dal vento dei cento giorni; la mia mente salì in alto con lei ed i cavalieri divennero sempre più minuscoli, mentre l’immagine del deserto si allargava a dismisura fino a poter scorgere lontano Herat, Kabul, Kandahar, una miriade di carovane “kuchi” con la loro andatura lenta e rituale, le montagne di rocce e sassi, la vallata di Bamyan, il grande Buddha cui il volto tagliato non era riuscito a togliere l’espressione di inesorabile ed immortale serenità!
Una voce da lontano chiamava il mio nome: era la voce di Mag! Si era la sua voce limpida, armoniosa, spumeggiante! “Beppe, Beppe, Beppe!” ed una serie di scossoni mi fecero sparire dagli occhi quello spettacolo straordinario!
Furibondo li riaprì : ero pronto a colpire il responsabile di quell’intrusione e mi apparve il volto di Maggie: “meno male!”, pensai,temevo che il “viaggio” fosse finito, “Beppe, Beppe” continuò Mag, “what happens”, “oh God, you look very sick!”. Aveva i suoi occhioni blu spalancati e mi scuoteva le spalle energicamente facendo ondeggiare i codini ai lati del capo: “please Beppe, come back!”, “oh my God!”. Mi strofinai gli occhi: ma…era proprio Mag, ed accanto a lei apparvero Alfredo e JeanFrancois, il francese; dietro ci doveva essere qualcun altro.. ma.. non riuscivo a distinguere..: schermandomi gli occhi con la mano dalla luce violenta, chiesi: ma…. dove diav…..che c’entra Mag…..dove sono i cavalieri…! Lottavo per orientarmi! Alfredo con i suoi baffoni da tricheco, sentì che diceva: “e bravo! Hai capito che sballo si è fatto! Stò stronzo! Ha aspettato che lo lasciassi solo! Che stronzo! Quando glilo propongo io, non se ne parla nemmeno e poi….che stronzo!
Pian piano ritornai nel mondo dei vivi, ma sentivo di essere sempre sotto l’effetto dell’hashish. Capì che Alfredo era andato da “Sygghy’s” il locale frequentato dai viaggiatori stranieri, dove aveva incontrati Mag i Francesi e gli Spagnoli e parlando con loro era saltato fuori il mio nome ed eccoli tutti lì,  attorno al mio “capezzale”!
Mag sembrò rinfrancata dalla mia reazione “God !” ripetè, “what a damn shit did you smoke?” “you look horrible”.
Non riuscì proprio a spiegarmi, ma vidi che Mohammed lo faceva per me, tranquillizzando tutti: Goran, un pò più in là, aveva deposto per terra il suo Chilum ed all’improvviso cominciò a battere le mani ripetutamente richiamando l’attenzione di tutti; stava ritto a piedi uniti come sull’attenti, sembrò che stesse per dire qualcosa, invece iniziò ad intonare, con una voce che mi sembrò inaspettatamente bellissima, una lenta nenia afghana, muovendo ritmicamente le braccia e lentamente cominciò a danzare!
Aveva approssimativamente dai 50 ai 60 anni, magro, il volto ruvido e scuro, una espressione intensa sottolineata dal rimmel con cui si sottolineava le basette ed i baffi (come gli Indiani, anche gli uomini Afghani usano spesso questo tipo di “trucco” per sottolineare alcuni dettagli, simbolo della loro virilità): era vestito dalla tipica tunica lunga sui pantaloni ampi e raccolti alle caviglie, scalzo, il gilè nero ed una “papalina” nera che, non ne sono certo, ma credo che contrassegnasse un ceto più modesto.

Egli con movenze eleganti ma non effeminate, con gli occhi fiammeggianti, cominciò ad ondeggiare sui fianchi lentamente, serio, ascoltando il ritmo che da solo si dava cantando: protendeva le braccia verso il cielo, poi verso di noi mentre la sua nenia diventava più veloce, fino a diventare ossessiva ed incalzante; cominciò a piroettare su se stesso tenendo le mani sui fianchi ed il collo rigido eretto scalciando rapidamente l’aria con i piedi. Poi il ritmo si abbassò nuovamente con progressione ed egli a passi ampi e sicuri, sempre con il collo rigido e le mani sui fianchi, camminò attorno passandoci come in rassegna e soffermandosi per un attimo a fissare freddo negli occhi ciascuno di noi; aveva dipinta sul viso una espressione quasi indemoniata, come se fosse in “trance”, con un accenno di sorriso terribile agli angoli delle labbra strette ed uno sguardo fisso di ghiaccio!
Ripensando a quei momenti, in seguito, credo che quella danza potesse rappresentare in parte lo spirito indomito, il coraggio, la determinazione e la sfida del popolo Afghano, nei confronti di un mondo lontano ed invadente che cerca di convertire alla propria immagine un popolo le cui radici sono pluriradicate nel tempo e nelle tradizioni secolari!
Avevo la gola secca come la sabbia del deserto: avevo assistito a quella danza, assorto e con la bocca aperta nel tipico atteggiamento di chi è in preda alle evanescenze dell’hashish. Avevo anche una fame terribile, incontenibile, avrei divorata qualunque cosa! Chiesi a Mohammed da bere ed egli mi portò poco dopo una caraffina di thè nero bollente senza zucchero: “now it’s better if you drink just some tea”, “you’ll eat something tomorrow, not tonight!”.
A malincuore accettai il consiglio, trangugiai il thè e poi ancora thè e poi ancora, finchè non cominciai a sbadigliare clamorosamente! Mag non si era allontanata da me per nemmeno un attimo, seguiva le mie mosse con la coda dell’occhio per capire a che punto fosse lo smaltimento della “sbronza”! Aveva assistito alla danza di Goran con una espressione seria e concentrata ma ogni tanto “sentivo” il suo sguardo su di me. “Paul?” le chiesi: “back to England” tagliò corto! Mi raccontò in seguito, che appena fuori Herat, erano stati fermati ad un posto di blocco dei soldati, Paul era in bevuta ed aveva reagito violentemente alla rude arroganza dei militari, i quali senza complimenti lo avevano riempito di botte, avevano presi tutti i loro contanti e li avevano costretti a ritornare indietro. Paul aveva deciso di interrompere il viaggio ad Herat, mentre Mag aveva chiesto a Claire, la ragazza francese, ancora allo “Shahazada” se poteva avere un passaggio da loro per proseguire per Kabul.
Lite furibonda, bagaglio nella polvere ed addio senza dolore!
Ed eccola lì, accanto a me, con il suo aspetto falsamente fragile, i suoi occhioni blu, i codini e la sua testolina dura come il granito!
Era molto tardi, guardai confusamente l’orologio, erano trascorse 4 ore dall’inizio della serata e sembrava un’eternità, come se il tempo si fosse fermato: Mark propose a tutti di restare a dormire lì per quella notte e Mohammed fu ben lieto di occupare quasi tutte le camere; Goran era scomparso con il suo chilum ed il silenzio ovattato della notte  tiepida avvolse tutti noi.
Mi avviai verso il mio letto, mi reggevo in piedi con difficoltà, Mag venne con me dopo aver rifiutata l’offerta di “disinteressata” ospitalità dello sciacallo Alfredo; ci sdraiammo l’uno accanto all’altra nella stretta branda di legno e crine e sprofondammo immediatamente in un sonno profondo.
…Goran danzava ancora e mentre egli continuava a danzare, mi si aprì in sogno una finestra lontana nel tempo, nell’epoca in cui ero poco più di un bambino: eravamo nella casa di campagna in mezzo ai vigneti ed agli uliveti di mio Zio, lo Zio Niny’, nei pressi di uno dei tanti caratteristici paesetti del sud; una grande casa, molto più grande nel ricordo che nella realtà, nella quale tutti i rami della nostra famiglia, per consuetudine consolidata, si riunivano nel periodo autunnale in occasione della vendemmia dell’uva!
All’epoca, non c’era ancora la corrente elettrica e l’illuminazione era assicurata soltanto dai fumosi lumi a petrolio e dalle candele: al piano terra, viveva la famiglia del “giardiniere”, Rosario, il quale si riuniva tutte le sere con i suoi familiari, dopo la cena semplice e frugale, ad attendere l’ora del sonno, stando seduti attorno a “lu focalire”, un incrocio tra la cucina economica in muratura ed il camino, tipico delle case rurali dell’epoca.
Noi bambini, non avendo molti altri svaghi su cui contare, spesso sgattaiolavamo giù, per partecipare alla magia della luce del fuoco assieme a quella gente per molti versi per noi misteriosa: spesso ascoltavamo a bocca spalancata le storie antiche che Rosario o Vincenzina, sua moglie, raccontavano. Erano storie piene delle superstizioni, dei misteri antichi, dei “dicono che…” tramandate di generazione in generazione fino a quella, stanca come le precedenti per il duro lavoro della “giornata” nei campi e sempre assillata dalla necessità di sfamare un numero ogni anno maggiore di bocche!
Quella sera, una delle tante, bussò alla porta ed entrò “lu Giuanninu”, (tradotto, Giovannino): era un contadino che viveva da solo in una casupola poco distante, circondato da un numero incredibile di cani, la sua unica grande passione assieme a quella per il vino nero.
Di lui si sapeva poco: aveva circa 40 anni, ed anche se era abbrutito dal tipo quasi primitivo di vita che conduceva, era un bell’uomo; alto, asciutto,aveva sottili occhi azzurrissimi, capelli scuri, baffoni folti e cadenti: la fronte era perennemente bianca a causa del cappellaccio che indossava durante il giorno, mentre la pelle del viso era bruciata dal sole.
Nessuno sapeva da dove venisse, nè chi fossero i suoi parenti, nè se mai ne avesse avuti!
Giovannino, in evidente stato di ebbrezza, disse a Rosario, “la bona espera!”, buona sera, accompagnando il saluto con la mano verso la inesistente falda del cappello: “che aria da mortorio” disse in dialetto strascinando le parole, “ci vuole allegria, sennò possiamo anche essere già tutti morti e nessuno se ne accorgerà!” così dicendo si mise dritto al centro della stanza, illuminato dalla calda e tremula luce rossa del fuoco e con un bagliore di follia negli occhi, cominciò a cantare una delle canzoni che da
secoli i braccianti cantano mentre staccano e trasportano i grappoli d’uva durante la vendemmia; una nenia triste ed accorata che parlava dell’amorenon corrisposto dalla propria bella.
Contemporaneamente, anche lui a piedi scalzi, si mise a danzare una specie di tarantella figurata, dai movimenti rituali ed ossessivi sempre accompagnandosi con le note disperate della sua canzone…..
Nella mia fertile fantasia di bambino, quelle immagini attecchirono e radicarono in modo profondo ed indelebile!
Il mattino successivo mi svegliai piano, per non disturbare il sonno ancora profondo di Mag ed uscì fuori nel cortile del “Paropomizad”, respirando profondamente la luce fresca del primo mattino, mi resi conto che la “kabulite” era passata e che dopo il sogno di quella notte, “sapevo” il perchè mi ero spinto fin laggiù, tra quella fantastica gente lontana!
Poco dopo, cominciarono a svegliarsi gli altri: Alfredo mi

passò accanto con l’aria di uno appena scampato ad un tifone, chiedendomi: ” sei già stato al cesso?”, “non ancora”, gli risposi, “meno male ca..o!” disse lui proseguendo sulla sua rotta come per inerzia.
Dopo i Francesi e gli Spagnoli, apparve finalmente anche Mag! Tirai fuori da”Ford” la mia caffettiera con il fornelletto e, visto che non c’era altro, preparai un buon “espresso” seguito subito da altre due caffettiere a grande richiesta degli altri!
Mohammed, fu costretto ad accettarne un pò (l’uso del caffè era sconosciuto agli Afghani), ma , anche se con garbo, dopo il primo assaggio, con una smorfia di disgusto, corse a sputarlo dietro alla siepe! Mortificato, continuò a scusarsi pregandoci tutti di non fraintendere come un’offesa il suo gesto, ma il caffè proprio non gli era piaciuto!
Facemmo il punto sulla situazione e, visto che il “gruppo” di Mashad si era ricostituito con l’aggiunta di Mag ed Alfredo e poichè la situazione complessiva era molto cambiata rispetto alla parte di viaggio vissuta in precedenza, decidemmo di programmare insieme l’itinerario successivo: poco più a nord di Kabul, verso ovest, si poteva prendere la “via della seta” e percorrerla in senso contrario per quasi la metà, per raggiungere la valle dei Buddha di Bamyan e quella dei laghi di Band-i-amir.
Mentre valutavamo il percorso sulla mappa di Miguel, uno degli spagnoli, Mohammed chiese se poteva intervenire esprimendo il suo parere e darci un consiglio al riguardo: naturalmente lo invitammo a farlo ed egli, confermando quanto ci era stato detto ad Herat, ci sconsigliò vivamente di avventurarci con i nostri pulmini lungo quella pista, sia a causa della impervietà della strada, sia per la pericolosità per gli stranieri di incappare in “sgradevoli” incontri! Dal tono e dall’espressione con cui lo disse, ci rendemmo conto che quella poteva veramente diventare un’avventura senza ritorno o, nell’ipotesi migliore, senza nulla al ritorno!
Ma l’intelligente ragazzo, aveva intuito quanto tenessimo a raggiungere quelle valli remote ed affascinanti e ci propose in alternativa, di noleggiare per circa 10 dollari al giorno un fuoristrada afghano con autista per raggiungere con quello Bamyan: la targa dell’automezzo non avrebbe dato nell’occhio e sarebbe stato molto adatto per affrontare le ripide gole sassose ed i guadi che, ci disse, avremmo incontrati lungo il tragitto.
Oltretutto esisteva anche il rischio concreto di perdersi nelle sterminate vallate a causa della mancanza assoluta di indicazioni stradali! Gli Spagnoli si tirarono fuori subito, tra l’altro uno di loro aveva la malaria ed era stato malissimo, dissero che preferivano cambiare itinerario e proseguire a nord verso Maimana e Mazaar-i-shariff, mentre noi altri demmo
l’incarico a Mohammed, di trovarci il mezzo adatto: eravamo tra i quattro Francesi, Alferdo, Mag ed io più l’autista in otto, stringendoci un pò ci stavamo tutti!
La sera Mohammed ci informò di aver trovato per noi, un pulmino “Toyota” a trazione integrale che poteva portarci fin laggiù, un nove posti, ma che gli autisti erano in due e che erano in parola con altri due tedeschi per lo
stesso tragitto: volevano 12 dollari al giorno in tutto ed i pasti pagati da noi a parte, per il dormire stavano nel pulmino! Dopo una velocissima consultazione e rassicurati da Mohammed sulla robustezza del veicolo, decidemmo di accettare: dovevamo però dare la conferma quella sera stessa.
Uscimmo dal “Paropomizad”, Alfredo, Mark, Mohammed ed io, mentre le ragazzeper precauzione restarono con gli altri all’hotel e ci avviammo verso il parcheggio dove si trovavano i due autisti: la gente si era sistemata per la notte, chi sulla branda, chi per terra sulle stuoie lungo i lati delle strade. Alcuni dormivano profondamente, altri invece, specialmente i ragazzi più giovani, erano svegli e soddisfacevano reciprocamente le carenze sessuali di cui la mentalità ed i costumi del loro paese li rendevano schiavi!
Lo facevano, seppur coperti dai loro panni consunti, in modo evidente e senza grande pudore: il nostro passaggio sollevava magari qualche risatina soffocata ma nulla di più!
Alfredo, rideva nervosamente tra i denti dicendo: “Ca..o, ma questi si ciulano tutti!” , “Allah, Allah, Allah, come si ciulano questi quà!” mentre invece Mark, che probabilmente ricordava ancora lo spavento preso con il gigantesco mercante di lapislazuli ad Herat, non proferiva verbo ed evitava di soffermarsi con lo sguardo!
All’ovvia domanda, Mohammed rispose senza imbarazzo spiegandomi perchè ciò accadeva: mi spiegò che il matrimonio in Afghanistan era in pratica una sorta di baratto! I parenti dello sposo, prese le opportune informazioni sulla moralità della fanciulla ritenuta “matura” per il matrimonio, contattavano i parenti della ragazza e proponevano l’unione: per poter fare
questo, dovevano offrire in cambio, un adeguato compenso consistente in bestiame, case, oggetti di valore e quant’altro!
Più la fanciulla era giovane ed a dire delle donne che l’avevano veduta, bella, maggiore era la richiesta di compenso!
Se il “contratto” raggiungeva l’accordo, per un certo periodo, i promessi, potevano incontrarsi presso la casa dei parenti di lei, ma sempre in presenza di qualcuno.
Dopo il “fidanzamento” e quando il padre della sposa lo decideva, lo sposo poteva restare a dormire con la ragazza per alcune notti e quindi “consumare” il rapporto fisico con lei, quale “garanzia” che l'”investimento” era buono!
Dopo, se tutto andava bene, si stabiliva la data delle nozze!
Se invece il “promesso” rifiutava di convolare, la ragazza era ripudiata da genitori e parenti perchè disonorata e, con la famiglia dello sposo mancato che doveva comunque versare una parte del pattuito, si accendeva una faida spesso sanguinosa, per l’eternità!
Per fortuna, mi spiegò Mohammed, questo era un evento molto raro!
Tutte le spese della cerimonia, compresi gli abiti per i suoi parenti e per quelli della sposa, oltrechè naturalmente banchetto ed affini, spettavano allo sposo! Da qui, si deduce facilmente, che a sposarsi erano in maggioranza i vecchi e ricchi mercanti, (ne vidi alcuni con al seguito anche tre mogli ed anche se coperte dal “burqa” si intuiva che erano giovanissime!), che a seconda delle loro finanze potevano permettersi anche più spose per loro o per i loro fortunati figli, mentre la stragrande maggioranza dei comuni e poveri mortali, restava a bocca asciutta ed era costretta a ricorrere al “mutuo soccorso” per spegnere gli ardori della carne!
Ascoltando interessato ed allibito la spiegazione di Mohammed, giungemmo in uno spiazzo illuminato da una luce fioca, dove tutt’attorno c’erano una ventina di automezzi parcheggiati: Mohammed chiese ad alta voce chi fosse “Zahed” ed uno spilungone magro come uno stecco, di una trentina d’anni, fece capolino assonnato da un “Toyota” chiaro! Non parlava inglese purtroppo
e questo poteva costituire un problema, ma pattuimmo lo stesso che venisse la mattina dopo al “Paropomizad” a prenderci molto presto: ci disse che per arrivare a Bamyan ci voleva tutta la giornata e che lui voleva arrivarci prima di notte!
Mohammed non volle che gli dessimo un anticipo, ma, davanti a lui, prese 10 dollari e se li mise in tasca, assicurandogli che erano suoi, ma che glieli avrebbe dati soltanto il mattino dopo, quando veniva a rilevarci! In seguito ci raccomandò di non dargli tutti i soldi in anticipo, ma di pagarlo alla fine di ogni giornata!
Quando più tardi al “Paropomizad”, raccontai a Mag delle abitudini afghane e di quello che avevo visto per strada, mi disse ridendo: “you’re a lucky guy Beppe!” , ” that’s not your problem, absolutely not!”, “could be for your friend, for
Alfredo , but do not tell him, please!”
Alle 4,30 eravamo tutti pronti! Perfino Mag, che aveva un’aria arruffata e stravolta dalla precoce interruzione del suo amico sonno ( e Dio solo sà, quanto possa essere… pericoloso turbare il sonno di una donna che dorme!). Bevemmo quello che per qualche giorno sarebbe stato l’ultimo caffè e sistemate nello zaino le cose essenziali, chiusi Ford consegnandone le chiavi in custodia a Mohammed che si dimostrò lusingato per la fiducia in lui riposta: ero veramente tranquillo, sapevo che non avrei potuto affidare le mie cose a mani più sicure delle sue!

I Francesi, sempre la sera precedente, avevano ritirato su mio suggerimento il loro VW dal primo hotel dove si erano fermati arrivando a Kabul e lo avevano parcheggiato accanto a Ford.
Alfredo si confezionò il suo primo “joint” della lunga giornata che iniziava e così si preparò al “viaggio nel viaggio”!
Alle 5, Zahed picchiò con forza il pugno sul portone del Paropomizad: Mohammed andò ad aprirgli e vidi che si tratteneva a parlare con lui. Capì dai gesti che gli rivolgeva alcune raccomandazioni per noi e gli dette il biglietto da 10 dollari che aveva custodito come pegno per il nostro trasporto: il ragazzo era davvero in gamba!
Prese lo zaino mio e quello di Mag e li sistemò subito per primi all’interno del Toyota sotto ai sedili, mi disse ammiccando: ” it’s better to take them inside with you!”.
Un’ attimo prima di salire a bordo, mi raccomandò di essere molto prudente e di tenere sempre d’occhio il pulmino ed i due guidatori: ” sembrano affidabili” disse, “ma” concluse citando un vecchio proverbio Afghano, ” perfino le dita della mano sono sorelle ma nessuna di loro è uguale all’altra!”, colsi l’antifona!
Con Zahed c’era il suo socio, un piccoletto nero come un corvo tutto nervi sulla cinquantina, corredato dai soliti baffetti “alla D’Alema” e del copricapo a “papalina”!
Sistemati tutti i bagagli, prendemmo posto e finalmente partimmo!
Attraversando il risveglio di Kabul, ci fermammo davanti ad un’altro hotel dove ci aspettavano i, meglio, “le” due tedesche che avrebbero diviso il viaggio con noi: Ursula ed Heidi! Con gli “zainen” sulle “spallen”, scarponi da trekking e calzettoni, shorts e “kappellinen”, le due efficienti e tetragone “virago” erano pronte sul marciapiedi.
Ursula di circa trent’anni era alta circa un metro e settanta, robusta, biondissima naturalmente! Dal suo aspetto si capiva subito che era una”tosta” ed avvezza alle situazioni impegnative.
Heidi invece più giovane, era un pò meno alta, più fine, dai capelli castani raccolti sulla testa in due treccione attorcigliate in un “toupè”, molto carina e ben fatta: vidi subito Alfredo molto interessato a lei “fare la ruota” e fare posto accanto a sè: Vi si “accomodò” invece subito Ursula sorridendogli compiaciuta, schiacciandolo contro il finestrino con la sua
mole giunonica! Mi sembrò una scena tratta da un episodio del mitico “Willy il Coyote”!
Heidi, grazie alle dimensioni più contenute, si sistemò assieme a Claire, Mag e Mark, stringendosi in quattro sul sedile in fondo al pulmino, io ero seduto al finestrino d’avanti, accanto ai due prodi chauffeurs.
La valle di Bamyan, distava circa 230 km a nord-ovest di Kabul ad una altitudine di 2500 metri: per circa 80 km avremmo percorsa la “international highway” verso nord in direzione Mazaar-i-shariff, poi avremmo virato verso ovest prendendo la “via della seta” in direzione Bamyan- Band-i-Amir- Herat.
Kabul scorreva fuori dai finestrini spalancati: già il traffico andava intensificandosi! Percorremmo un lungo tratto in salita, mentre Zahed ci dava silenziosamente lezioni sulle tecniche di guida afghana e sulle vigenti regole del locale codice stradale. Il mio piede destro cercava spasmodicamente un inesistente pedale del freno e credo che il fondo del Toyota al termine del viaggio presentasse una “bozza” nella lamiera, frutto della insistente pressione che vi esercitavo!
Penso che nei modelli che la casa giapponese esporta nei paesi orientali o comunque in via di sviluppo, il clackson entri automaticamente in funzione con l’accendersi del motore!
Lungo la strada, davanti a noi, la città si arrampicava espandendosi sul fianco della montagna, le case, tutte ad un piano, abbarbicate ed affiancate in ordini regolari disegnavano linee rette interrotte quà e là dai sentieri per accedervi producendo uno straordinario effetto architettonico e paesaggistico dovuto ai giochi delle luci e delle ombre dell’alba incipiente, rievocando il ricordo di alcuni pittori fiamminghi e delle loro pennellate grasse, decise, ricche di colore: dietro la catena montuosa, il cielo blu-cobalto, andava nascondendo le stelle cedendo ai raggi del sole che oramai spingevano per uscire proiettando dapprima una fascia rosa, poi giallo- rossastra, poi azzurra poi di un bianco abbagliante; con il salire del sole, ricominciava a soffiare contro di noi il pedante “vento dei cento giorni”!
Bestemmiando e strombazzando ininterrottamente, Zahed ci condusse fuori dal cuore di quel “Luna Park”, lungo lo stretto nastro asfaltato e sconnesso: percorremmo circa 50 km in un paio d’ore, c’era molto “traffico” di carovane, carri, camions e mezzi pubblici che marciavano verso Kabul, per arrivare di primo mattino al mercato!
Alle 8 circa, ci fermammo in un villaggio per una breve sosta, giusto il tempo per bere un “chay” e far pipì: sullo spiazzo polveroso, uno dei variopinti autobus afghani, stipato fino all’inverosimile anche sul grande portapacchi sul tetto, si accingeva a ripartire. Un uomo dalla lunga barba con il turbante bianco ed il volto coperto dalla coda del turbante stesso per ripararsi dalla polvere, accovacciato sul tetto, percuoteva con un legno ricurvo il ventre di un grosso tamburo ad un ritmo veloce e cadenzato, per richiamare a bordo gli ultimi ritardatari. Un ragazzo custodiva una grossa mandria di dromedari attendendo probabilmente che il padre finisse di bere il suo thè accovacciato sulle stuoie della “tea house” lì davanti, chiacchierando con la calma e la gestualità tipiche degli Afghani con gli altri carovanieri: gli Afghani adorano parlare fra di loro! In assenza assoluta di ogni altro mezzo di informazione e comunicazione, d’altronde, l’unico modo per aggiornarsi su fatti di qualunque genere, era il parlare con quanti più possibile dei viaggiatori provenienti da località più diverse e lontane!
Il ragazzo vide che aspettavo anch’io che gli altri ritornassero, afferrò per le redini uno dei dromedari che osservavo tanto per far passare quei minuti e mi fece segno di provare a montarlo: era una cosa che mi ero riproposta di fare prima o poi, ma fino a quel momento non mi si era ancora presentata l’occasione per poterla sperimentare; vidi che gli altri si attardavano ancora, così accettai il suo invito!
Avvicinatomi, egli fece accovacciare sulle zampe il dromedario e mi aiutò a salirvi in sella, spiegandomi la posizione delle gambe, dei punti dove tenermi e come dirigere la nave del deserto: a questo punto l’animale si alzò, prima sulle zampe posteriori, poi sulle anteriori, proiettandomi pericolosamente in avanti e poi sollevandomi ad un’altezza che mi sembrò vertiginosa rispetto a quella che si raggiunge stando in sella ad un cavallo!
Ero accovacciato con le gambe incrociate sul cocuzzolo di una montagna mobile e puzzolente, annaspando faticosamente per tenermi in qualche modo in equilibrio: fin qui, tutto bene! Il ragazzo mi passò le redini e dette una pacca sul sedere del dromedario che si mise a trottare con il suo passo ad ambio, facendomi uscire i “cosidetti” dalle orecchie! Cercai di mettere in pratica le “istruzioni di guida” che avevo recepite e tirai con forza ambedue le briglie per metterlo al passo: l’animale per tutta risposta, aumentò l’andatura e cominciò a protendere il lungo collo verso le mie gambe cercando di morderle!
Chi non ha provato, non può sapere quali siano le dimensioni reali della testa e della dentatura di un dromedario!
Guardai sgomento verso il ragazzo e vidi che si stava schiantando dal ridere, circondato da altri spettatori occasinali attratti dal mio show! La situazione però per me era tuttaltro che ridicola: L’animale, furibondo, continuava ad aggiustare il tiro ed un paio di volte sentì la bava calda della sua bocca bagnarmi le gambe, non riuscivo a controllarlo e, non solo
non potevo buttarmi giù, ma dovevo fare di tutto per non cadere sul terreno sassoso sul quale sicuramente mi sarei ferito in modo grave!
Concentrai tutte le mie forze per tenermi ancorato alla sella rudimentale, la schiena mi faceva male in modo lancinante, mollai le redini sul collo del dromedario e mi preparai al peggio tenendomi aggrappato fortemente! Quasi istantaneamente l’animale si fermò, rallentando subito l’andatura! Il ragazzo corse a prenderlo e lo fece accovacciare sulle zampe, facendomi, pur continuando a ridere, dei complimenti per la mia “maestria”; anche gli altri spettatori acclamavano divertiti !
Scesi a fatica dalla gobba, ero dolorante dappertutto, gli allungai sulla mano tesa davanti a me un paio di afghani e mi rintanai sul pulmino: compiuta anche quell’esperienza! Molto, molto meglio, comunque, usare le proprie gambe, pensai!
In breve rientrarono tutti gli altri e ripartimmo.
Giunti al bivio, Zahed voltò a sinistra ed entrammo sulla mitica “via della seta”: era una pista sterrata, poco più di uno stretto sentiero che riprese a salire, inerpicandosi fra le strette ed altissime gole rocciose dei Canyons dell’Hindukush!
La consapevolezza di ripetere gli stessi passi dei milioni di viandanti che per millenni avevano percorso quel cammino con le loro differenti culture, le  loro armate, i loro forzieri colmi di preziose mercanzie da un capo all’altro di mondi così distanti ma al contempo così ricchi di storia, di tradizioni, di simulacri, mi emozionava fortemente!

Sprofondato nelle mie riflessioni, godevo in pieno della bellezza del paesaggio: per una volta non dovevo concentrarmi su quella guida impegnativa e difficile!
La pista salì per molti chilometri, dapprima gradualmente poi in modo più rapido e deciso girando sinuosamente nei fondo valle ed arrampicandosi lungo i costoni rocciosi:  Zahed, era molto abile nello scegliere prontamente i punti sui quali era più conveniente far passare le ruote per ridurre il rischio sempre molto consistente di improvvise rotture meccaniche o di pericolosi cedimenti del terreno. In alcuni tratti, il fondo stradale appariva come il letto asciutto di un torrente: il Toyota, in presa totale sulle quattro ruote, “sparava” rabbiosamente e fragorosamente dietro di sè e sotto il fondo del pianale centinaia di sassi, sollevando nuvole di polvere spessa; in altri tratti invece esso era ricoperto di sabbia, una sabbia bianca soffice, impalpabile, che lo faceva sbandare paurosamente, costringendo l’autista a procedere senza rallentare, zigzagando in salita per non bloccare il pulmino! Ford, nonostante la sua indole generosa e nonostante la perizia acquisita nel tempo dal suo guidatore, non avrebbe mai potuto farcela! Percorremmo per chilometri e chilometri,  procedendo quasi sempre a passo d’uomo, le gole altissime e strette attraverso le  rosse montagne di roccia e sassi: si saliva per poi discendere sul versante opposto, una breve pausa in piano e poi ancora su e poi giù! Incontrammo raramente dei villaggi e quando ciò accadde essi erano formati da poche ed approssimative catapecchie dalle quali occhi stupiti e preoccupati dalla novità osservavano il nostro passaggio: occhi poveri, vestiti di stracci, isolati, fuori da ogni contatto concreto con il mondo!
Notai piacevolmente che le donne non indossavano il burqa, erano sempre coperte da vesti ampie e lunghe fino a ricoprire i piedi scalzi, il capo coperto dal velo, ma con il volto libero. Potei finalmente osservare i volti di donne e fanciulle spesso di una bellezza sconvolgente: grandi occhi scurissimi contornati da folte sopracciglia nere, labbra carnose come frutti maturi, sorrisi bianchissimi e luminosi! Solo alcune, sentendosi osservate, tiravano un lembo del velo fino a coprire il volto e lo trattenevano fra i denti. Jamal, il “secondo” dell’autista, scendeva spesso dal pulmino procedendo a piedi davanti a noi per saggiare il fondo della pista o per accertarsi che i frequenti smottamenti del terreno o le cadute di sassi non costituissero un pericolo od avessero ostruito il passaggio nascosto dalle curve più impegnative nel mezzo delle quali arretrare in retromarcia sarebbe stato impensabile!
Più di una volta il percorso era così angusto da rischiare di restare incastrati per pochi millimetri all’interno della gola, eppure Mohammed mi aveva detto che anche alcuni dei loro autobus, nella stagione secca, raggiungevano Bamyan!
Dopo un’ultima lunga salita, la pista si aprì in un altopiano: incredibile!
Diecine, centinaia, migliaia di montagne dalla sommità arrotondata dai venti come dune gigantesche, si inseguivano a perdita d’occhio stagliando lontano il cielo blu e terso: da qualunque parte  volgessimo lo sguardo lo stesso spettacolo!
Chiedemmo a Zahed di fermarsi: assoluto e solenne il silenzio!
Nessuno di noi fece commenti! Restammo tutti simultaneamente rapiti dalla straordinaria ed inattesa visione apertasi ai nostri occhi, nessuna esclamazione avrebbe potuto aggiungere altro, soltanto il fischiare del vento interrompeva quel soffice ed ovattato silenzio!
Il rosso delle rocce, le cui asperità erano addolcite e levigate dalla distanza, era screziato quà e là da sfumature rosa, azzurre e turchese:  il sole alto, creava un gioco incredibile ed imprevedibile di luci ed ombre che occupava completamente il nostro campo visivo ripetendo lo stesso motivo all’infinito!
Che l’architettura di quello spettacolo fosse opera di Dio, oppure di Allah o di Buddha o Visnù o del sortilegio di un Mago o dei venti e dei rigori invernali nei millenni, non aveva alcuna importanza!
Il profumo maestoso del mondo, della sua straordinaria bellezza, della sua potenza della sua vetustà pervase prepotentemente tutti noi, ossigenando il nostro spirito e lasciandoci passivi e refrattari ad ogni reazione!
La fantasia si scatenò: immaginavo e “vedevo” Gengis Khan, Alessandro il Grande, Tamerlano, i condottieri Kushana, Marco Polo, attraversare seguiti dai loro eserciti, dalle loro carovane, quelle vallate!
Potevo “ascoltare” lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli, “percepire” il trambusto delle ruote dei carri, degli armamenti, le grida, le voci, i canti, il latrare nervoso delle mute dei cani da combattimento!
Quelle rocce, quelle vallate erano testimoni silenziosi di millenni di storia e di eventi che avrebbero influenzato il corso della nostra vita e della nostra cultura e noi della loro: chissà, se esse avessero potuto tradurre in parole la loro immobile saggezza, quale nuova verità avrebbe potuto scaturirne, senza i filtri preconcetti delle religioni, delle influenze culturali, delle superstizioni, delle sudditanze da cui gli scrittori ed i trascrittori contemporanei e successivi erano stati oppressi!
Nella zona più a valle dell’altopiano, sbucarono da una gola una ventina di afghani a cavallo!
Galoppavano veloci, e si inseguivano agitando gli scudisci alternandosi alla testa del gruppo! Ci videro dal basso e gesticolando lanciarono nella nostra direzione grida festose, esibendosi in estemporanee evoluzioni sui loro cavalli!
Una rappresentazione di Libertà e della gioia di viverla! “Butzkashi” disse finalmente Zahed rompendo il silenzio!
“Bamyan”, “Butzkashi” ripetè, mentre i suoni e le immagini dei  cavalieri si spegnevano lentamente lontano in una nuvola di polvere! Attraversammo guadandolo, il letto di un fiumiciattolo situato in una piana, abbagliata dalle luci bianche riflesse dal terreno sabbioso; effettuammo una ulteriore sosta, durante la quale ci concedemmo una provvidenziale rinfrescata in quell’acqua resa ancor più fresca e cristallina dall’aridità del paesaggio circostante.
I raggi del sole erano ormai molto bassi, quando quasi all’improvviso ci ritrovammo all’ingresso del villaggio di Bamyan!
La vallata si era allargata da alcuni chilometri: sulla destra era delimitata, a circa un chilometro dalla pista, da una muraglia alta e continua di roccia rossa contro la quale si scaricavano illuminandola gli ultimi raggi del sole di quel giorno, mentre sulla sinistra le montagne si erano allontanate sfumando verso l’orizzonte il loro inseguimento di luci e di ombre in una leggera nube di foschia!
Il villaggio si estendeva in lunghezza costeggiando a distanza la muraglia rocciosa, il fondo della valle era ricoperto di verde: finalmente! Una fila di alti Ontani costeggiava la strada, guidandola verso il centro del villaggio.

Notai sul bordo della pista un grosso Kuchi Sak, il poderoso cane dei nomadi, discendente diretto del “Tibetan Mastiff”, progenitore antico di quasi tutte le razze molossoidi diffuse nel mondo ed importato a Roma dai Condottieri Romani che lo denominarono “Canis Pugnacee”. Assieme al molosso d’Epiro anche lui discendente del Tibetan Mastiff, essi lo elevarono ufficialmente al rango di micediale arma di attacco negli avamposti di guerra! Il grosso cane era gravemente ferito: giaceva disteso sul ciglio della strada con il pelo fulvo macchiato in più parti di sangue rappreso ed al nostro passaggio sollevò a mala pena la grossa testa per poi subito riabbandonarsi alla sua sofferenza!
Da sempre ho amati ed amo svisceratamente tutti gli animali, ma con il cane ho in più avuto un feeling particolare che in alcune circostanze ha perfino condizionato il corso della mia vita!
Subito dissi concitatamente a Zahed di fermarsi ed egli lo fece perplesso così come erano perplessi tutti gli altri, non afferrando la ragione di tanto impeto! Scesi dal Toyota ed avvicinai il cane: era più morto che vivo!
Mi chinai su di lui e stesi la mano per accarezzarlo: con un ruggito profondo e cupo, il bestione sollevò il capo mostrandomi minaccioso i temibili canini, ma non riuscì a muoversi di più, per fortuna!
Sentì i passi di qualcuno che si avvicinava alle mie spalle: era un vecchio Afghano dall’aria nobile, vestito completamente di bianco, con una fluente barba bianca che gli nascondeva completamente la bocca ed un grande turbante bianco sulla testa. Aveva in mano un recipiente pieno d’acqua: serio e calmo mi disse qualcosa di incomprensibile e con la mano mi fece segno di stare lontano allargando gli occhi in segno di pericolo! Mi alzai ed arretrai di un passo! Egli si abbassò vicino al cane che dimenò debolmente la coda e gli sollevò delicatamente la testa per farlo bere: poi con il resto dell’acqua, lo rinfrescò e tentò di pulirgli le ferite!
Provai a chiedergli qualcosa: “cos’è stato?”, gli chiesi, “un’auto?”, “Car?”, indicandogli il pulmino, il gesto muovere il volante e quello di un impatto! Mi guardò e con aria rassegnata e sinceramente addolorata per il destino del suo magnifico cane, allungò il braccio indicandomi il centro della strada alle mie spalle: ad una cinquantina di metri, un’altro Kuchi Sak, enorme, dal mantello scuro, le orecchie amputate rasente al cranio, poderosamente consapevole della sua forza, stava immobile come una scultura e fissava verso di noi, nella direzione del rivale sconfitto! Capì che se quest’ultimo si fosse solo mosso un pò di più, il “Campione” gli sarebbe volato addosso per finirlo!
Battei affettuosamente la mano sulla spalla del vecchio, ero commosso ed incredulo che qualcuno laggiù, provasse un sentimento di amore per un cane! Raggiunsi gli altri: Claire ed Ursula mi accolsero con una certa insofferenza, impazienti com’erano di arrivare a destinazione, mentre Mag e gli altri vollero sapere cos’era successo al cane!
Dopo appena duecento metri, raggiungemmo passando accanto al “Campione” che non si mosse di un millimetro, il centro del villaggio! La luce del giorno
era ormai molto fioca e sotto i porticati rudimentali delle casupole allineate ai lati della strada, qualcuno aveva accese le lampade ad acetilene: ci fermammo davanti all’ “hotel Bamyan”, una casupola come le altre ed un tale alto, magro con baffoni neri, si fece avanti per accoglierci: parlava inglese, ci disse che poteva ospitarci tutti ma che alcuni di noi avrebbero dovuto occupare le camere nella casa di fronte al di là della strada. Mag, Alfredo ed io, avemmo  una delle camere dell’ “Hotel”: il tale, accese un bastoncino d’incenso e partì davanti a noi indicandoci di seguirlo! Passò nel retro, entrò in una stanza con il pavimento in terra battuta ed il soffitto in fascine, dove c’era un cavallo legato al muro per le redini e da quella in un’altra attigua sempre in terra battuta e con il soffitto in fascine dove c’erano tre letti afghani lungo il muro di mattoni e calce.
Sistemò il bastoncino in una crepa del muro ed uscendo ci fece capire che la “toilette” era nello spiazzo retrostante l’ “hotel”.
Prendemmo la cosa nell’unico modo ragionevole possibile cioè ridendoci sopra come sempre , lasciammo gli zaini indossammo maglie più pesanti ed uscimmo subito smaniosi di ambientarci in Bamyan ed alla ricerca di qualcosa da mettere nello stomaco: Mag prima di uscire, mi chiese di accompagnarla alla toilette per una impellenza urgente! Usciti sul retro, nel debole chiarore,
ci lasciammo sfuggire un’esclamazione di sorpresa e stupore: Lui era là davanti a noi, nella sua immensa imponenza, alto, solenne, misterioso e maestoso, eravamo al cospetto del Grande Buddha!
Distava un centinaio di metri, in fondo alla grande spianata, incastonato nella parete di roccia che gli faceva da riparo e da gigantesca cappella: dalla strada non era visibile, nascosto dalla stretta fila di case e dagli alberi, mentre, così, era visibile in tutta la sua grandiosità!
Senza distogliere lo sguardo, ci dirigemmo per una ventina di passi nella sua direzione, ci fermammo e ci sedemmo per terra ad ammirare il suo sonno sereno al crepuscolo.
Dietro di noi, il debole vociare proveniente dal villaggio, davanti a noi la sua solitudine,il suo enigmatico silenzio senza volto!
Restammo finchè il buio non ne avvolse completamente l’immagine: Mag mi si strinse al braccio rabbrividendo come una bambina spaventata ed attratta contemporaneamente da una fiaba di maghi e di streghe, l’aria era molto fresca!
Raggiungemmo gli altri che si erano seduti attorno alla luce della lampada della casa da thè poco distante, al di là della strada, sulle stuoie poste per terra sotto al portico di tronchi e fascine: il posto era pieno di gruppi di afghani che ci osservarono mentre ci univamo agli altri e poi ripresero a parlare indifferenti ed a fumare i loro “chilum”.
Notai seduti fra loro due giovani, due Americani, i quali parlavano con gli afghani in pashtu con molta familiarità e confidenza gesticolando con la loro stessa grazia e con le stesse movenze, (mi dissero in seguito, che erano dei volontari e che insegnavano ai bambini, nella scuola: ma ebbi l’impressione che la verità fosse un’altra, sentivo “puzza” di CIA!) ma la nostra attenzione a quel punto fu attratta dall’arrivo silenzioso ed improvviso di una carovana!
Alla sua testa c’era un vecchio seduto sul dorso di un asino, ricoperto di polvere e dall’aria provata, seguito da altri due giovani a piedi e da un numeroso gregge di capre “con le mutande”: dal fondo del gregge un grosso kuchi sak dal pelo chiaro, raggiunse baldanzoso la testa della carovana!
Dal buio, sbucò come un lampo il “Campione” che si piazzò con arroganza davanti all’ “intruso” arrestandosi immobile, muso contro muso, fissandolo negli occhi teso come la corda di un arco, mostrando tutta la sua imponenza ed emettendo un ringhio cupo e sordo come se volesse dirgli, “tu di qua non passi!” ! Ad occhio e croce, guardandolo ben da vicino, sarà stato non meno di sessanta-settanta chili di ossa poderose e muscoli: il lungo mozzicone della coda era portato in alto e
vibrava nervosamente! L’altro cane, che per il solo fatto di essere diventato adulto non  era di certo un novellino, reagì restando a sua volta immobile, ringhiando in atteggiamento di minacciosa e determinata attesa studiando l’avversario!
Non appena gli Afghani si accorsero della situazione, si alzarono con eccitazione e si allinearono ai lati della strada racchiudendo i due cani in una specie di ring: a voce bassa ma tutti insieme, cominciarono ad aizzare il “Campione” di Bamyan, sussurrando con monotonia “shhh,sak, sak, sak, shhh, sak, sak”: i due splendidi animali cominciarono a mostrare l’un l’altro i terribili canini, arricciando il naso e tirando sù i labbri ringhiando paurosamente! Il “Campione” reagì allo stimolo del pubblico e balzò con la sorprendente agilità del lottatore esperto cercando di sorprendere alle spalle l’altro, che compì a sua volta una veloce piroetta su se stesso continuando a fissarlo negli occhi ringhiando: ma il “Campione” replicò immediatamente l’attacco e questa volta la mossa gli riuscì! Avvinghiò il dorso dell’avversario con le grosse zampe anteriori come se volesse montarlo e sferrò il suo colpo fatale cercando di azzannargli il dorso del collo: ma l’altro era un esperto e parò il colpo, abbassandosi sull’anteriore allargando le zampe e protendendo il collo verso il terreno davanti a lui, impedendo all’assalitore di mordere!
Il sangue mi ribolliva: da un lato volevo integrarmi ed assistere a quanto accadeva, ma dall’altra, la brutalità dello spettacolo e l’epilogo feroce che il cane morente mi aveva preannunciato arrivando, mi spingeva ad intervenire per impedire quel massacro!
Con un irresponsabile moto di pura follia, senza ragionare, forzai il cordone della piccola folla e balzai urlando sui due cani: afferrai il “Campione” che manteneva la sua posizione di vantaggio, per le zampe posteriori con tutta la forza di cui potei disporre e le sollevai da terra; istantaneamente lui mollò la presa delle zampe anteriori ed allora puntandomi sulle gambe lo “scaraventai” per quel che mi riuscì, il più lontano possibile per non essere morso a mia volta!
L’altro sentendosi di nuovo libero, si voltò velocissimo e …per fortuna, fu afferrato per la grossa fascia di cuoio che gli cingeva il collo, da uno dei due giovani carovanieri che riuscì a tenerlo! Il “Campione” riavutosi dal momentaneo disorientamento, si stava per lanciare di nuovo, quando una secchiata d’acqua lo inondò e qualcuno prese anche lui trattenendolo!
La piccola folla , non era però disposta a rinunciare allo spettacolo, e quindi si accalcò urlando e gesticolando minacciosamente, questa volta contro di me!
Il vecchio vestito di bianco, con un recipiente vuoto in mano, si fece largo tra la folla e si mise ad urlare contro quelli che mi minacciavano, in modo altero ed imperioso: qualcuno tentò di far valere le sue ragioni, ma egli lo azzittì immediatamente con severità , quindi, tutti, con il capo chino come si conviene per onorare un capo e portando la mano sul cuore, si ritirarono sulle stuoie mestamente senza ulteriori discussioni!
Capì che era sicuramente il capo od uno dei capi del villaggio, mi avvicinai e portandomi anch’io la mano sul cuore, tentai di dirgli qualcosa in segno di gratitudine:  lui si era voltato e senza considerare la mia presenza, era  già scomparso nel buio!
Una parte di me era soddisfatta per aver impedito lo scempio che uno dei due possenti lottatori avrebbe fatto dell’altro, l’altra invece covava una specie di senso di colpa per aver interferito emotivamente sulle usanze di quella gente! Ma tutto sommato ero sereno! Nel  gruppo, le opinioni sulla mia impulsiva ed invero irresponsabile “iniziativa”, erano divise e contrastanti: Alfredo era stranamente dalla mia parte, Mag era a metà strada, gli altri fortemente critici!

Nessuno, per il resto della sera si interessò più a me e dopo aver consumata una ciotola di quella zuppa che loro chiamavano “goulash”, andammo a dormire! Ben presto ci rendemmo conto che la “stanza” aveva altri “ospiti”, quando cominciammo a grattarci tutti come un cane randagio: era infestata dai pidocchi!
Fortunatamente, avevo preso con me il “Mom”, cospargemmo alcuni degli indumenti ed i letti con la polvere, ci avvolgemmo i capelli con gli asciugamano e quindi riuscimmo a dormire!
La luce del primo mattino, conferiva alla valle le tonalità di colore più belle: il paesaggio era meraviglioso! Il  rosso acceso delle rocce era interrotto dalle strisce d’ombra dei calanchi sottili, provocati dalle piogge! La parete, lunga svariati chilometri, era tempestata da centinaia di piccole caverne scavate dai monaci buddhisti : esse avevano costituite le loro celle durante l’epoca dell’insediamento della comunità monastica. Nella parte più centrale era stato scolpito il gigantesco “Buddha in piedi” o “Grande Buddha”, più lontano, a circa 1500 metri, il “Buddha seduto” o “Piccolo Buddha”!
Il Buddhismo fu introdotto in quest’area , attorno al 3° secolo a.c.. Trovò un terreno fertile e si insediò saldamente nelle province di Gandhara comprendenti l’Est dell’Afghanistan ed il Nord del Pakistan, attorno al primo e secondo secolo d.c., sotto l’egida del grande condottiero Kushan, Kanishka.
A quel tempo l’Afghanistan occupava il “cuore” della “via della seta”: tutti i viaggiatori per via terrestre da Est verso Ovest, erano obbligati a transitare attraverso quella strada stretta ed impervia che era l’unica possibile per valicare l’ Hindukush e con loro, la ricca seta dalla Cina, le fini porcellane da Alessandria, oro ,argento, le statue bronzee da Roma e gli oggetti di avorio splendidamente decorati dall’India. Molti di queste preziose testimonianze negli anni furono rinvenute nel corso di ricerche archeologiche effettuate in Afghanistan!
Aggregati alle carovane di preziose mercanzie, i monaci buddhisti viaggiarono in sù ed in giù, insegnando la loro religione lungo il tragitto. Nei primi secoli dell’era Cristiana, l’Est dell’Afghanistan era ricco di Monasteri Buddhisti e di monaci: in questo ricco e tranquillo contesto, emerse una nuova forma di arte, che assunse il proprio nome dalle province nelle quali si manifestò:
L’arte di Gandhara! L’origine di questa corrente artistica, fu plurifattoriale, ma certamente essa risentì molto degli influssi Ellenistici, individuabili proprio nella orditura meticolosamente descrittiva dai drappeggi dei Buddha.
In questo substrato ricco di ispirazione Buddhista, furono costruiti i due capolavori che superavano gli altri in altezza con le spalle ed il capo: i due Buddha di Bamyan! Questi due “giganti”, erano (purtroppo) rispettivamente alti 53 e 38 metri!
Nella bellissima valle di Bamyan, le carovane in viaggio sulla via della seta, invariabilmente effettuavano una sosta: la valle rappresentò uno dei maggiori centri Buddhisti dal secondo secolo, fino all’epoca dell’avvento dell’Islam che fu nel nono secolo d.c.. Le due statue furono scolpite nella roccia, presumibilmente attorno al quarto, quinto secolo; esse furono rivestite da un intonaco composto da un impasto di fango e paglia, per modellare la faccia, le mani e le ricche
pieghe degli indumenti ed alla fine furono dipinti, il “Piccolo Buddha” di colore blu ed il “Grande” di rosso, con i volti e le mani color oro! Uno spettacolo sicuramente molto impressionante e suggestivo per i monaci ed i carovanieri di passaggio attraverso l’arido ed aspro paesaggio circostante, i quali finalmente raggiungevano la bellissima valle, trovandosi di fronte le gigantesche immagini colorate dei Buddha con le loro espressioni serene e rassicuranti !
In seguito, i decori dei Buddha furono distrutti dai numerosi attacchi messi in atto dall’ iconoclastia Islamica e non : la furia iconoclasta aveva l’obiettivo di “privare dell’ anima” le immagini odiate, con la distruzione od al limite con la deformazione, delle mani e del volto! Trascorsi ore intere ad ammirare la bellezza indefinibile di quei grandi capolavori stagliati nel loro secolare silenzio così maestosi e  nello stesso tempo così fragili ed indifesi: lo feci camminando e fermandomi di continuo,come se non potessi trovare pace da nessuna parte, cercando tutte le angolazioni visive possibili,  non riuscivo a distogliere lo sguardo, cercando di capire esattamente quali fossero le sensazioni che esse mi ispiravano, ma a parte lo stupore ed il grande misticismo, ancora oggi mentre sono qui a concentrarmi per ricordare e somatizzo la stessa sensazione, non riesco a definirne nè la vera causa nè l’esatta risposta percettiva!
Fu come se i raggi del sole, riflettendosi sulle grandi statue, rimbalzassero convergendo nella mia mente, scompaginando in un momento sentimenti, certezze, coscienza e fantasia!  Soltanto altre due volte finora, nella mia vita , ho provato sensazioni di paragonabile intensità: al cospetto del Taj Mahal e nel cuore della foresta tropicale pluviale!
Ma quella, forse soltanto perchè fu la prima volta della mia vita o forse perchè la tragedia assurda della loro distruzione mi dà ora la drammatica certezza che non potrà più ripetersi , non potrò mai più dimenticarla !
Forse, inconsciamente, percepì un messaggio di addio, di “non ci rivedremo mai più”, sussurrato in silenzio dai Giganti Pacifici quando lasciai la valle con una stretta al cuore: un messaggio del quale allora non potei comprendere la drammaticità, ma che ora ha invece un senso compiuto!
Ed è qui che si ferma il mio viaggio: voglio assaporare il più a lungo possibile le nitide immagini che la forte memoria di cui la natura ha voluto dotarmi, mi ha riportate nella mente, negli occhi, nel naso, nelle orecchie e nel cuore!
Il viaggio, nella realtà non finì a Bamyan: raggiunsi i bellissimi laghi nelle vallate “extra-terrestri” di Band-i-Amir. Durante il ritorno a Kabul, avemmo un incidente per fortuna solo spettacolare, mentre alla guida del Toyota era Jamal, strafatto di “black”: all’uscita da una gola sabbiosa in discesa, il guitto che in quel momento cantava a squarciagola,  voltandosi di continuo per sorridere alle ragazze, si trovò davanti all’improvviso una carovana che procedeva in senso contrario: colpo di freno, sterzata brusca e… “patapunfete!” il pulmino si trovò a gomme per aria!
Fortunatamente nessuno di noi riportò danni superiori a qualche graffio e qualche ammaccatura, ma principalmente, fummo in grado anche con l’aiuto dei carovanieri e dei loro dromedari, di rimettere in assetto il Toyota, per poter riprendere la marcia!
Da Kabul, dove ci separammo dai francesi, Alfredo, Mag ed io, andammo con Ford sù al nord fino a Mazaar-i-shariff, poi a Maimana, quindi, dopo un inutile tentativo di raggiungere il Pamir, tornammo a Kabul da dove ripartimmo per il Pakistan e L’India del Nord, attraversando il mitico Kyber pass!
Mag, ripartì per Londra da Peshawar, le sue ferie erano terminate: grandi promesse, “ci vediamo appena torni”, “vieni a stare a Chester” ecc. ecc., ci sentimmo per telefono alcune volte, ma non la rividi mai più!
Alfredo, fece il viaggio di ritorno fino a Bari con me (la frontiera Turco/Greca, era chiusa a causa di una epidemia di Afta Epizootica, sicchè dovemmo deviare attraverso la Bulgaria e la Jugoslavia e prendemmo il traghetto per Bari da Dubrovnik): anche il ritorno fu ricchissimo di avventure ed avvenimenti che magari un giorno racconterò in un’altra occasione.
Vi anticipo solo, che prima della frontiera Iraniana, lo feci scendere dal pulmino ed attraversare a piedi per suo conto il varco doganale, poichè sapevo per certo che aveva con se del “black afghan”, anche se lui spergiurava di no, e non volli correre rischi! In seguito, non l’ho mai più rivisto!
E l’Afghanistan? Dov’è l’Afghanistan oggi? E’ sempre lì, tra i suoi monti, le sue bellissime valli, immobile, immutato, con le carovane dei nomadi che vanno e vengono con la solita andatura nella luce bianca dei deserti, mentre il tempo passa travolgendo in tutto il resto del mondo tutto quello che costituiva fino a qualche anno fà ,valori, tradizioni, cultura!
Questo ormai inarrestabile fermento privo di ogni razionalità, non ha ancora del tutto inquadrato nel suo infallibile mirino questo Paese bellissimo, seppur dilaniato da guerre atroci e dal dolore delle genti che ancora laggiù vivono e nel quale ancora oggi persiste malgrado tutto, la genuinità di una cultura antica, autoctona, solo parzialmente sfiorata da noi, ma non ancora contaminata!  Non credo che ciò potrà sopravvivere molto a lungo: nessuno oggi, può concedersi la libertà di non essere allineato al sistema, è il sistema stesso che non lo prevede, quindi sarà solo una questione di tempo, ma prima o poi qualcuno forzerà questo scrigno e ne disperderà con indifferenza i preziosi ed antichi contenuti al vento, in un baleno e, prima o poi, vedremo sugli scaffali di un’ Agenzia di viaggi, un bel programma con il Tour “all inclusive”: quel giorno segnerà la sua fine!

Beppe Quarta ( alias Gimaqu )


Ndr: Sul sito dell’autore troverete le foto di questo viaggio, nonchè quelle del suo ritorno in Afghanistan per scopi umanitari dopo 30 anni ( Febbraio 2003 )
http://www.beppequarta.it/